Conversazione senza complessi con uno “scienziato dell’anima”
Intervista condotta a Roma per – Playmen da Franco Valombra
PLAYMEN – settembre 1969
La psicanalisi in questi ultimi anni sempre più è uscita dal suo ambito strettamente terapeutico, per intrecciare i suoi interessi a quelli di altre discipline, per portare il proprio contribuito alla risoluzione, o, comunque, alla impostazione di grandi problemi filosofici o sociologici. Uomini come Fromm, Brown, Marcuse sono gli esempi più tipici di questa intercomunicabilità. Anche se, ovviamente, il compito essenziale della psicanalisi continua a essere quello terapeutico.
In occasione del recente Congresso Internazionale di Psicanalisi tenutosi a Roma, abbiamo rivolto alcune domande al Professor Emilio Servadio (nostro eminente collaboratore fin dal primo numero di Playmen), Presidente della Società Italiana di Psicanalisi e personalità di vasta cultura e di molteplici interessi. Ne è nato un dialogo attualissimo, incentrato sui molti interrogativi che l’uomo oggi si pone, proprio alla vigilia di una nuova era, che potrebbe segnare, alternativamente, il suo trionfo o la sua fine.
PLAYMEN – Molto spesso, in questi anni, eminenti psicanalisti, da Fromm a Marcuse, si sono in parte allontanati dal cammino di Freud, per affrontare, oltre ai problemi dell’individuo, anche quelli della società. In particolare, della « nostra » società. Al di là del suo personale giudizio sui singoli personaggi, si tratta, secondo lei, di un compito che la psicanalisi ha il dovere di assumersi o si tratta soltanto di pericolose deviazione dall’ideologia freudiana?
SERVADIO – In primo luogo vorrei cominciare con il fare una precisazione. Non bisogna confondere gli psicanalisti con quei filosofi, quei sociologi eccetera che si ispirano, da un punto di vista culturale, alla psicanalisi: come, per citare un caso famoso, Marcuse. Detto questo, la mia opinione è che gli psicanalisti non dovrebbero trasformarsi in quello che non sono: cioè in sociologi, in politici o in filosofi. Se non altro perché rischierebbero di dire (e fare) delle sciocchezze. Questo non significa d’altra parte che essi debbano rimanere insensibili a tutto quello che sta loro intorno. Soprattutto quello che mi sembra importante è che gli psicanalisti siano sempre pronti a rivedere i propri strumenti. Evitare sempre e in ogni caso il dogmatismo culturale. Essi devono essere, insomma, aperti a comprendere, ad avere un rapporto dialettico, con le altre discipline, senza rinchiudersi rigidamente nella propria. Faccio un esempio. La rivoluzione francese. Si potrebbe affermare che si tratta della rivolta contro la figura interiorizzata del padre, «proiettata» sul sovrano che poi viene attaccato, e altre cose di questo tipo. Ma chi volesse ridurre a questo schema la rivoluzione francese, sarebbe uno sciocco. E per fare un altro esempio, più vicino a noi. Tutti noi sappiamo che cosa è un tossicomane. Nelle cliniche psichiatriche esistono reparti apposta per loro. Un morfinomane, un cocainomane, un eroinomane, possono senz’altro considerarsi tossicomani. Ma se noi prendiamo le schiere dei giovani californiani che fumano marijuana o prendono LSD, possiamo chiamarli, sic et simpliciter, dei tossicomani? Bisogna, insomma, tener conto anche di certe diverse condizioni ambientali, sociologiche, economiche, persino politiche. Insomma un tossicomane a Hong Kong non è la stessa cosa di un tossicomane a Torino. Non è un caso, del resto, che a Montreal esca una rivista, diretta e ideata da uno psicanalista, il Wittkower, che si chiama «Rivista di Psichiatria Transculturale», cioè che tratta dei problemi connessi alle « varianti » culturali della teoria e della pratica psichiatrica.
PLAYMEN – Qual è la posizione della psicanalisi ufficiale di fronte all’ondata di neo-erotismo che ha investito il mondo intero? E’ un bene che certi tabù, certe illusioni cadano? o è un male, certa eccessiva disinvoltura di fronte ai problemi del sesso?
