Sviluppi e prospettive della Psicoanalisi
Rivista di Psicopatologia Neuropsichiatria e Psicoanalisi, Anno XIX 1951 fasc.III e IV
Scopo di questo lavoro è prendere in esame alcuni motivi tematici essenziali della teoria psicoanalitica, e mostrare come essi si siano sviluppati in tempi più o meno recenti, sia ad opera di Freud, sia per merito principale di taluni insigni studiosi che hanno lavorato secondo il suo esempio.
Molti di coloro che hanno finalmente potuto leggere in italiano, grazie ad un nostro solerte editore, L’interpretazione dei sogni di Freud, primamente apparsa all’inizio di questo secolo, sembrano avere rivolto la propria attenzione soprattutto alle chiavi esplicative del linguaggio onirico, costruite con genialità sorprendente dal fondatore della psicoanalisi, e non aver notato sufficientemente che in tale classica opera Freud prospetta per la prima volta uno schema interamente nuovo dell’apparato psichico umano. Partendo da una concezione organicistica degli istinti, Freud introduce in tale opera il concetto di tensione intrapsichica, di fronte alla quale, non potendo sottrarsi ad essa con la fuga, l’individuo deve in qualche modo atteggiarsi. Il carattere sgradevole di tale tensione deve essere ridotto attraverso meccanismi di scarica e di soddisfazione, oppure legato da processi difensivi, i quali mirano ad evitare il dolore. L’apparato psichico appare dunque una sorta di mediatore tra realtà interiore e realtà esteriore, fra i bisogni istintivi dell’individuo e le possibilità di soddisfazione che essi possono trovare nel inondo esterno.
Uno dei più importanti sviluppi della teoria, a partire dalle anzidette premesse, riguarda precisamente la concezione degli istinti umani come io stesso ho avuto occasione di indicare in altra sede. La prima classifica di Freud a questo riguardo pose una distinzione risoluta, seppure solo parzialmente elaborata, fra istinti dell’Io e istinti sessuali. Dallo studio dei sogni e del materiale offertogli (la individui analizzati – psiconevrotici e sani – egli giunse ad un altro concetto fondamentale, quello del conflitto psichico; conflitto che in un primo tempo egli pensò come dovuto ad un urto fra le tendenze dell’lo e quelle sessuali, con il risultato che talune fra queste ultime venivano permanentemente accantonate fuori del campo della coscienza, mediante un processo automatico (detto di « rimozione »).
Il fallimento della rimozione aveva come conseguenza un ritorno del materiale rimosso in forma mascherata nella forma, ad esempio, di un sogno o di un sintomo.
L’analisi degli impulsi rimossi portò, già in un primo tempo a conclusioni rivoluzionarie per quanto riguardava la loro intrinseca natura. La sessualità adulta apparve, in particolare, come il prodotto terminale di un lungo processo di sviluppo, come l’integrazione di tendenze attive nell’individuo sin dalla prima infanzia, e non giù, conte prima si supponeva, limitate alla spinta verso la riproduzione. In un’altra classica opera apparsa nel 1905, Freud, anticipando di vari decenni ciò che oggi è pacificamente ammesso dalla stragrande maggioranza dei sessuologi, individuò le caratteristiche della sessualità infantile, i cosiddetti «istinti parziali », le zone di particolare sensibilità erogena la cui dominazione si sussegue volta a volta nella normale evoluzione del bambino.
In questa prima fase della teoria psicoanalitica l’apparato psichico appariva come un sistema duale, nei suoi aspetti di cosciente (o di potenzialmente cosciente) e di inconscio, considerato come facente tutt’uno con il rimosso. La vita psichica poteva essere descritta dinamicamente in termini di spinta degli istinti sessuali e di relativo conflitto. L’lo era ancora praticamente inesplorato, e i meccanismi psichici difensivi identificati erano soltanto quelli rivelati dall’analisi della nevrosi isterica e del sogno, ossia, sostanzialmente, quelli della rimozione e dello spostamento. E’ interessante notare, a questo proposito, che ancora attualmente, e fra l’altro in opere anche recenti di divulgazione apparse nel nostro Paese, sono questi, di regola, i soli meccanismi di difesa riconosciuti e descritti.
Per molti, ancora oggi, il nucleo essenziale dei contributi psicoanalitici consisterebbe unicamente nell’aver dimostrato lo allontanamento dalla coscienza di certe rappresentazioni, ed il loro riapparire « in maschera », per motivi non meglio identificati, nel lapsus, nel sogno o in altre manifestazioni psichiche normali od anormali.
