Discorso commemorativo
Rassegna Italiana di Ricerca Psichica 1965
Volume speciale dedicato
alla commemorazione di Giovanni Schepis
Signor Presidente, Signore e Signori,
scarno e disadorno sarà il mio dire. Non userò quelle alate e magnifiche parole che avete sentito dagli oratori che mi hanno preceduto. Io ho provato in questa occasione, più volte, a scrivere qualche cosa sull’amico Schepis, ma non ci sono riuscito; e credo sia qui preferibile, invece che darvi una esercitazione stilistica, dirvi quello che via via mi detteranno il mio ricordo e il mio cuore.
Ho conosciuto Giovanni Schepis più di trent’anni fa. Già mi occupavo da qualche anno delle discipline sul cui terreno ci incontrammo. L’occasione del nostro incontro fu, da parte di Schepis, un bisogno di consolazione, di conforto, di conferme, in una fase particolarmente drammatica della sua vita. Da parte mia, il desiderio di assistere sperimentalmente ad alcuni di quei fenomeni che per lunghi anni avevo studiato sui libri e sulle riviste, ma dei quali avevo ancora una non precisa, non diretta conoscenza. Questo fu, ripeto, il nostro terreno d’incontro, ma esso fu anche per tutti i due una specie di trampolino verso vie che ci portarono molto più in là dello speciale e particolare terreno della ricerca psichica e parapsicologica. L’avvicinamento fra me e Schepis ebbe ben altro carattere di quello di una semplice, per quanto importante, ricerca scientifica in comune. Tutti e due eravamo del parere che i fenomeni parapsicologici costituiscono bensì un settore importantissimo dello scibile, ma non costituiscono tutto lo scibile. E che, in particolare, non possono e direi non debbono soddisfare le più intime e delicate esigenze spirituali del singolo. Fu anche su questo piano, più squisitamente spirituale, che Schepis ed io c’incontrammo, e che c’intendemmo forse più ancora che non su quello strettamente parapsicologico. Non c’è dubbio, in ogni modo, che la fondazione, avvenuta come sapete nel 1937, della Società Italiana di Metapsichica, costituì per Schepis e per me un’occasione, anzi un infinito numero di occasioni, per avvicinarci e collaborare, lavorare insieme, discutere insieme, qualche volta anche litigare insieme, sempre con uno scopo comune e con prospettive intellettualmente eccitanti. Ricordo i nostri frequenti incontri in quei locali della Fondazione Carnegie che furono i primi nei quali si svolse il lavoro della neonata Società Italiana di Metapsichica. Questa, come si sa, fu fondata da quattro persone, e di queste, dopo la scomparsa del caro amico Schepis, io sono purtroppo oggi l’unico superstite. Io ricordo che in quei giorni, in quelle settimane, in quei mesi immediatamente susseguenti alla fondazione della Società Italiana di Metapsichica, arrivarono a Schepis, a me o alla Società come tale, diecine e centinaia di lettere che si riversavano tutte vuoi all’abitazione di Schepis a Centocelle, vuoi alla Fondazione Carnegie: una vera e propria valanga, di fronte alla quale Schepis ed io eravamo al tempo stesso lieti e stupefatti, e anche notevolmente imbarazzati perché ci domandavamo come sarebbe stato possibile padroneggiare con le nostre deboli forze questo straordinario materiale che si andava via via accumulando. Evidentemente la fondazione della Società Italiana di Metapsichica era stata sentita da molte persone e da gruppi di studiosi come una catalizzazione di elementi che erano nell’aria, e che non attendevano se non un’occasione per manifestarsi. E con le nostre forze, aiutati validamente dalla moglie di Schepis, dalla signora Terzilla, le cui apparentemente gracili ma in realtà formidabili spalle sopportarono in gran parte questo peso, cominciammo ad organizzare quel copioso materiale e finimmo col dar vita ad un quadernetto che chiamammo Notiziario di Metapsichica, di cui uscirono, come succede in questi casi, solo pochi numeri, oggi, naturalmente, introvabili. Fu questo l’inizio della collaborazione fra Schepis e me sul piano della ricerca metapsichica o, come oggi si preferisce dire, parapsicologica. Ma, come accennavo poc’anzi, non fu solo questo il nostro terreno d’incontro. Cominciammo a vederci sovente anche prescindendo dal nostro interesse per la parapsicologia e ad organizzare gite festive e brevi viaggi