SERVADIO – Non dobbiamo dimenticarci che il primo colpo a quei tabù, a quelle inibizioni è proprio stato Freud a darlo. Non credo quindi (anche se una posizione « ufficiale » in proposito della psicanalisi non esiste) che uno psicanalista possa negare gli aspetti positivi di quel fenomeno cui lei accennava. A meno di entrare nell’ambito di un personale dogmatismo. E’ vero che negli ultimi tempi molti psicanalisti hanno indagato in modo particolare sull’istinto di distruzione dell’uomo (l’altra grande scoperta di Freud) e non è a dire che abbiano avuto torto, visto tutto quello che è successo, nel mondo, e che purtroppo sta ancora succedendo. Ma questo non significa affatto sottovalutare l’Eros. O perlomeno, non dovrebbe significarlo. Comunque, ripeto, i Tre contributi alla teoria sessuale, di Freud, continuano a costituire il primo colpo di piccone portato contro tutte quelle costrizioni in materia sessuale che ci opprimevano. E che ancora per certi versi ci opprimono.
PLAYMEN – Io mi riferivo, in particolare, al rimprovero che molti fanno a Freud. Cioè avere egli sostenuto che certe repressioni in fondo sono utili perchè portano alla cosiddetta « sublimazione della libido » cioè alla sublimazione dell’energia erotica, in attività produttive, creatrici, fantastiche, artistiche, eccetera…
SERVADIO – Quei rimproveri partono da una inesatta comprensione (o conoscenza) del pensiero di Freud.
Quando egli parla di « sublimazione », infatti, si riferisce non all’istinto sessuale maturo, ma a quelli che sono stati definiti istinti « pregenitali », ossia immaturi. Che si riferiscono cioè a fasi precedenti quella genitale (fase orale, fase anale). Si può avere una intensa vita sessuale, senza escludere affatto la sublimazione. Potremmo a questo proposito fare esempi famosi: come Rodin, Victor Hugo, D’Annunzio e molti altri. Senza contare che lo stesso Freud non ha mai affermato che la genialità, per esempio, fosse legata in modo strettissimo alla sublimazione. Ma, ripeto, coesistono in noi, istinti legati alle nostre varie fasi della sessualità. Quelli meno maturi, che potrebbero anche portare a perversioni di vario genere, possono invece essere « sublimati »: il voyeurismo in ansia conoscitiva, tanto per citare un caso.
PLAYMEN – Qual è la posizione della psicanalisi, oggi, di fronte alla parapsicologia, cioè di fronte a quei fenomeni paranormali (telecinesi, telepatia eccetera) che la scienza ha sempre accettato a malincuore, e comunque mai spiegato?
SERVADIO – Come lei sa, personalmente mi sono molto occupato dei problemi di parapsicologia. E lo stesso Freud si era profondamente interessato a questi fenomeni. Siamo ancora, ovviamente, in fase di ricerca. Ma è certo che la psicanalisi ha la possibilità di fornire nuovi schemi concettuali che possono aiutare alla comprensione dei fatti. E non è un caso che un numero sempre maggiore di psicanalisti si « apra » a questi studi e a queste ricerche.
PLAYMEN – Se oggi Freud fosse vivo, pensa che modificherebbe qualcuna delle sue osservazioni, alla luce delle nuove scoperte, di fronte, soprattutto, a una società così profondamente diversa da quella in cui viveva? E in caso affermativo, quali sarebbero, secondo lei queste modifiche?
SERVADIO – La miglior risposta sta nella vita stessa e nelle opere di Freud. Voglio dire che egli ha continuamente modificato il suo pensiero via via che nuovi fatti, nuovi elementi venivano a chiarificargli una certa realtà. Freud era profondamente modesto di fronte alle sue stesse dottrine scientifiche. Ed era d’altra parte un uomo di assoluta e quasi esasperata integrità morale. Più di una volta, egli ha così riconosciuto certi suoi errori, certe sue imperfette interpretazioni, e soprattutto ha riconosciuto di essere soltanto ai primi passi, che molto cammino restava da compiere. Questa mi sembra la migliore risposta alla sua domanda: anche se per quanto concerne l’ultima parte (« quali sarebbero le modifiche »), nessuno è in grado di rispondere efficacemente.