L’approfondimento della teoria degli istinti, con tutte le relative implicazioni, contrassegnò in buona parte il successivo periodo di sviluppo della psicoanalisi. Gli interessi istintuali del bambino apparvero allo stesso Freud assai più nettamente rivolti, già in età precoce, alle persone e agli oggetti circostanti, e dar vita a una situazione centrale triangolare, cronologicamente posta da Freud fra i tre ed i cinque anni di età. Questa situazione, associata con una prima, intensa focalizzazione della sessualità infantile sull’apparato genitale, e con relative paure di danneggiamento e angosce di abbandono, è l’universalmente famoso «complesso edipico» – forse il «motivo» psicoanalitico su cui sono state scritte più inesattezze da parte dei non competenti. Negli anni della prima guerra mondiale, e in quelli immediatamente successivi, fu consolidata la nozione della fissazione alla fase edipica quale precondizione principale delle psiconevrosi, e nel 1924 Karl Abraham effettuò il primo tentativo di classificazione dei disturbi psiconevrotici secondo la maggiore o in minore profondità di regressione degli istinti fasi anche pre-edipiche.
Pure in questo periodo ha inizio una «psicologia dell’io » su basi psicoanalitiche. La coesistenza della megalomania con una perdita d’interesse nei riguardi del mondo esterno portò Freud a supporre che l’energia dinamica degli istinti erotici, la libido, come egli l’aveva chiamata, fosse stata ritirata dagli oggetti esterni e fatta convergere sull’lo, dando luogo a uno stato che egli chiamò «narcisistico». Da questa ipotesi, che introduceva una considerazione «economica» nella psicologia dinamica e – topografica già da lui tracciata, Freud giunse a supporre che tutta la libido fosse, in origine, accumulata nell’Io, e che questo effettuasse o ritirasse «investimenti» libidici nei riguardi degli oggetti, press’a poco come un ameba allunga o ritira i propri pseudopodi.
Con l’introduzione clinica, e la generalizzazione in sede psicologica, del concetto di narcisismo, si sorpassa, come è ovvio, la prima concezione di un’antitesi fra istinti sessuali ed istinti dell’lo, fra libido ed lo, dato che l’Io stesso può essere caricato, «investito» di libido. Inoltre, Freud fu portato a ritenere che il narcisismo primitivo infantile si trasformasse in prosieguo di tempo, mediante la formazione di un ideale dell’Io, in amore per questo ideale. In questa concezione di un ideale dell’Io abbiamo, a mio parere, il primo accenno a una differenziazione strutturale nell’lo stesso, e un preludio a tutte le concezioni moderne relative alla formazione del cosiddetto Super-Io.
Intanto, lo studio dei nevrotici ossessivi, effettuato specialmente da Freud e Jones, e quello di certi tipi psicotici, compiuto da Abraham e Schilder sia dal 1924-25, aveva messo in luce l’importanza degli impulsi aggressivi e dei sentimenti di ostilità già nell’infanzia, e della cosiddetta ambivalenza, ossia alternanza di amore e di odio, in molti rapporti oggettuali dell’epoca infantile. In un primo tempo, l’aggressività fu concepita come fenomeno secondario e reattivo, dovuto a insoddisfazioni e frustrazioni. Ma l’indagine psicologica e clinica da un lato, e le nuove esigenze teoretiche sorte dall’introduzione del concetto di narcisismo, dovevano necessariamente portare a chiedersi se il dualismo nella vita istintiva, postulato sin dall’inizio da Freud, non dovesse ricevere una nuova connotazione, e precisamente in relazione all’accertata importanza degli impulsi aggressivi.
Se l’lo era esso stesso, ab origine, oggetto di libido, quale gruppi di istinti, se non quelli aggressivi, poteva concepirsi come antinomico e conflittuale rispetto ad essi? Freud aveva studiato, in molte manifestazioni biologiche, e non soltanto dell’uomo, una tendenza diversa e apparentemente più profonda ancora che non quella, giù menzionata, di ricercare il piacere ed evitare il dolore: la tendenza alla ripetizione, la coazione – com’egli la chiamò – al ripetere. Questa tendenza, visibilissima in certi giuochi infantili, o nei sogni angosciosi della nevrosi traumatica, potrebbe sembrare un ulteriore sistema con cui la psiche tenta di ridurre una tensione istintuale.
Ma secondo Freud, la coazione a ripetere rivela qualche cosa di molto più profondo; attraverso una serie di estrapolazioni a cui egli stesso conferiva un carattere prevalentemente speculativo, Freud giunse a ritenere che l’anzidetta coazione fosse l’espressione larvata di una tendenza organica verso il ripristino di situazioni previtali, cioè verso la morte. Gli impulsi all’aggressività e alla distruzione gli apparvero manifestazioni centrifughe di un vero e propria « istinto della morte », in perenne contrasto, quindi, coli quelli sessuali e vitali, che egli preferì ridenominare « istinti dell’Eros ». Senza pregiudizio delle accennate illazioni speculative, ossia dell’esistenza di un vero e proprio istinto di morte, il contrasto fra istinti distruttivi e istinti sessuali apparve quasi di colpo la logica soluzione, e la fertile premessa, rispetto a tutta una serie di ardui quesiti psicologici. Si compresero i fenomeni del sadismo e del masochismo, espliciti nelle perversioni di questo nome, impliciti in molti atteggiamenti psichici consci ed inconsci. Nei riguardi degli istinti distruttivi, apparvero in più chiara luce alcuni meccanismi di difesa, forse ancora più primitivi della stessa rimozione: quello della proiezione, per cui si attribuisce a un oggetto esterno una propria tendenza inconscia ripudiata, e quello dell’introiezione, per cui ci si appropria di oggetti e di impulsi, veri od immaginari, esterni, che vengono cosi a far parte dell’lo. Infine, il riconoscimento della primarietà di due gruppi di istinti fondamentali portò a una revisione ulteriore dei concetti relativi all’lo e all’inconscio. Evidentemente, come non si poteva più sostenere la distinzione tra istinti dell’Io e istinti sessuali, così non si poteva più far coincidere l’inconscio con ciò che è rimosso.
