Arrossire non deve essere imbarazzante
Arianna; marzo 1969
RISPONDE IL PROFESSOR EMILIO SERVADIO
« Arrossisco facilmente, anche senza motivo: perché si arrossisce? Da che cosa dipende questa reazione, che spesso mi crea molto imbarazzo? Si può in qualche modo eliminare? » (Barbara C., Roma)
Al livello fisiologico, l’arrossire è il risultato di una dilatazione delle arteriole del volto o del collo, per cui aumenta in quelle zone la irrorazione sanguigna. Il processo è retto dal sistema nervoso autonomo e quindi sfugge al controllo della volontà. Sul piano psicologico, è molto probabile che il rossore sia una specie di manto naturale, ottenuto con mezzi puramente soggettivi, sotto il quale l’individuo, in una forma molto primitiva di espressione, vorrebbe in certo qual modo nascondersi. A questa teoria sembrano dare conferma alcuni modi di dire abituali, come « coprirsi di rossore », « un velo di rossore si diffuse sul suo volto », eccetera. L’arrossire anormale, o patologico, può dunque considerarsi come una reazione di difesa sproporzionata, in situazioni che razionalmente e coscientemente non presentano proprio nulla da cui ci si debba proteggere o coprire, ma che possono peraltro, inconsciamente, associarsi a rappresentazioni diverse e drammaticamente sentite. Queste rappresentazioni inconscie, bene studiate dalla psicoanalisi, si riferiscono regolarmente a situazioni infantili, e a paure, di solito molto esagerate o addirittura immaginarie ma non superate, relative alle proprie possibilità di affermazione, specialmente sessuale, e alla propria integrità fisica. Si vede dunque subito che l’arrossire reca in sé una contraddizione: perché se è vero che arrossendo ci si vorrebbe coprire, e quindi sottrarre all’ambiente, è altresì vero che colui o colei che arrossisce tende senza volerlo a provocare l’attenzione delle persone circostanti. Vi è quindi nell’arrossire un conflitto tra il desiderio di affermarsi e di esibirsi, e la difesa contro tale impulso. Questo conflitto può diventare intollerabile nell’arrossire patologico, e nella morbosa paura di arrossire, paura che in termini clinici, di derivazione greca, viene chiamata ereutofobia. Infatti, molti individui soggetti al facile arrossire e all’ereutofobia dichiarano che una delle situazioni più tipiche in cui arrossiscono, e che perciò maggiormente temono, è quella in cui ritengono di poter essere interpellati, o sollecitati a dire o a fare qualche cosa: in cui, cioè, essi sarebbero in certo modo spronati a farsi avanti, ossia a scoprirsi, a esibirsi.
Quasi tutti gli psicoanalisti che si sono occupati della questione hanno messo in evidenza il compromesso tra spinte esibizionistiche inconscie e desiderio di nasconderle, tipico del problema in questione. Alcune recenti osservazioni e scoperte sembrano indicare che il conflitto anzidetto non contiene il problema essenziale dell’ereutofobia, ma ne costituisce una copertura difensiva rispetto a un conflitto ancora più profondo, il quale avverrebbe tra un impulso primitivo non già a « essere guardati », bensì a « guardare ». Si tratterebbe comunque sempre di spinte e di difese inconscie, che in origine appartengono a livelli molto precoci dello sviluppo psichico e psico-sessuale. Il celebre psicoanalista americano Edmund Bergler riferisce che una sua paziente ereutofobica, mentre assisteva ad uno spettacolo di circo equestre, smise a un tratto di osservare due trapeziste, si coperse il volto con le mani, e gridò: « Non posso guardare! Ditemi quando è finito! », attirando così, col suo gesto, l’attenzione di chi le stava vicino. E’ evidente in questo caso che il provocare l’attenzione altrui era stato mobilitato contro un forte impulso a guardare. Subito dopo, peraltro, la stessa difesa esibizionistica fu sentita come impropria, la paziente si vergognò del suo comportamento e… arrossì violentemente.
Per quanto riguarda la valutazione psicologico-clinica, e la cura, del disturbo denunciato dalla lettrice di « Arianna », è chiaro che occorrerebbe in primo luogo accertare se il disturbo stesso è qualcosa di più di una semplice e vaga tendenza, poiché in tal caso (e sembra proprio il caso qui considerato) si tratterebbe di una vera psiconevrosi. E se è così, è chiaro che una cura non può venire da farmaci o da amichevoli esortazioni o rassicurazioni. I disturbi psichici si curano oggi con la psicoterapia. A seconda dei casi, l’esperto potrà consigliare l’uno o l’altro tipo di trattamento, ossia una psicoterapia blanda di ispirazione psicoanalitica nei casi meno gravi, e una regolare psicoanalisi in quelli più seri. A distanza, è praticamente impossibile formulare diagnosi e prognosi precise: ma ci sembra senz’altro di poter assicurare alla lettrice che la prognosi, nel suo caso, appare favorevole.