PLAYMEN – Freud riteneva che la terapia analitica non fosse in grado di affrontare il problema degli psicotici. Oggi, alcuni casi clamorosi hanno fatto pensare, a molti, il contrario. Qual è la sua opinione in merito?
SERVADIO – E’ indubbio che oggi delle psicosi, in generale, comprendiamo molte più cose che ai tempi di Freud. E’ logico. La scienza va avanti. Ed è vero, quanto lei afferma. Ci sono stati dei casi clamorosi che hanno fatto ripensare alla possibilità di affrontare psicoterapeuticamente gli psicotici. Ma stiamo attenti. E’ indubbio intanto che per molti versi brancoliamo ancora nel buio. Se certe zone del problema sono state per così dire « illuminate », altre invece sono ancora piuttosto oscure. E in quanto ai casi citati, molti si domandano se la loro positiva risoluzione non sia piuttosto da ascriversi a un rapporto unico e irripetibile fra il malato e l’analista, cioè a certe particolari « empatie » che si possono stabilire fra l’uno e l’altro, ma che non possono costituire certo una norma. In proposito gli stessi psicanalisti sono divisi. Alcuni, come Boyer e molti altri, affermano che lo psicotico presenta sempre e comunque un aspetto « afferrabile » e che quindi si può sempre con essi applicare il metodo analitico tradizionale. Altri invece sono più prudenti. Ovviamente è troppo presto per esprimere un giudizio definitivo. C’è poi un altro problema da prendere in esame. Cioè quello delle modificazioni biochimiche nella struttura stessa del cervello degli psicotici. Si è anche cercato di identificare tali modificazioni e si sono fatte alcune affermazioni che però non sono ancora state dimostrate in modo definitivo. A mio giudizio, una modificazione biochimica nell’organismo degli psicotici è molto probabile. Il che non significa che tale modificazione sia all’origine della malattia. L’origine può essere psichica, ma in un secondo tempo si può verificare l’instaurarsi di tale modificazione.
PLAYMEN – Qual è l’apporto, o meglio, il rapporto fra le nuove conquiste farmacologiche nel campo della psichiatria e la terapia analitica? In altri termini, può un malato giovarsi delle une e dell’altra contemporaneamente?
SERVADIO – In linea di principio la psicanalisi è una psicoterapia e in quanto tale rifiuta l’apporto di farmaci. Anzi, molto spesso capita agli psicanalisti di dover in un certo senso « divezzare » i malati ormai abituati ai tranquillanti o agli antidepressivi. Ma d’altra parte non si può essere assolutisti. Se per esempio un malato è tanto angosciato da non poter neppure parlare, perchè non aiutarlo con una compressa di tranquillante, che gli consentirà, almeno, di iniziare il colloquio analitico?! D’altra parte a mio parere non è tanto l’azione del farmaco che conta, quanto ciò che esso rappresenta per il malato. Per questo l’analista deve stare molto attento a capire questo più riposto significato, e a servirsene a fini terapeutici. In questo e solo in questo senso si può dire che i nuovi farmaci possono aiutare lo psicanalista nel suo lavoro.
PLAYMEN – Molti, soprattutto nel pubblico non informato, ritengono che gli elettroshock rappresentino una terapia antiquata, barbara, e tutto sommato inefficace e che quindi dovrebbero essere proibiti. Che cosa pensa?
SERVADIO – A essere veramente sincero io sono contrario all’elettroshock. Soprattutto quando gli elettroshock siano somministrati al di fuori di un contesto psicoterapeutico. Mi risulta che in America e in altri paesi l’elettroshock viene inserito in casi eccezionali, in un contesto psicoterapico. Ma non capisco che giovamento possa portare a un paziente, portarlo ex novo in clinica, fargli degli elettroshock e poi riportarlo a casa. E’ un po’ come dargli delle mazzate in testa…
PLAYMEN – Sempre più si va diffondendo nel mondo l’idea di ospedali psichiatrici liberi. Ospedali dove gli ammalati si «autogestiscono», dove porte e cancellate e sbarre siano abolite, così come aboliti siano i mezzi di coercizione. Lei pensa che tutto questo possa essere attuato senza pericoli per la società?