L’ Io è l’organizzazione più coerente dei processi psichici, include la coscienza e regola la motilità. Una stia parte inconscia presiede alla rimozione e ad altri meccanismi di difesa. Gli impulsi rimossi vengono reimmersi in un più grande serbatoio istintuale, prima fonte impersonale di ogni manifestazione degli istinti, totalmente inconscia. A questa fonte primitiva, alla quale taluni studiosi hanno voluto attribuire caratteri addirittura trans-individuali, Freud diede il nome di Es – pronome tedesco della terza persona singolare neutra. Questo termine è passato tal quale nella lingua italiana. Gli Anglosassoni, più opportunamente, si ricordarono del neutro latino, e adoperarono il termine Id.
Questa più vasta Concezione dell’inconscio e della vita istintiva, la nozione più precisa delle energie alle quali potevano attingere parti differenziate ed inconsci e della personalità psichica, portarono ad una miglior comprensione della genesi e della struttura del cosiddetto Super-Io. Mentre questo in un primo tempo era stato considerato come sinonimo dell’ideale dell’lo, si dovette grado a grado riconoscergli caratteristiche sui generis e una molto maggiore autonomia rispetto alle acquisizioni coscienti dell’lo stesso. Il Super-Io si vide – veniva via via formato con la sostituzione di identificazioni permanenti ai successivi e temporanei « investimenti » oggettuali, e, infine, attraverso l’incorporazione delle immagini genitoriali – specialmente di quella paterna – dopo la dissoluzione del complesso edipico. La primitività e precocità di questi processi, per larghissima parte inconsci, fa sì che da un lato taluni aspetti del Super-Io abbiano ben poco a che fare con la «coscienza morale» quale comunemente la si intende, e d’altro lato giustifica concettualmente il continuo rapporto dialettico che vediamo esistere – analizzando sogni ed atti sintomatici – tra il Super-Io e l’Es. Queste due istanze psichiche ci appaiono, per così dire, in diretta comunicazione, e la relativa libertà che l’Io ne ricava nel senso del controllo sulla realtà va a scapito dell’ingerenza diretta dell’lo stesso nei riguardi della vita istintiva. La possibilità che ha il Super-Io di far uso delle energie aggressive bloccate e di ritorcerle contro l’Io spiega l’origine di tanti irrazionali sentimenti di colpevolezza e desideri inconsci di auto-punizione, riscontrabili in moltissimi individui anche non necessariamente nevrotici. Il Super-Io è un precettore assai spesso più esigente, e sempre più capriccioso, di quel che non fossero a suo tempo i genitori reali, e la sua « severità», come si è accennato, dipende assai più dalla primitiva aggressività del soggetto, proiettata, e poi introiettata, che non da quella che parenti o educatori possono avere esercitata nei suoi confronti. Freud stesso, a chiusura di un lungo periodo d’investigazioni, giunse a concludere nei 1930 che esiste un intimo rapporto fra l’aggressività rimossa dell’individuo, e l’intensità dei suoi inconsci sentimenti di colpa.
Della funzione regolatrice e mediatrice dell’lo, in seguito alla nuova concezione della psiche come un sistema non più duale, ma ternario, apparvero più chiaramente gli aspetti per buona parte difensivi: difensivi rispetto a una realtà sempre largamente indipendente dal controllo volitivo umano; difensivi, soprattutto, rispetto alle contrastanti esigenze dell’Es e del Super-Io. Freud aveva introdotto sin dal 1894 il concetto di « meccanismo di difesa:». Poco a poco, era stato precisato il carattere difensivo, oltre che della rimozione e dello spostamento, anche dell’introiezione e della proiezione. Spettò ad Anna Freud, portatrice ben degna dell’illustre nome paterno, riesaminare ab ovo questi concetti, ed effettuare uno studio sistematico di tali funzioni della parte inconscia dell’Io. Apparve così nel 1936, e poi recentemente in nuova edizione essendo la prima andata distrutta ad opera del nazismo, il lavoro «L’Io e i meccanismi di difesa»- vera pietra militare nell’evoluzione della psicoanalisi – , del quale ho promosso io stesso una traduzione in italiano, di prossima pubblicazione. Oltre ai quattro già menzionati, Anna Freud considera in tale opera altri sei meccanismi difensivi: la regressione, la formazione reattiva, l’isolamento, l’annullamento retroattivo, il rivolgimento contro se stessi, la trasformazione nell’opposto indicando per ognuno di essi sia le caratteristiche dai punti di vista dinamico ed economico, sia la funzione in numerosi processi psichici normali e patologici.
