Il segreto dei “teddy-boys”
Giustizia Sociale n°1 Marzo 1961
Il problema dei teddy-boys non si risolve con le deplorazioni generiche, o con le specifiche minacce. Non si risolve, neppure, domandandosi – al semplice livello di coscienza – «che cosa vogliono» questi ragazzi inquieti, il cui comportamento sfocia spesso in una vera e propria delinquenza irragionevole e quasi inverosimile. L’osservatore che si limiti a constatazioni comportamentali ha potuto chiedersi con sgomento, durante questi ultimi mesi o anni, perchè mai – per esempio – bande di teddy-boys se la prendano per un certo tempo contro un particolare tipo d’insegna pubblicitaria, o contro una certa foggia di copricapo; o, peggio ancora, si sfoghino contro particolari classi di cittadini, dai quali, beninteso, non hanno ricevuto alcun torto. La stessa incomprensibilità e irrazionalità di molte «gesta» del genere ha spinto qualcuno a moti reattivi più o meno iracondi, espressi in frasi come «bisognerebbe schiaffarli tutti in galera», o «io li frusterei sulle pubbliche piazze».
Costoro dimenticano che molti atteggiamenti e comportamenti umani non si spiegano, appunto, in semplici termini di coscienza. Tutte le moderne ricerche sulle motivazioni si basano precisamente su questo assunto, che è ormai acquisito alla psicologia moderna: sul fatto, cioè che esistono problemi e motivi inconsci del pensare e dell’agire.
Sin dal 1945 un illustre psicologo e psicoterapeuta americano aveva impostato su questo principio il suo trattamento di un teddy-boy.
Si tratta del Dr. Robert Lindner, e del suo libro Rebel without a cause («Ribelle senza causa»), apparso anche in traduzione italiana. Il libro riferisce il caso di un ragazzo gravemente disturbato, che usava compiere atti antisociali per «ribellione» verso qualcuno… Per curarlo, il Dr. Lindner adoperò una tecnica mista, di ipnosi e di psicoanalisi – sulla cui generale validità scientifica potremmo, in altra sede, avanzare diverse riserve. Furono comunque molto interessanti le «scoperte» che il terapeuta poté effettuare durante il trattamento. Mentre il giovane, coscientemente, sapeva soltanto di doversi sfogare contro un anonimo «qualcuno», l’ipnosi gli permise di rievocare scene in cui questo «qualcuno» aveva un volto ed un nome. Si trattava del padre del paziente – ma più che altro di una figura paterna largamente immaginaria, così come il soggetto l’aveva, a modo suo, sperimentata e percepita. Il padre aveva effettivamente, una o due volte, malmenato il ragazzo: ma la fantasia di questi aveva fatto il resto, ingigantendo certe ostilità reattive e certi motivi di gelosia. Ne erano sorte vere e proprie velleità omicide, che pur rimanendo inconscie, davano ogni tanto luogo a violenti «sfoghi» contro cose e persone. Il trattamento ipno-analitico, portando alla coscienza fantasie ed episodi obliati, aveva ottenuto un netto miglioramento della situazione, e l’inizio, per il soggetto, di un nuovo adattamento sociale.
Il merito essenziale dell’opera di Lindner – apparsa, come abbiamo accennato, proprio sul finire della guerra – non fu tanto di ordine tecnico (poiché molto vi sarebbe da dire sull’anzidetta ipnoanalisi, sui livelli psicologici raggiunti nel trattamento, e su certe interpretazioni del terapeuta) quanto di ordine educativo e sociale. Essa richiamava infatti l’attenzione di psichiatri, psicologi, criminologi ed educatori sul fatto che gli oggetti contro cui si scagliano certi «ribelli» possono essere invisibili e indimostrabili; e che solo la psicologia profonda può ritrovarli, penetrando oltre le barriere che abitualmente si frappongono all’esplorazione dell’inconscio.
Sono passati, da allora, quindici anni; e nel frattempo si è andato sempre più chiarendo, in psicologia e in psicoanalisi, un concetto cui abbiamo, più sopra, semplicemente accennato: quello della superiore importanza delle fantasie precoci, e dei relativi conflitti psichici, anche a prescindere da elementi oggettivi di ostacolo e di contrasto.
