Calde sere di Haiti in un mondo di fiaba
Il Tempo,· 1956
Racconti popolari e danze folkloristiche incantano il viaggiatore
Port-au-Prince, febbraio
Nelle calde sere dei villaggi di Haiti, si fa circolo intorno al narratore anziano, per ascoltare l’ennesima avventura di personaggi famosi, come Bouqui e Ti-Malice, che rappresentano rispettivamente la bontà rozza e poco intelligente, e la spiritosa astuzia. Le storie sono precedute da formule difficilmente traducibili – importate dalla Brettagna o locali – con cui vengono appurate le buone disposizioni di chi racconta, e stabilito quante favole è disposto a recitare.(Cric? Crac! – Time? Time! – Bois? Bats sèche! Combien li donné? Deux!) E le narrazioni hanno inizio, spesso canticchiate, o inframmezzate da canzoni e proverbi.
I temi dei racconti popolari haitiani sono di varia origine. Alcuni sembrano trasportati d peso dal Nord-Africa o dallo Zululand; altri sono di evidente derivazione francese, e specialmente brettone; altri, infine, ripetono motivi strettamente locali, e vi si dice di contrasti fra bianchi e indigeni, di strane avventure di Santi del Cristianesimo alla prese con usi e costumi di un Aldilà in cui si parla creolo e si abbrustolisce il granturco… Tutto ciò, su una vena in genere bonaria e umoristica poiché salvo casi particolari, e pur nelle non liete condizioni in cui si svolge la sua vita, l’haitiano ama lo scherzo, è pronto al giuoco ed al sorriso.
Canto collettivo
Ma l’ascolto passivo dl un raconteur, se appaga i fanciulli, non basta a soddisfare il bisogno di esprimersi dell’anima popolare haitiana. Ogni occasione é buona per il canto collettivo: anche trascinar pesi o portare al largo le imbarcazioni, come provano le canzoni boulas dei facchini, o i chantés-godillés dei rematori; ma soprattutto per la danza, quasi sempre accompagnata, oltre che da strumenti, anche dalla canzone. Se non sono elaborate da musicisti troppo «informati», le canzoni di danza sono all’unisono, e assumono di preferenza il ritmo della merengue, che è considerata la danza nazionale.
Gli strumenti locali comprendono in primissimo luogo i tamburi, di tutte le forme e dimensioni. Nel trarre ritmi complicati e originali, con le sole mani, dai grossi tambours-loas, alcuni Haitiani sono veri maestri, e certi loro «a solo» sono stati consacrati in dischi americani di grande successo. Seguono fisarmoniche, rozzi violini, e un misto di strumento a corda e a percussione, la catorine.
Giova ricordare che, la danzatrice-etnologa Katherine Dunham, tanto nota anche in Italia, ha tratto larga ispirazione, nelle sue esecuzioni, dalla musica e dalle danze haitiane.
La festosa boriarietà dei racconti popolari, come delle canzoni haitiane, è in diretto rapporto con il carattere del popolo, che non sembra aver conservato del triste periodo della schiavitù, e delle laboriose vicende della sua più recente storia, alcuna particolare inclinazione alla depressione o alla diffidenza. Interpellati in creolo, o in un francese semplificato, uomini, donne e bambini si mostrano contenti dell’ interesse dell’europeo. Una o due sigarette, fumate in compagnia, stabiliscono tosto un’atmosfera di «vecchie conoscenze».
Questa affabilità, questa gentilezza – che, giova ripeterlo, non sono soltanto della elite haitiana, ma anche del più povero contadino analfabeta smentiscono totalmente la nozione, ancor oggi diffusa da qualche scrittore superficiale o malintenzionato, di una popolazione indigena tuttora, in fondo, legata a un’originale, africana barbarie; di gente capace di atroci riti e di sanguinose crudeltà. Beninteso: esiste la superstizione, esistono episodi di fanatismo e d’intolleranza, sussistono cerimonia religiose molto più vicine a quanto può accadere nella foresta equatoriale che non a ciò che suole svolgersi in una cattedrale di Roma o di Parigi… Ma ciò non autorizza a considerare barbaro o incivile un popolo presso il quale sono rarissimi l’omicidio, l’infanticidio o il delitto passionale, e che ignora il banditismo o i traffici di droghe, piaga di taluni grandi Paesi «civili». D’altronde: forse che in Italia, come in Francia, come negli Stati Uniti, mancano esempi di fanatismo cieco e di irrazionalità superstiziosa?
Rara sensibilità
Della religione degli Haitiani diremo in un prossimo scritto. Vorremmo ancora, qui, ricordare alcune tra le espressioni più raffinate della sensibilità di questo popolo: le arti figurative – delle quali ho visto manifestazioni di incredibile potenza primigenia al «Centre d’Art» di Port-au-Prince; il teatro, che ha dato fra l’altro un delizioso lavoro in creolo, Choucoune, cui la musica di Moléard-Montons ha conferito grande popolarità; e una pleiade di prosatori e romanzieri, troppo spesso costretti all’inedito dalla mancanza, in Haiti, di una editoria veramente organizzata. Di essi ha detto un saggista francese di non facile contentatura, Daniel-Rops, che il «francese ch’essi adoperano è saporito, vigoroso, per certi aspetti anche più puro di quello di cui si servono parecchi scrittori francesi d’oggi, con qualcosa di rude e di esotico che ne furono – sono legione.
In un libro consultato prima di partire, avevo letto che in Haiti – e l’autore se ne indignava – esiste la poligamia. Non è esatto. Esiste tuttora, nel popolo contadino, una sorta di convivenza paramatrimoniale chiamata plaçage: specie di unione libera o, come la chiama Dantès Bellegarde, di connubium injustum, «che in molti casi è più solido di un matrimonio regolare». Il costume ha ben determinate origini storiche, dal tempo in cui il concubinaggio era la regola tra i colonizzatori bianchi, e gli schiavi raramente si sposavano secondo il rito e legge. Duri motivi economici spingono tuttora il coltivatore haitiano ad avere diverse donne in varie zone limitrofe: il che gli assicura una prole numerosa, e pertanto una mano d’opera a buon mercato. Ma il plaçage praticamente più non esiste nella classe evoluta, e l’articolo della Costituzione del l950 difende e incoraggia il matrimonio, «tendant à la pureté des moeurs en contribuant à une meilleure organisation de la famille». In condizioni che appena appena lo consentano, giovane haitiano s’innamora e vuole sposarsi, non avendo occhi che per la sua Zabéla, Emerante o Lisette. E anche come da tutti gli innamorati di tutto il mondo, nascono spontaneamente strofe e canzoni, il cui tema sempiterno è la ragazza lontana, che un giorno tornerà. «Lisetta ha lasciato la pianura, ed io ho perduto la felicità. I miei occhi sembrano fontane, da quando non ti ho più veduta».
«Un popolo che canta e soffre, che pena e ride, che danza e si rassegna» – concluderemo con le parole del «grande vecchio» di Haiti, l’illustre Jean Price-Mars.
Emilio Servadio