Pena della mancata o insufficiente difesa – quale che sia il grado di razionalità giudicativa rispetto a tale «insufficienza » – è l’angoscia – problema che da vario tempo ha occupato, come tutti sanno, parecchi studiosi e filosofi dell’epoca nostra, che Freud stesso affrontò a varie riprese, e circa il quale fervono tuttora le ricerche psicoanalitiche. All’inizio, Freud considerò l’angoscia come libido trasformata, ossia come stato affettivo penoso prodotto da frustrazione o rimozione. Un più accurato esame della formazione dei sintomi mostrò che l’angoscia precede di solito la rimozione, anziché seguirla: è un « segnale » che un pericolo minaccia l’Io. Secondo Freud, il prototipo di ogni esperienza angosciosa è la situazione della nascita, e il sito motivo di base in ogni successiva situazione è quello dei « distacco » del seno materno, della madre protettrice, di quello – per lo più immaginario – di elementi od organi vitali, di persone amate o di loro rappresentanze psichiche.
Pressoché sconosciuto dai non specialisti, il lavoro di Freud sul problema dell’angoscia da poco apparso, finalmente, in lingua italiana, nella traduzione che io ne feci in un tempo in cui il problema mi si era presentato con particolari, motivi di attualità. Profondo e geniale, tale lavoro, data l’epoca in cui fu pubblicato (1926), non aveva potuto mettere sufficientemente in evidenza i rapporti fra angoscia e aggressività; e ciò benché Freud non avesse mancato di indicare, come si è accennato, che l’angoscia proveniente dal Super-Io, e i sentimenti di colpa, erano dipendenti dall’aggressione. Tale dipendenza, la funzione patogenetica dell’angoscia, e quella ch’essa ha nell’evoluzione psichica in generale, sono state soprattutto indicate, negli ultimi quindici anni circa, dagli psicoanalisti del gruppo inglese, particolarmente da Melanie Klein e da Ernest Jones. Melanie Klein considera quello che Freud chiama «sgomento psicologico di fronte a un pericolo istintuale » come dovuto all’opera degli istinti distruttivi, e ritiene che ciò che il bambino teme è in sostanza la propria aggressività. Il superamento graduale dell’angoscia infantile risulta in parte dallo sviluppo normale della libido, in parte da formazioni di difesa e caratteriologiche cui l’Io è costretto dall’angoscia stessa.
Le vedute di Melanie Klein sull’angoscia sono strettamente legate a quelle ch’essa è andata sviluppando in tempi recenti su tutta la vita psichica infantile: vedute che hanno largamente influito su molti attuali orientamenti della psicoanalisi teorica e pratica. I meccanismi fondamentali dell’Io infantile – secondo l’illustre indagatrice britannica – sono l’introiezione e la proiezione, ossia da un lato l’incorporazione psichica di oggetti parziali o totali, che possono essere sentiti come « buoni » o «cattivi»; dall’altro la loro esternalizzazione e l’attribuzione ad essi di caratteristiche e di impulsi benevoli od ostili, che in realtà appartengono all’inconscio del soggetto. Così, ad esempio, il seno che non dà latte, o lo dà insufficientemente, è oggetto dell’aggressione del bambino, il quale per proiezione lo considera « cattivo ». D’altra parte, esso è anche il principale oggetto del desiderio del bambino, e questi,, nella sua fantasia, tende ad incorporarlo, ad introiettarlo. Il bambino, dunque, avrà a un certo punto dentro di sé psichicamente parlando – il seno materno, nei suoi aspetti « buoni» come nei suoi aspetti « cattivi ». L’alternanza di fasi in cui il bambino proietta fortissime cariche aggressive sul mondo esterno, e di altre in cui introietta oggetti prevalentemente « cattivi », lo pone volta a volta in situazioni psichiche nucleari, che costituiscono, qualora non vengano sufficientemente contrastate dall’incorporazione di oggetti « buoni » e da un normale sviluppo degli istinti dell’Eros, le precondizioni di molti disturbi psichici dell’età adulta. I termini essenziali delle fasi di sviluppo istintuale, e dei relativi conflitti psichici, descritti da Freud, sono riferiti da Melanie Klein, e da vari altri autorevoli psicoanalisti, a momenti cronologicamente anteriori a quelli che Freud indicava. Il « complesso edipico », ad esempio, troverebbe già il suo nucleo nell’accennata dicotomia dell’oggetto «buono» e dell’oggetto «cattivo», i quali nella classica descrizione freudiana si individuano nelle figure « totali » dei genitori. La formazione del Super-lo, o quanto meno dei suoi elementi primigeni, si stabilisce già all’epoca delle prime immaginarie incorporazioni della fase orale, allorquando cioè già comincia ad effettuarsi un elementare «controllo» interno degli impulsi istintuali infantili. Solo così, secondo queste vedute, possono spiegarsi certi aspetti supremamente irrazionali del Super-Io