SERVADIO – Sì. A una condizione, però. Che coloro che si occupano del rapporto con i malati, in questi ospedali, siano preparati. Si verrebbe a rompere in questo modo il terribile circolo vizioso che si stabilisce fra medici e infermieri da un lato, e psicotico dall’altro. In generale il medico e l’infermiere hanno paura dello psicotico. E questa paura genera coercizione e repressione, la repressione genera la collera dello psicotico, che genera nuove più forti angosce e repressioni. Si crea una spirale che non si spezza più. Ma se si parte invece da un rapporto differente, se si riesce a superare quella spirale, allora lo psicotico può essere tenuto «senza sbarre». Ho conosciuto uno psichiatra, in Francia, che conduceva avanti un esperimento del genere da quasi dieci anni. E quando gli ho chiesto se non si erano mai verificati incidenti, mi rispose: « Sì, una volta un infermiere è scivolato ed è caduto dalle scale ». Quando si verificano incidenti è quasi sempre perchè vi sono stati degli errori dalla parte dei medici o degli infermieri. Errori spiegabilissimi e comprensibilissimi, considerate le difficoltà del compito che essi hanno davanti, ma comunque errori che hanno di nuovo rimesso in piedi quel circolo vizioso di cui parlavo all’inizio. Insomma, il fatto è che non bisogna credere che sia sufficiente dire: va bene, adesso abbiamo scoperto qual è la via giusta, benissimo, via le sbarre, via i cancelli, via tutto. Eh, non è così semplice. Bisogna preparare le condizioni per attuare tutto questo. E le condizioni sono rappresentate in primo luogo da una diversa mentalità nei medici e negli infermieri, da un diverso modo, proprio, di atteggiarsi interiormente di fronte ai pazienti. Altrimenti si rischia di combinare dei guai.
PLAYMEN – Gli esperimenti tentati con le cosiddette droghe psicodeliche, possono aiutare il lavoro dello psicanalista?
SERVADIO – E’ indubbio che, verso la fine del trattamento analitico le sostanze psicodeliche possono aiutare a rendere più chiare le cose. Analogamente le sostanze psicodeliche possono essere utili nell’analisi didattica dei futuri analisti, che possono imparare a conoscere meglio se stessi. Non sono invece d’accordo con quanti sostengono che le droghe psicodeliche dovrebbero essere usate in dose massiva e su larga scala, per la maggiore conoscenza dei problemi profondi della struttura psichica. Più interessante se mai l’uso che – sempre con le dovute cautele, e con tutti i controlli scientifici e medici necessari – potrebbe farne un artista. Ed è ormai noto a tutti che molti artisti, anche italiani: registi, pittori, scrittori hanno usato sperimentalmente l’LSD e la psilocibina per allargare la loro capacità di percezione e la loro sensibilità. Ma, ripeto, le precauzioni non sono mai troppe.
PLAYMEN – Che cosa c’è di vero, in quanto hanno affermato i giornali circa nevrosi « ricostruite » per mezzo di un cervello elettronico?
SERVADIO – E’ chiaro che un cervello elettronico può essere messo in condizioni tali da non consentirgli di « integrare » le informazioni ricevute. E’ un po’ quanto si ottiene quando si realizzano le cosiddette nevrosi sperimentali negli animali. L’animale (o il cervello elettronico) posto di fronte a due informazioni contraddittorie (per l’animale, ad esempio, da un lato il cibo, dall’altro la scarica elettrica) non sapendo più come comportarsi (a quale azione corrisponda la somministrazione di cibo e a quale la somministrazione della scarica elettrica), diventa « nevrotico ». Qualcosa di analogo, ripeto, accade o può accadere nei cervelli elettronici. Ma possiamo veramente parlare di vere e proprie nevrosi? Se guardiamo soltanto alle apparenze (e ritorno qui all’esempio degli animali) certamente. L’animale si agita, si muove a casaccio, oppure diventa solitario, si chiude in un canto e rifiuta il rapporto. Ma queste non sono vere e proprie psiconevrosi, quelle cioè dovute a episodi ed esperienze della nostra prima infanzia. Al massimo, e non è poco, questi esperimenti possono darci una idea più precisa di ciò che accade a un uomo sottoposto a stress. Meglio: può darci anche una idea del fattore quantitativo. Cioè di quale potrebbe essere il « limite di rottura » oltre il quale si ha lo scatenarsi della nevrosi. Ma bisogna stare molto attenti all’uso che si fa di certi termini che possono ingenerare pericolose contusioni.