insieme, sempre tuttavia con fini particolari d’ordine artistico, letterario o spirituale. Ricordo che qualche volta passavamo insieme lunghe ore senza scambiare una parola, immersi in un medesimo clima di esperienze interiori. Successe occasionalmente che il libro che sempre ognuno di noi portava con sé fosse lo stesso, che avessimo fatto la stessa scelta. Una volta, ricordo, estraemmo ognuno dalla propria tasca una piccola edizione di un mistico fiammingo, Ruysbroeck l’Ammirabile, e fummo abbastanza sorpresi constatando che si trattava dello stesso autore e della stessa opera, « L’ornamento delle nozze spirituali » – autore e opera che non sono poi tra i più noti nella letteratura mistica. Di questi viaggi, due mi piace in particolare ricordare, e cioè quelli che compimmo prima nell’inverno nel 1937 e poi nella primavera del 1938, diretti a San Giovanni Rotondo per due memorabili visite a Padre Pio. Vale la pena ricordare come ci accingemmo a queste visite. In quel tempo era uscito un libro del Dott. Giorgio Festa, intitolato « Luci di scienza e misteri di fede ». Si trattava di un libro appunto su Padre Pio, che ebbe poi successive edizioni. Lo leggemmo, e fummo tutti e due colpiti dalle affermazioni « parapsicologiche », oltre che mistiche, in esso contenute. Schepis ed io andammo, dopo questa lettura, a trovare il Dott. Festa, il quale non solo ci confermò tutto quello che aveva scritto nella sua opera, ma sapendo più o meno di che cosa ci interessavamo, ci disse: « Mi domando che cosa aspettate, dati i vostri interessi per i fenomeni parapsicologici, ad andare a trovare quest’uomo, Padre Pio, che è una specie di prova vivente di ciò di cui vi occupate ». Con spirito alquanto diverso, io piuttosto agnostico e magari un po’ sul chi vive, Schepis animato fra l’altro dalla sua profonda fede cattolica, partimmo per il nostro primo, movimentato viaggio verso S. Giovanni Rotondo. Fu un viaggio veramente avventuroso, in un certo senso, perché era d’inverno, il tempo era tutt’altro che clemente, eravamo tutti e due convalescenti di influenza o raffreddati, e quindi ci volle un certo coraggio ad affrontare questa gita che in quei tempi non era davvero delle più comode. Debbo dire che la gita riuscì bene anche da punto di vista della nostra salute, perché tornammo risanati e indubbiamente molto arricchiti nell’animo. Non credo sia il caso di addentrarmi su quello che tanto Schepis che io potemmo sperimentare nei nostri contatti con la personalità per tanti versi eccezionale di Padre Pio. Per mio conto, feci alcune osservazioni che rimasero poi preziose per la mia ulteriore evoluzione e Schepis, ricordo, si confessò, e uscì dal confessionale molto colpito perché, essendosi trattenuto con il Padre Pio per più di mezza ora, com’ebbe poi a dirmi, aveva parlato pochissimo, mentre chi aveva parlato quasi tutto il tempo era lo stesso Padre Pio che – riferì Schepis – aveva « letto » ciò che egli aveva nell’animo come in un libro aperto, dicendogli una quantità di cose sul suo stesso conto che certamente non poteva avere appreso da alcuna altra fonte. In un’altra occasione consimile, io ebbi l’unica vera allucinazione della mia vita. Fu un’allucinazione olfattiva. Ricordo distintamente che mentre Schepis ed io nel primo pomeriggio ci riposavamo nella cameretta che avevamo preso insieme a S. Giovanni Rotondo (si trattava del nostro secondo viaggio a S. Giovanni, e faceva già abbastanza caldo), a un certo momento percepii un acuto odore d’incenso, e sentii il bisogno di correre alla finestra per guardare quale potesse essere la fonte di tale incredibile profumo. La finestra dava, ricordo, su una stradina solitaria, e quindi la mia idea che in quel momento, forse, stesse passando una processione, e che i vapori d’incenso giungessero nella nostra camera, si rivelò immediatamente assurda. Tuttavia l’impressione olfattiva rimase per alcuni minuti e fu un’impressione puramente soggettiva perché Schepis, vedendo i miei movimenti, mi domandò che cosa avessi ed io gli risposi a mia volta con una domanda: « Non senti questo odore d’incenso? ». Ed egli mi disse che non aveva sentito e non sentiva proprio nulla. Fu un’esperienza veramente curiosa, che però non si presta ad alcun particolare commento perché è rimasta unica e isolata.