anche adulto: con la forte distorsione, cioè, che l’oggetto introiettato subisce attraverso l’immaginazione dell’infante, e con l’ammontare delle cariche aggressive che l’individuo, per proiezione, gli attribuisce. Anche secondo Edward Glover, che pure non ha mancato di criticare fortemente certe implicazioni della psicologia kleiniana, ogni impronta psichica con caratteri di sufficiente permanenza, e che porta a una divisione delle energie istintuali entro l’Io, può avere le caratteristiche di un Super-Io primitivo. Alle obiezioni di taluni studiosi, secondo cui non si può parlare di Super-Io prima che si instaurino le accennate paure di danneggiamento e di abbandono della fase edipica classica, strettamente inerenti alla concentrazione degli interessi istintuali sulla zona genitale, altri indagatori, e non tutti appartenenti alla « scuola inglese », rispondono che tali interessi sono presenti già nel primo anno di vita – e ciò deve costringere gli oppositori, se non altro, a un riesame analitico e clinico della situazione per quanto riguarda quel primissimo periodo dell’esistenza. Recentissime osservazioni « di comportamento » effettuate da vari studiosi su centinaia di bambini in tenera età sembrano luminosamente confermare la tesi cui gli anzidetti indagatori erano giunti in base a reperti esclusivamente analitici. Il pediatra e psicoanalista Spitz ha pubblicato recentemente, al riguardo, un ampio ed avvincente lavoro.
Direttamente o indirettamente influenzati dalle ricerche di Melanie Klein sulla reciprocità delle prime esperienze oggettuali e della formazione del Super-Io sono oggi quelle investigazioni psicoanalitiche le quali mirano a un ulteriore approfondimento della psicologia dell’lo. L’idea che potesse esistere ab origine, come parte integrante dell’apparato psichico, un’entità paragonabile all’Io adulto, era stata messa in dubbio da Freud.
A Edward Glover, tuttavia, va il merito di avere per primo sviluppato il concetto di una progressiva integrazione dell’Io stesso a partire da entità psichiche dapprima non unificate e relativamente indipendenti, da lui chiamate « nuclei dell’Io ».
Procedendo lungo altre linee di ricerca, Paul Federn ha esposto una sua teoria sulle variazioni dell’Io in diverse situazioni normali (p. es. nel sogno) e patologiche, sui «confini» somatici e psichici dell’Io stesso, e sulla loro relativa indipendenza. Pure in questo senso si stanno attualmente orientando gli studi del padre spirituale della moderna psicoanalisi italiana, Edoardo Weiss, attualmente negli Stati Uniti d’America.
In quanto ho esposto sin qui ho cercato d’indicare, di necessitò solo sommariamente, alcune linee di sviluppo, soprattutto teoretiche, della psicoanalisi, con particolare riguardo, ovviamente, a quelle che mi sembravano le più significative ed importanti. Per debito di obiettività, debbo tuttavia completare per quanto possibile questo panorama, accennando ad altri contributi recenti, individuali o di gruppo, che non possono essere né ignorati, né sottovalutati.
In primo luogo, è doveroso prender nota di talune impostazioni, a mio avviso molto discutibili, soprattutto in sede applicativa, di un gruppo di psicoanalisti statunitensi facenti capo a Franz Alexander. Secondo tale corrente, pur dovendosi tenere nel debito conto tutto quanto Freud e i suoi più diretti seguaci hanno accertato circa l’importanza delle prime funzioni e formazioni strutturali dell’apparato psichico nell’infanzia, e dei loro riflessi e conseguenze nella vita dell’adulto, occorre dare maggior risalto alle reazioni dell’adulto stesso nel suo ambiente reale e attuale, e alle relative formazioni protettive dell’Io. Di fronte a questo o quel problema della vita individuale di relazione, l’anzidetto gruppo nord-americano tende a spostare l’accento, dalle premesse inconsce e soggettive, sui favorevoli o sfavorevoli accomodamenti che permettono, o non permettono, all’individuo di ottenere un grado sufficiente di funzionalità nell’aggregato sociale. L’ «accomodamento » (adjustment) sembra, in casi estremi rischiar di sostituirsi al riconoscimento e alla risoluzione ab imis delle inconsce precondizioni infantili che hanno portato agli orientamenti – o disorientamenti – attuali. Solo in base a questa minor considerazione delle più profonde ed oscure radici psicogene di tante disfunzioni psichiche e psiconevrosi è stato possibile a taluni – per esempio a Karen Horney, d’altronde staccatasi dall’Associazione psicoanalitica internazionale – sostenere la possibilità di una soluzione « auto-analitica » di vari problemi individuali: soluzione che, salvo in casi estremamente superficiali, appare, a noi analisti freudiani, altrettanto impossibile quanto quella di fare, ad un tempo, da cavallo e da cavaliere.