PLAYMEN – E’ venuta di moda, negli studi più recenti, la tendenza a interpretare fatti e personaggi storici alla luce della psicanalisi. E’ legittimo questo modo di procedere?
SERVADIO – E’ legittimo se inteso in un certo senso. Per esempio la psicanalisi può meglio spiegarci certi atteggiamenti e certe preferenze dell’uomo Rimbaud, e di conseguenza meglio aiutarci a capire la sua poesia. Ma non dobbiamo attenderci dalla psicanalisi ciò che non può darci. Cioè la motivazione estetica di quella poesia. Del resto ci sono degli studi molto interessanti su Swift, su Poe e più recentemente su Schliemann, lo scopritore di Troia. Il metodo di scavo di Schliemann era un metodo assai singolare: egli mirava subito allo strato più profondo, contrariamente alle più comuni regole dell’archeologia. E la psicoanalisi, per esempio può servirci a comprendere che cosa spingeva Schliemann fin da bambino a scavare, e perché egli adottasse quel metodo per i suoi scavi. E’ chiaro che si tratta sempre di teorie e di ipotesi, per quanto suggestive. Un tempo si considerava il personaggio storico come un paziente. Oggi si adotta un punto di vista al tempo stesso più preciso e meno categorico. Ma sussistono fatti che possono essere messi in luce. Se per esempio un personaggio storico ha avuto un’improvvisa svolta nel suo comportamento, e scopriamo che poco prima di quella svolta gli era morto, supponiamo, il padre, ebbene è probabile che fra quella svolta e quella morte ci fossero dei rapporti. Che possono essere considerati, e che possono, in qualche modo, portare un loro contributo alla interpretazione storica (o artistica o letteraria) del personaggio.
PLAYMEN – Lei crede alla possibilità di una psicoterapia di gruppo? E in quale modo e secondo quali tecniche possa essere applicata?
SERVADIO – Senza alcun dubbio la psicoterapia di gruppo può svolgere una sua utile funzione. Soprattutto considerata la sproporzione esistente fra malati che necessiterebbero di una terapia analitica, e il numero ristretto degli analisti e del loro tempo.
PLAYMEN – Lei avrà sicuramente letto il libro di Balint Medico, paziente, malattia. Lei pensa, come afferma Balint, che anche il medico generico possa, nel suo studio, applicare diciamo una «piccola psicanalisi »?
SERVADIO – Il dottor Balint, che è presente qui al Congresso, sostiene soprattutto la necessità di vedere il malato con occhio diverso. Di sforzarsi di considerarlo nel complesso della sua individualità, senza compiere l’operazione arbitraria di estrapolarne i sintomi e le disfunzioni. Partendo da questo punto di vista, è chiaro che il medico può svolgere una funzione non indifferente. Ancora una volta, tutto dipende dal rapporto, dal modo di porsi di fronte alle cose e agli uomini. Anche la somministrazione di un cachet può assumere un significato diverso. Può essere il semplice antinevralgico che viene fuori da un distributore automatico, come una qualsiasi bottiglia di Coca-Cola, oppure può essere un fatto molto più preciso, importante, un fatto inserito in un rapporto fra il medico e il malato.
PLAYMEN – Il professor Moreno aveva cercato di usare terapeuticamente la catarsi drammatica con il suo famoso «psicodramma». Lei pensa che, in questo senso, possa essere utilizzato anche il mezzo cinematografico?