Abbiamo già fatto menzione della notevole divergenza che correva tra il padre «reale» del paziente di Lindner, e l’immagine paterna, largamente di fantasia, contro cui si rivolgevano i suoi moti di ostilità distruttiva. Alcuni specialisti di psicologia infantile, specialmente anglosassoni, hanno sostenuto con buon fondamento che le prime situazioni di conflitto psichico e di stress possono determinarsi praticamente senza che si verifichino eventi esterni di grande rilievo. Per il bambino molto piccolo, ad esempio, la madre che involontariamente tarda a porgergli il cibo può diventare oggetto di fantasie in cui è vista come una sorta di «perfida affamatrice», o di «strega»…
L’accento si è dunque notevolmente spostato, in psicologia profonda, e nelle relative ricostruzioni psicogenetiche, dall’oggetto al soggetto. Nei primi tempi del movimento psicoanalitico si tendeva spesso ad attribuire al comportamento obiettivo dei genitori e degli adulti verso i bambini, e alle influenze reali dell’ambiente negli anni infantili, una decisiva importanza, e a vedervi la causa di tante difficoltà, sentimenti di colpa e conflitti non risolti di certi nevrotici. Oggi ci si chiede se l’estrema tolleranza – che si risolve sovente in un vero e proprio laissez faire – di certi genitori ed educatori, non sia tante volte la vera radice di molti disturbi della personalità e del comportamento. E ciò – si badi – non già perchè l’influenza degli adulti sul bambino sia o debba essere di semplice freno e di meccanica repressione, mancando la quale il bambino lascia libero sfogo ai suoi istinti: bensì perchè il correttivo dell’ostacolo, o della rèmora ambientale, veri e concreti, toglie forza e virulenza ai fantasmi irreali ed inconsci! Si tratta quindi non tanto di costrizioni, quanto di ridimensionamenti psicologici, fondati su costanti incontri con la realtà. Ove manchi tale correttivo, il bambino, senza rendersene conto e senza saperlo, può trovarsi alle prese, in modo grave e allarmante, con un mondo immaginario e pauroso, tutt’affatto interiore, che non può né rettificare ne dominare. Il risultato è un vero e proprio, sebbene vago, sentimento di avere a che fare con «qualche cosa» di oscuro, di interno, e di «persecutorio» – da cui ci si sente quasi sempre oppressi, e talvolta addirittura minacciati… Tale situazione, se non intervengono circostanze più favorevoli, che in qualche modo agiscano in senso compensativo ed equilibrativo, può riattivarsi violentemente all’epoca della pubertà ed oltre. Essa può infine portare a una serie di atti violenti, rivolti contro tutti e contro nessuno, simili a quelli di chi, costretto da un’invisibile camicia di Nesso, cercasse in ogni modo di strapparsela, e così divincolandosi mettesse a grave repentaglio gli oggetti e le persone circostanti.
L’idea, pertanto, che i teddy-boys siano, in sostanza le vittime di una educazione sbagliata, e di un ambiente familiare e sociale che non li ha sufficientemente frenati, è in pratica giusta, anche se non sia questa, presumibilmente, la sola causa del fenomeno: ma è giusta non già nel senso di una superficiale mancanza di freni nell’età evolutiva, bensì in quello di una mancata neutralizzazione, in tale periodo, di certe gravi situazioni interiori di conflitto psichico. Il teddy-boy, insomma, non è affatto un giovane «troppo libero»: è, al contrario, un individuo imprigionato da nemici interni, che non conosce e che non vede: un individuo che può, pertanto, sfogarsi sul primo venuto, o su una particolare classe di oggetti e di persone. Su questi bersagli il soggetto eseguisce, come su uno schermo, una «proiezione»: egli ravvisa cioè in essi, senza saperlo, le immagini persecutorie e indecifrabili del suo inconscio, e contro di esse si avventa. La sua rivolta appare così, a livelli coscienti, incomprensibile; e chi deve giudicarlo è tratto a chiedersi, in buona fede, che cosa mai gli mancasse, o chi mai gli avesse fatto dei torti!