Più importante sembra, a mio modo di vedere, l’orientamento di singoli psicoanalisti come Rado, Bergler o Nacht, i quali, lavorando per quanto mi consta indipendentemente, sono arrivati a conclusioni similari, o, come oggi si direbbe, «apparentate», circa il significato e la funzione degli inconsci atteggiamenti masochistici primitivi nella psicogenesi di molte nevrosi, se non addirittura di tutte. Se si prescinde da una certa qual rigidezza schematica nelle sue esposizioni, occorre riconoscere a Bergler un grande merito: quello di avere additato, con superiore efficacia dimostrativa, il carattere secondario e difensivo di intere sindromi nevrotiche e caratterologiche, le quali sino a non molto tempo, fa erano spesso scambiate per manifestazioni dirette di impulsi incoscienti. La stessa aggressività nevrotica – ha mostrato Bergler non è direttamente riconducibile all’aggressività primaria infantile. Essa è spesso un accurato sistema di copertura, che cela una situazione intrinsecamente masochistica, e nega un’esigenza ripudiata di passività e di sofferenza.
Di pari passo con la teoria psicoanalitica – della quale ho parlato sia qui in sede separata, soprattutto per semplificare la una esposizione – si è naturalmente sviluppata in vari tempi anche la tecnica della psicoanalisi, ossia il suo aspetto esplorativo e terapeutico, dal quale del resto – come tutti sanno – essa ha preso originariamente le mosse. Un tempo, si riteneva che la tecnica della psicoanalisi pratica dovesse consistere esclusivamente, o quasi, nel rendere cosciente il rimosso. Per ottenere tale scopo, il procedimento analitico è passato attraverso varie fasi, che possono ben distinguersi, come ha fatto Alexander nell’introduzione al volume « Psycho-analytic Therapy », pubblicato nel 1946, secondo lo schema seguente:
Primo periodo: uso dell’ipnosi quale metodo catartico e « abreattivo ».
Secondo periodo: sostituzione dell’ipnosi con la suggestione allo stato di veglia.
Terzo periodo al posto dell’influenzamento ipnotico e suggestivo venne introdotto il sistema delle «libere associazioni», per cui si chiese all’analizzando, posto in particolari condizioni di rilassamento fisico e di quiete mentale, di dire qualsiasi cosa gli venisse in niente, senza esercitare sui suoi pensieri associati alcuna selezione, e senza un preordinato criterio logico.
In tale periodo, e con l’uso di questa tecnica che per molti rispetti conserva ancor oggi un suo preciso valore, si tendeva comunque, come nelle fasi precedenti, soprattutto a ottenere una scarica graduale delle emozioni e degli affetti rimossi.
Quarto periodo: riconoscimento, interpretazione e sfruttamento del transfert, ossia della trasposizione inconscia, effettuata dall’analizzando nella situazione analitica, di atteggiamenti e moti affettivi in altro tempo diretti verso persone del suo cerchio familiare. L’analisi del transfert fu riconosciuta come il mezzo principale per sormontare le resistenze inconsce dell’analizzando nei riguardi dell’esplicito riconoscimento, e dell’integrazione progressiva, nella sua personalità psichica globale, di situazioni emotive prima inconsciamente considerate come intollerabili.
In una fase successiva, infine, lo stesso Freud vide che altrettanto importante quanto la scarica emozionale e la reintegrazione anzidette, era il produrre mutamenti permanenti nell’Io dell’analizzando, ossia il procedere a una sua graduale rieducazione emozionale, tale appunto, da consentirgli di ristabilire contatti tra i suoi stessi elementi psichici dissociati. In questo senso militano oggi, specialmente, vari psicoanalisti americani.
Ma oggi sappiamo, inoltre, che la situazione da trasmutare nell’analizzando è ben più vasta e complessa che non quella inerente alle imperfette o ingiustificate rimozioni. Si tratta di ovviare a disequilibri risultanti sempre e comunque dall’opera di più d’un meccanismo di difesa, inerenti sempre e comunque a processi non soltanto di tamponamento, ma di inadeguata elaborazione e sistemazione di elementi psichici disparatissimi, appartenenti ai più vari livelli evolutivi. Si tratta, sovente, di dissolvere poco a poco sistemi mentali e comportamenti anche altamente razionalizzati, i quali non servono ad altro che a confermare il soggetto in pseudo-soluzioni di vita ed in pseudo – attività potenziali o pratiche, le quali, anziché arricchire, coartano e immiseriscono e limitano la sua esistenza quotidiana.