SERVADIO – Nell’ambito e nei limiti della psicoterapia di gruppo tutti questi mezzi possono essere adoperati. Lei pensa forse a uno psicodramma cinematografato, e poi riproiettato agli stessi malati, per mostrare loro certi atteggiamenti, certe « pose » che essi assumono… Credo che ciò sia già stato fatto, e credo senz’altro che qualcosa del genere potrebbe avere una sua utilità.
PLAYMEN – Lei pensa che la psicanalisi, oltre alle sue funzioni terapeutiche, possa contribuire a rendere l’uomo più felice?
SERVADIO – Non lo so. E’ difficile dirlo. Certamente la psicanalisi rende l’uomo più consapevole. Ma è chiaro che non sempre consapevolezza è sinonimo di felicità. Una volta mi chiesero in una intervista se io ricordavo il periodo della mia analisi come un periodo felice. Io risposi allora, e posso rispondere ora, che non ero affatto felice, ma che ero felice di fare quell’esperienza. E’ indubbio, la consapevolezza si paga. Ma stiamo attenti: la consapevolezza anche paga. L’equilibrio della felicità non viene quindi molto spostato. Ma è la stessa nostra natura, è la stessa nostra dignità di uomini che ci spinge ad acquistare sempre maggiore coscienza. E in questo la psicanalisi ci è senza dubbio di aiuto.
PLAYMEN – Le clamorose conquiste della tecnica hanno creato un nuovo tipo di uomo, legato alla sua macchina in comunanza quasi simbiotica. Questo uomo di cui i cosmonauti rappresentano l’esempio più clamoroso – è stato da alcuni ironicamente e polemicamente chiamato il « pithecantropus tecnologicus » per sottolineare le differenze fondamentali fra esso e l’homo sapiens: cioè fra esso e l’essere che noi siamo ancora abituati a considerare, intriso di una precisa cultura umanistica, ancora fiducioso in certi valori, che, invece, per l’uomo della nuova età proprio non esistono più. E’ vero tutto questo? Possono veramente le conquiste tecnologiche e le loro logiche conseguenze sociali, avere così drammaticamente « mutato » nel profondo la psiche dell’uomo? Sono giusti e preoccupanti oppure eccessivi e apocalittici questi timori? Che cosa, insomma, ci dobbiamo aspettare, in questo senso, dal futuro? Non è un caso, come vede, se chiudo con questa domanda la mia intervista.
SERVADIO – Secondo me ci troviamo di fronte a un bivio. Vi sono due possibilità. L’uomo può infatti lasciarsi trascinare dal suo bisogno di « esteriorizzazione » (cioè, in ultima analisi, dal suo bisogno di « fuggire da se stesso »), oppure può trovare la forza di sentire le nuove conquiste, che la tecnica gli mette a disposizione, sub specie interioritatis. In realtà, in un primo momento le macchine rappresentano dei tentativi di introiezione, ossia di rendere nostri gli oggetti. Così il bastone diventa un prolungamento del mio stesso braccio, così il microscopio diventa un mio nuovo occhio. Non dimentichiamoci che le macchine sono state esse stesse costruite dall’uomo. Dall’uomo per l’uomo. Ma c’è anche il pericolo opposto. La macchina ci sfugge di mano, la macchina ci risucchia, in un certo senso, fuori di noi. Allora noi non ci apparteniamo più, apparteniamo a lei. Ed è indubbio che a voler osservare con una certa obiettività molti aspetti di questa nostra società tecnologica, questo pericolo ci pare immanente, presente, non possiamo fare a meno di constatarlo e di considerarlo per quello che è. E si tratta del pericolo più grave, starei per dire, se non rifiutassi decisamente questa parola, del massimo « peccato ». L’uomo che nega se stesso. Sì in un certo senso, l’uomo che sfugge dal suo stesso corpo, e cerca, disperatamente, di rinnegare la propria umanità. Se la conquista della Luna dovesse significare il primo grande passo verso questa fuga e questa negazione, non potremmo certo accoglierla come una reale conquista, ma dovremmo cominciare a considerarla come una catastrofe. Io spero, confido fermamente che non sarà così.
Intervista condotta a Roma per – Playmen da FRANCO VALOBRA