Dopo poco tempo da questi nostri viaggi (si trattava del 1938) alcune cose cominciarono a precipitare in Italia, e nel settembre di quell’anno io fui costretto ad andarmene all’estero. Il mio esilio durò sette anni. In quella occasione, veramente drammatica, Schepis mi fu molto vicino, mi aiutò da vari punti di vista, e venne apposta a Genova a salutarmi all’imbarco del piroscafo che mi doveva portare in lidi lontani. Al momento di accomiatarsi da me, mi consegnò un libro sul quale scrisse di suo pugno: « A Emilio: che la sua “notte oscura” sia come questa ». Era, come avrete già capito, « La Notte Oscura » di S. Giovanni della Croce. Questo libro io l’ho portato con me in India, l’ho letto varie volte durante il mio esilio laggiù, l’ho riportato puntualmente in Italia nel gennaio 1946, ed esso costituisce naturalmente uno dei tesori della mia biblioteca – uno dei tesori, dico, non soltanto perché si tratta, come tutti sanno, di una delle opere di mistica più importanti che siano state scritte, ma anche perché porta quella iscrizione di Giovanni Schepis che tante volte ho avuto occasione di rileggere aprendo il libro. Le parole di Schepis furono veramente profetiche, perché la mia esperienza indiana fu per tanti versi « una notte oscura », dalla quale però sono uscito, credo, abbastanza bene, accingendomi a riprendere la via con molto maggiore esperienza e con un tantino, oso credere, di aumentata chiarezza interiore. Tornai in Italia, come ho detto, nel gennaio 1946, e qui si apre un’altra fase veramente stupenda della sodalitas tra Giovanni Schepis e me. Collaborammo quasi subito intensamente di nuovo. Io fui ospite a casa sua per molto tempo, di questa ospitalità ho conservato un ricordo incancellabile, e in quella occasione potei nuovamente apprezzare non soltanto le qualità domestiche della signora Schepis, ma, una volta ancora, le sue doti di preziosa organizzatrice e di « spalla », per così dire, di Giovanni Schepis. Fummo in tre, praticamente, a ridare nuova vita alla Società Italiana di Metapsichica, la quale naturalmente durante il periodo della guerra aveva vivacchiato, mentre nel ’46 ricominciò veramente a vivere. Tutti voi sapete delle vicende burrascose che accomunarono ancor più Schepis e me in quegli anni in cui veniva minacciata la scissione completa della Società. Furono tempeste gravi nella storia del nostro sodalizio, e il baluardo opposto da Schepis e da me a vani assalti provenienti da varie direzioni fu, possiamo ben dirlo oggi, ciò che impedì allora alla Società di dissolversi. Le burrasche furono fronteggiate in comune, e in quell’occasione si rivelò sovente una delle peculiarità più caratteristiche della personalità di Schepis, cioè la sua straordinaria fermezza non disgiunta da un certo senso diplomatico che egli aveva e che a me, debbo dire, è sempre mancato. Schepis era, l’ho già accennato, di una tenacia e di una laboriosità superlative, e non indietreggiava di fronte a qualsiasi fatica pur di portare a termine un compito, di raggiungere un determinato scopo. Tuttavia anche nel pieno della lotta aveva ogni tanto un certo qual sorriso disincantato per cui in fondo sembrava dire: « tutto è importante e nulla è importante ». Cosicché più di una volta io ebbi occasione di dirgli: « Tu mi ricordi molto il personaggio di Arjuna nella BhagavadGita, a cui Krishna dice, ed egli lo intende e lo accetta, che ciò che conta nella vita non è tanto vincere oppure perdere, quanto lealmente combattere ». Possiamo dire veramente che Schepis era un buon combattente, e un combattente leale.