Le « innovazioni » nella tecnica analitica non consistono dunque tanto – come qualche disinvolto orecchiante nostrano ha creduto di poter indicare in periodici a grande tiratura – nel fatto che l’analizzando stia sdraiato o seduto, o volga allo analista la fronte anziché la nuca. I progressi tecnici riguardano soprattutto i seguenti punti: l’accertamento topografico preliminare della struttura psicologica dell’analizzando, con prevalente riferimento alle formazioni difensive e caratterologiche e alle cosiddette « resistenze»; la maggiore presa in considerazione del comportamento del soggetto nei riguardi del suo ambiente e dei suoi quotidiani problemi di vita; la migliore utilizzazione del transfert, e ciò non soltanto nel senso di una progressiva esplicitazione della trasposizione già descritta di moti affettivi per quanto riguarda l’analista, ma in quella di una graduale presa di coscienza di tutte le dramatis personae del transfert, tra le quali l’analista non è sempre il primo attore; l’alternanza, da parte dell’analista, di posizioni di impassibilità «schermografica » con interventi esortativi ed attivi ove si presenti la necessità di smuovere situazioni stagnanti; ed infine, l’auto-osservazione dell’analista stesso per ciò che riguarda l’eventualità di interferenze consce od inconsce, di errori iniziali o sopravvenienti, di nuove situazioni personali che possono influire nell’analisi, e via discorrendo. Superfluo aggiungere che sempre e strettamente indispensabile appare, nell’analista, la facoltà di sintonizzarsi psichicamente e senza inibizioni inconsce con l’analizzando – il che richiede come condizione preliminare che egli stesso sia stato lungamente e rigorosamente analizzato: condizione, questa, che, senza pregiudizio di varie altre, è considerata oggi assolutamente sine qua non in tutte le Società psicoanalitiche del mondo.
Dai cenni che precedono risulta, credo, abbastanza chiara la coesistenza, nell’opera analitica, di momenti intellettualistici e di momenti intuizionistici, di esami e interventi « dal di fuori », e di diretta « empatia ». La preminenza data agli uni o agli altri caratterizza tentativi alquanto unilaterali, compiuti da alcuni analisti, i quali hanno volta a volta sostenuto la necessità di una « pianificazione » sistematica del trattamento analitico come fece Wilhelm Reich prima -di abbandonare la psicoanalisi per altri campi di ricerca biologica – o quella di un completo, e continuo affidarsi alle sempre nuove situazioni d’incontro fra l’inconscio dell’analizzando e quello dell’analista, di un ascolto, pieno di sorprese e d’imprevisti, col « terzo orecchio », per usare l’espressione di Theodor Reik, il più convinto assertore di questa tesi. In verità, la grandissima maggioranza degli psicoanalisti è oggi pienamente persuasa che entrambi i momenti indicati siano non soltanto inscindibili nella pratica, ma abbiano uguale importanza e pari dignità scientifica. L’optimum deve consistere, potremmo dire, nell’interpretare intelligentemente una serie di processi e di interreazioni affettive, nel combinare, correlativamente, comprensione emozionale e penetrazione sensibile.
Non rientra, credo, nei compiti di questa esposizione prendere in esame, sia pure in modo sommario, le numerosissime, più o meno recenti filiazioni e ramificazioni della psicoanalisi freudiana – derivazioni le quali attestano tutte, comunque, la feconda vitalità dell’indirizzo, e fanno parte dei suoi sviluppi presenti e futuri, anche nei casi in cui mettono in rilievo un solo aspetto di dottrina o di tecnica, anche in quelli in cui, più che di derivazioni, sarebbe giusto parlare di deviazioni o di caricature come nella psicologia «prenatale » di Fodor o nella « dianetica » di Hubbard. Mi limiterà a ricordare, come già ebbi occasione di fare in altra sede, che nessuna « nuova » scuola psicologica o psicoterapica moderna sarebbe concepibile senza la psicoanalisi, e ciò anche nei casi più favorevoli, in quelli cioè nei quali qualche utile contributo teorico o terapeutico è stato effettivamente arrecato al nostro sapere o alle nostre pratiche possibilità. Basterà accennare, fra le cose serie, alla narcoanalisi e alla ipnoanalisi; ai metodi psicodiagnostici proiettivi, a cominciare da quello del Rorschech; alla medicina psicosomatica; allo «psicodramma» di Moreno; al «training autogeno» di Schultz; alla «realizzazione simbolica» della Sèchehaye – per non parlare invece di molti pretesi sistemi psicoterapici a connotazione mistica, o sessuologica, o persino psico-politica, che vivono, come sdegnosamente ebbe già a dire Freud, delle briciole di una mensa a cui non si sentono né il coraggio, né il diritto di partecipare.