Naturalmente questi meccanismi acquistano particolare risalto in taluni contesti sociali piuttosto che in altri. In certi Paesi – come, ad esempio, l’Inghilterra o gli Stati scandinavi – la vita sociale è, almeno in superficie, assai ben regolata e tranquilla; e un giovane, a Londra o a Stoccolma, è in apparenza assai più libero che non a Roma o a Madrid. Ma sono per contro estremamente numerose, negli anzidetti Paesi, le leggi – più che altro tacite e a prima vista inavvertibili – della convivenza civile. La vita inglese, ad esempio, è notoriamente ricchissima di «si fa» o «non si fa», di modi in cui l’individuo «è supposto» o «non è supposto» comportarsi… Tutto questo è ben lontano dalle « prove di realtà » più o meno dure, come pure dalle possibilità lecite di «sfogo», che potrebbero da un lato correggere, e dall’altro alleggerire, certe tensioni interne dei giovani qui considerati. Questi si trovano sovente, perciò, in una situazione contraddittoria. Da un lato l’«autorità» si dimostra loro benigna e tollerante, e dall’altro si fa sentire attraverso mille remore che possono risultare tanto più insopportabili quanto più sono ovattate e non sanzionate da vere pene… In tali condizioni, il giovane la cui struttura psichica sia stata condizionata, già nell’infanzia, nel modo che abbiamo descritto, può veramente diventare un «ribelle senza causa», più che in altre aree di cultura le cui coordinate siano, tutto sommato, più primitive ma meno sollecitanti.
A questo male, ben s’intende, le punizioni e le repressioni violente sono, psicologicamente parlando, un rimedio molto imperfetto e molto relativo. Quel che occorre è in primo luogo una vasta azione di propaganda psicologica familiare e sociale, volta a chiarire i principi psico-pedagogici essenziali, che abbiamo qui sommariamente indicati. La «presenza» amorevole ma attiva, e la vigile guida dei genitori nei riguardi della prole (agli antipodi di un certo sbagliatissimo, anche se bene intenzionato, «lasciar correre» di marca americana, il quale non ha proprio nulla a che vedere con la tolleranza predicata dai moderni psicologi e psicoanalisti), costituiscono tutto sommato la miglior profilassi dei disturbi che possono minacciare, negli anni successivi, la personalità adolescente e adulta; e ciò potrebbe, nel volgere di non molti anni, ottenere una notevole riduzione del triste fenomeno di questi ragazzi senza ideali, senza direttive, e – soprattutto – senza pace.
Emilio Servadio
Le problème des teddy-boys ne saurait se résoudre ni par des plaintes générales ni par des menaces spécifiques.
De nombreuses attitudes et maints corn portements humains ne s’expliquent pas par de simples termes de conscience.
Il s’agit, pour l’enfant, mains de contraites que de reconversions psychologiques, fondées sur des rencontres incessantes avec la réalité. Là où man que ce correctif, i’enfant, sans s’en rendre compte et sans le savoir, peut se trouver aux prises, d’une manière grave et alarmante, avec un monde imaginaire et dangereux, tout à fait intérieur, qu’il ne peut ni corriger ni dominer.
Partant, l’idée que les teddy-boys seraient, en substance, lei victimes d’une éducation erronée, ainsi que d’un milieu familial et social qui ne les a pas suffisamment freinés, est pratiquement juste, même si celle-ci n’est probablement pas la seule cause de ce phénomène.
Le teddy-boy n’est pas du tout un garçon « trop libre »; il est, au contraire, un individu emprisonné par des ennemis intérieurs, qu’il ne connaît pas et ne voit pas.
Ce qu’il faut c’est en premier lieu une vaste action de propagande psychologique, familiale et sociale; et cela pourrait, dans l’espace de quelques années, aboutir è une diminution sensible du triste phénomène représenté par des en/ants sans idéal, sans ligne de conduite et, notamment, sans sérénité.