Nel 1948, ci fu un altro periodo di intensa collaborazione tra noi, e fu quando demmo vita a quelle famose radiotrasmissioni di parapsicologia che sollevarono tanto interesse e tanto entusiasmo. Ricordo che l’annunzio di tali trasmissioni, che la Rai mise in onda sotto il titolo Mezzanotte, fu dato da un mio breve articolo sul Radiocorriere, al quale la rivista stessa diede come titolo « Siamo tutti veggenti ». Questo articolo bastò a far arrivare al domicilio di Schepis, che era anche la sede della Società, alcune centinaia di lettere, con grande sgomento della signora Schepis che doveva in primo luogo classificarle e metterle in ordine. Naturalmente le lettere diventarono migliaia quando le trasmissioni (alcune delle quali ebbero anche carattere sperimentale) effettivamente ebbero inizio. Credo che esistano ancora circa 12.000 di queste lettere o messaggi: un materiale indubbiamente prezioso, che qualcuno prima o poi dovrà decidersi a spogliare e a rivedere criticamente. Quello che lì per lì potemmo ricavare dall’enorme lavoro delle trasmissioni e della corrispondenza fu consacrato in una pubblicazione della nostra Società, che i Soci conoscono. Naturalmente, poi, tanto io che Schepis dovemmo pensare a ulteriormente sviluppare la nostra attività individuale. Io avevo la mia professione a cui badare, Schepis aveva i suoi numerosi impegni, e ognuno aveva i propri studi anche fuori del campo della parapsicologia: Schepis era uno statistico di primo piano, io sono uno psicoanalista. Tutto ciò fece sì che la nostra collaborazione da un certo punto di vista in poi non risultasse più così intensa e quasi diuturna come per il passato, ma c’incontravamo sempre ogni tanto, e sempre con l’antica cordialità e amicizia. Schepis verso di me aveva un po’ la funzione di chi dà ogni tanto, con buon garbo, una piccola doccia fredda. Perché io sono il tipo che si riscalda per cose o fatti che non gli vanno a genio, e quando Schepis mi vedeva più riscaldato del solito per circostanze, fatti, episodi o comportamenti di persone, riusciva in qualche modo a farmi sorridere, e farmi capire che non era poi il caso di farsi del sangue cattivo. Ricordo che l’ultima lettera che ricevetti da Schepis, quando si apprestava ad andare a Milano per quella conferenza dopo la quale morì, fu appunto relativa ad un caso che io gli avevo segnalato. Si trattava della lettera di un individuo il quale si proclamava una specie di « santo guaritore » con una untuosità veramente repellente; la cosa mi inquietò, ed io mandai la lettera a Schepis con qualche aspra parola di commento. Schepis mi rispose per iscritto: « Ti restituisco la lettera, si tratta di uno dei tanti paranoidi che circolano. Io ricevo cose del genere almeno due o tre volte alla settimana e le metto agli atti ». Mi annunciava poi che il 1° dicembre 1963 sarebbe dovuto andare a Milano per la riunione di cui tutti sapete. Nel frattempo aveva già pensato di far fare a me una conferenza, in cui avrei dovuto parlare dei miei contatti con alcuni parapsicologi in Cecoslovacchia, in Polonia e nell’Unione Sovietica (ero infatti di ritorno da un viaggio di studi in quei Paesi e avevo potuto entrare in rapporto con diversi studiosi). La mia conferenza non si fece più, perché la scomparsa del caro Amico non la rese possibile.
Signor Presidente, Signore e Signori, ho praticamente finito, anche se infinito dovrebbe essere il numero di parole atto a descrivere quella che fu l’amicizia tra me e Giovanni Schepis. Che cosa posso dire ancora di lui per terminare? Ricorderò la sua fedeltà a tutta prova nell’amicizia, ricorderò ancora la sua metodicità e quasi, vorrei dire, implacabilità nel lavoro (di questo sono stato per lunghi anni un testimonio vivente). Schepis aveva una grande semplicità di gusti, era una persona spirituale nel senso superiore del termine, era un cattolico convinto e fervente. Io lo ricordo mentre parlo come se lo vedessi in questo momento (non sono pittore, ma ho una memoria visiva piuttosto intensa). Lo ricordo con quel suo sguardo luminoso, con quei suoi occhi che tutti avete presenti e che erano nello stesso tempo occhi di savio leggermente ironico e di candido fanciullo. Parecchie volte nella mia vita, in qualche breve rinnovo di quelle « notti oscure » che tutti quanti, ed io stesso, ogni tanto attraversiamo, quegli occhi sono balenati davanti a me come luci sul mio cammino.
Prof. Emilio Servadio
Presidente della Società Psicoanalitica Italiana e Socio fondatore della SIP