Ma torniamo, sia pure ancora per pochi momenti, alla psicoanalisi, ed alla sua posizione attuale. Non v’è dubbio che i compiti che ci attendono siano altrettanto ardui, quanto vasti sono gli orizzonti che via via ci si sono dischiusi. Tra i primi, particolarmente grave appare quello di consolidare in sede scientifica, e di integrare progressivamente nel corpo della teoria psicoanalitica, molte nuove acquisizioni, che ci hanno rivelato aspetti della natura umana ancora più sorprendenti e ricchi di possibilità di quanto non fosse apparso neppure al genio precursore di Freud. Dobbiamo, fra l’altro, meglio precisare i rapporti fra narcisismo primario ed Io infantile, fra narcisismo ed introiezione. Dobbiamo, credo, rivedere e forse in parte correggere quell’orientamento che tende oggi a farci talvolta considerare la sessualità infantile come subordinata all’aggressività, o come una compensazione mille difficoltà incontrate nell’adattamento al mondo reale. Dobbiamo meglio distinguere tra sistemi psichici e meccanismi a essi inerenti, tra processi e fantasie. Dobbiamo, infine, studiare più da vicino le nuove possibilità che lo strumento analitico, raffinato e perfezionato, virtualmente contiene per il risanamento di tante malformazioni e dannose sovrastrutture psichiche, individuali e collettive.
La linea evolutiva della psicoanalisi, e le sue prospettive vicine e lontane, sono, da un punto di vista umano e generale, chiare e incontrovertibili. Sorta da un’esigenza clinica e terapeutica, la psicoanalisi ha oggi in sé caratteristiche inconfondibili di un ordine progressivo che non si saprebbe chiamare se non morale, come ha posto bene in luce il Flugel, in un suo recente lavoro. Dall’egocentrismo alla socialità, dall’incoscio al cosciente, dall’autismo al realismo, dall’inibizione, nevrotica alla spontanea bontà, dall’aggressività alla tolleranza e all’amore, dalla paura alla sicurezza, dalla dipendenza all’autonomia, dal giudizio emozionale al giudizio conoscitivo – tali le direzioni di marcia del divenire psichico, analiticamente orientato, nella lotta per la libertà interiore e contro l’angoscia.
Ma è possibile liberarsi dall’angoscia? O non è questa forse inerente, come vogliono alcuni moderni filosofi, alla condizione umana? Nella risposta finale a tale quesito è probabilmente impegnato il futuro della psicoanalisi. A mio avviso, la distinzione freudiana tra angoscia normale e angoscia nevrotica conserva, ancor oggi, tutto il suo valore, ancorché dal normale al nevrotico si passi per differenziazioni quantitative e non qualitative. Forse il luogo d’incontro tra i due tipi-limite dell’angoscia va cercato nel fondamentale e precoce stabilirsi di una «dialettica» interiore in seno all’apparato psichico umano. I vari aspetti fenomenologici di questa dialettica si possono ravvisare in taluni momenti salienti della progressiva individualizzazione sia rispetto al mondo esterno – nascita, divezzamento -; sia, e a mio avviso con molto maggiore importanza per la formazione dell’individualità psichica, nelle precoci «divisioni interne», per cui l’uno o l’altro oggetto o istanza interiore assume una sorta di autonomia rispetto ad altri oggetti od istanze. Dalla situazione primordiale di « non distinzione », propria alla vita fetale, l’individuo passa, con la nascita, ad una nuova situazione dapprima puramente subiettiva di non distinzione (l’ « Io egocosmico » di Federn), ma subito dopo, già nei primi mesi dell’esistenza, a situazioni di «distinzione» sia esterna che interna. A tale sorte dell’essere, alla tensione che si stabilisce tra la situazione di fatto e la tendenza a un ritorno all’indistinto, alla contraddizione immanente tra il desiderio dell’uno e la necessità del molteplice, è probabilmente da ricondurre l’origine di ogni angoscia umana. L’angoscia del neonato che non fa più tutt’uno con la madre, quella dell’infante separato dalla mammella materna, quella del bambino che teme la perdita della figura protettrice, quella del fanciullo – o dell’adulto nevrotico – insicuro, quella dell’Io di fronte alle « forze straniere » dell’Es o dell’ « oggetto temibile » interno (Super-Io o suo precursore) – tutti questi tipi di angoscia hanno un aspetto comune : il fatto che l’individuo, per vivere, deve « distinguere », dentro e fuori di sé mentre rimane in lui l’attrazione regressiva verso l’indistinto, quell’attrazione perigliosa che Freud ha descritto nelle prime pagine del Disagio nella civiltà, quel « sentimento oceanico » per cui si vorrebbe – contro le forze che spingono all’obiettivazione – « far tutt’uno col mondo e con le cose » – L’angoscia è il prezzo di questa rinunzia: prezzo eccessivo e antieconomico (tensione intollerabile) nel nevrotico, giusto prezzo (tensione costruttiva) per chi accetta di vivere e di operare.
La psicoanalisi avrà probabilmente, come suo compito principale avvenire, quello di equilibrare, in una bilancia ideale, il dovere della vita e il diritto alla felicità.