Le « Avventure di Pinocchio » all’esame della psicoanalisi
Nuove interpretazioni dell’immortale storia di un burattino
Il Grillo parlante, il mite Geppetto, il burbero Mangiafoco, la Volpe,
il Gatto, la bellissima Fata dai capelli azzurri
sono tutti simboli i quali esprimono la candida anima di Collodi
Il Tempo 03/10/1954
La letteratura su Pinocchio e sul Collodi si è molto arricchita in questi ultimi dieci o quindici anni. Luigi Volpicelli, in un recentissimo studio (La verità su Pinoccho; Avio, Roma. 1954), cita monografie e articoli in abbondanza: una abbondanza che leva il respiro, e che testimonia della straordinaria vitalità di questa « storia di un burattino » scritta quasi senza parere.
Quali sono le, ragioni del grande interesse che· le Avventure di Pinocchio seguitano a destare anche in filosofi e critici severi? A un certo punto, facendo sue le parole del buon Guido Biagi, e sottolineandole, Volpicelli sembra ammettere che «il segreto di Pinocchio consiste nel non essere stato né pensato né scritto sulla falsariga, nell’essere riuscito una fiaba di quelle che si raccontano a veglia, nel parer vero e nell’essere vivo, come le pagine che la fantasia collettiva colorisce e racconta ». E poco prima aveva ricordato: « Così non v’ha dubbio che Pinocchio sgorghi natirale. “come di vena, dai più reconditi meandri della psiche del Collodi, frutto di reminiscenze antiche e quasi infantili, echi lontani di un mondo ignoto che si risvegliano e risuonano spontaneamente… bocci dimenticati che rigermogliano in una tarda primavera…” ».
Tuttavia nella conclusione Volpicelli considera un arbitrio l’aver cercato di separare, come qualcuno ha fatto, Pinocchio dalla sua morale; una morale le cui massime «vengon su dalla novellistica, dalla saggezza, dalla tradizione del nostro popolo, esprimendone l’anima più profonda ».
« Imago » vitale
La tesi di Volpicelli ci sembra giusta, ed è certo filosoficamente legittima. Chi tuttavia é abituato, a indagare prescindendo dalla «riuscita» estetica nei motivi inconsci di questa o quella creazione umana, non può a meno di volger lo sguardo e la ricerca verso quei « reconditi meandri » della psiche i quali tanto spesso appaiono costituire le premesse illuminanti di una situazione letteraria o di un’intera opera. Che cosa potremmo realmente capire delle profonde risonanze collettive dell’Amleto o dei Fratelli Karamazov senza questa ricerca psicologica rispettosa dell’analisi estetica o della valutazione morale, ma non inferiore a esse in importanza e dignità?
In primo luogo, ci sembra evidente che Pinocchio all’inizio è soprattutto l’esternalizzazione di una imago estremamente semplice e vitale, avente connotazioni simboliche sin troppo chiare per chi abbia qualche nozione di psicoanalisi: prima tra queste il lungo naso, che può, per giunta cambiare dimensione. Tali aspetti ravvicinano il Pinocchio primitivo appena uscito dal legno a maschere e personaggi burattineschi ben noti, ed in particolare a Pulcinella (si tenga presente il bastone e il naso adunco di quest’ultimo). Subito dopo questa immagine di Pinocchio primigenio si fonde in quella di un burattino-bambino dominato da semplici istituiti: l’aggressività e la fame. Pinocchio tira calci, fa sberleffi, scappa, è acchiappato, vuol mangiare. Gli inizi di un’embrionale coscienza morale (il Grillo parlante) vengono subito soffocati; ma anche in assenza di questa rèmora, si delinea quella ostile, del mondo esterno: prima l’acqua poi il fuoco mostrano a Pinocchio che il «principio del piacere » on può essere seguito senza pericolo. Naturalmente, la lezione non serve – e per buona parte le avventure di Pinocchio costituiscono precisamente in una serie di urti fra l’istinto e la realtà esterna, o fra l’istinto e le «persone grandi», rappresentate da figure benevole, minacciose, insulse, sentenziose, terrificanti. La gamma di queste figure è vastissima e ciò costituisce a nostro avviso uno dei lati più affascinanti dell’opera. Dal mite Geppetto al burbero Mangiafuoco, dal Contadino sbrigativo all’orrendo Pescatore verde, dalla coppia bonaria dei Carabinieri a quella delinquenziale della Volpe e del Gatto o al diabolico Omino che lo conduce al Paese dei Balocchi: queste «potenze» che Pinocchio incontra nella sua tormentata strada – e appena sfugge ad una s’imbatte nell’altra…
Sono – si noti – tutte figure maschili (compresa la Volpe che è veramente un Volpone), tranne una: la Fata. Questo ci sembra assai significativo e ci pone il problema dell’atteggiamento psicologico ed emozionale del Collodi nei riguardi della femminilità. Da quello che si sa, o che si può legittimamente inferire, l’autore di «Pinocchio» non era psicologicamente «adulto» nei confronti dell’altro sesso; e, come avviene di regola in questi casi, era notevolmente «fissato» alla figura materna, sia nella realtà, sia, e probabilmente più ancora, nell’inconscia fantasia. E’ a tutti noto che quello di Collodi assunto da Carlo Lorenzini come pseudonimo, era il nome del paese di nascita della madre: ed è noto ai suoi biografi che «finché visse la sua mamma» – come ha scritto un suo parente – Collodi «non si coricò una sera senza chiederle un bacio e la sua benedizione». Le dava· del “lei” e la trattava coi riguardi dovuti a persona di alta levatura. Spesso sottoponeva al giudizio di lei i suoi lavori, facendo tesoro dei consigli che si permetteva dargli! ». La figura di questa madre idealizzata è dunque come chi scrive ebbe a mostrare con maggiore sviluppo di argomenti, sin dal 1937 (Circoli, anno VI n°2), la chiara premessa psicologica della Fata dai capelli turchini: la quale, in Pinocchio, e senza che ciò possa giustificarsi se non in sede di psicologia del profondo, appare infatti dapprima come una irreale creatura dell’Aldilà ( nel modo cioè più vicino all’immagine che ne conserva l’autore, cui era per giunta familiare la tradizione celtica del soprannaturale); e solo nel seguito del racconto si umanizza e diventa veramente mamma. E’ l’unica donna con cui Pinocchio ha rapporti affettivi. Nella storia non ci sono altre figure femminili.
Sogni dell’inconscio
I pochi simboli che lo psicologo avvertito può considerare come indicativi di tali rapporti sono piuttosto allarmanti, e mostrano a quali arcaiche fantasie essi corrispondessero nell’inconscio del Collodi. Si pensi, per citarne uno solo, alla rappresentazione simbolica del processo del concepimento e della nascita nell’episodio dell’immane mostro marino (stretto parente del biblico pesce di Giona), nel quale padre e figlio, con gravissimo pericolo, entrano e albergano – per finalmente uscire (=nascere) e approdare a nuove rive;
Lotta fra impulsi vitali ed ostacoli esterni; conflitto fra istinto e morale corrente o fra istinto ed entità buone o cattive più o meno ridicolizzate, fissazione dello sviluppo psicosessuale al rapporto bambino- madre (largamente « pre-edipico », diremmo noi psicoanalisti: la figura paterna è scialba e svalutata) – questi i motivi psicologici fondamentali che Collodi ha trasferito nelle Avventure di· Pinocchio. Ma ciò – ripetiamo – è poco più che una serie di appunti, provocati dalla lettura dell’agile libro del Volpicelli e da una ennesima scorsa al celebre testo. Un lavoro che ne tenga conto e che li sviluppi in modo adeguato è auspicabile e potrà forse apparire in un tempo non lontano. Dall’integrazione dei vari angoli visuali – storico, estetico, biografico, psicologico – è sperabile possa risultare allora qualche ulteriore « verità su Pinocchio ».
Emilio Servadio