Per i «tarantati» il Salento rimane la terra del rimorso
Si tratta di individui che si sentono come avvelenati da qualcosa di cattivo al fondo del proprio passato
Il Tempo 17/10/1961
Tutti hanno sentito parlate la «tarantella» e della «tarantola». La prima è una danza molto ritmata e veloce, che ha dato luogo a brillanti composizioni di musicisti anche famosi, per esempio Schumann. La seconda è un ragno velenoso, il cui morso produce gravi disturbi. La «tarantella» serve fra l’altro, secondo credenza popolare non ancora spenta, a curare e guarire le conseguenze dell’anzidetta morsicatura.
Questo è ciò che comunemente si sa e si dice. In realtà le cose sono molto più complicate. Esistono tuttora in Italia, e precisamente nel Salento, persone le quali presentano, sporadicamente o modicamente manifestazioni neuropsichiche abnormi, e vengono riportate alla normalità attraverso elaborate cerimonie in cui la danza, la musica e le invocazioni religiose hanno funzioni di primo piano, al di fuori di qualsiasi intervento medico o psichiatrico. L’assieme di tali manifestazioni vien chiamato «tarantismo», e presenta notevole interesse storico-culturale, etnologico e scientifico. Al tarantismo salentino ha dedicato una prolungata ricerca sul «campo» Ernesto De Martino, assistito da una squadra collaboratori; e i frutti di questa indagine sono contenuti in un suo libro pubblicato di recente dal «Saggiatore» (Alb. Mondadori, Milano): La terra del rimorso.
Il titolo richiede un’immediata spiegazione, la quale chiarirà meglio, a sua volta, l’orientamento del De Martino rispetto al problema. Per «rimorso» s’intende qui non già la consapevolezza di aver commesso azioni illecite, e la rispondente «cattiva coscienza»: bensì il sentirsi internamente e di bel nuovo «morsi», e come avvelenati, da qualcosa di cattivo che è nel proprio oscuro passato e tende, pur rimanendo inconscio, a riattivarsi e a «tornare». Tale definizione è indubbiamente corretta per chi si avvicini al problema alla luce delle odierne conoscenze mediche e psicologiche. E’ infatti pacifico che i «taratati» sono, nella stragrande maggioranza, individui i quali soffrono non già a seguito del morso venefico di un animale – foss’anche la vera e concreta tarantola delle classificazioni zoologiche – bensì per la virulentazione di conflitti psichici inconsci, che nel «tarantismo» trovano un loro modo di esprimersi e, insieme, di ridimensionarsi, cosicché, almeno pro tempore, l’individuo viene reintegrato nella «normalità» che gli è propria, e restituito alla comunità a cui appartiene.
La ricerca nella «terra del rimorso» è stata impostata dal De Martino essenzialmente sotto il profilo storico-religioso e storico-culturale. Il materiale pazientemente raccolto è stato sottoposto ad una analisi attenta e minuziosa, e inquadrato in modo magistrale rispetto alle forme che ha assunto nel passato, ai suoi antecedenti in epoca classica, e ai suoi paralleli folkioristici ed etnografici (particolarmente interessanti, in proposito, quelli relativi ai culti Vodun dell’isola di Haiti, da noi più d’una volta illustrati nelle colonne de Il Tempo). Poiché il tarantismo si è mantenuto per secoli nella Puglia cristiana, il De Martino ha dovuto approfondire – e l’ha fatto con l’usata perizia – l’antitesi fra Cristianesimo e culti orgiastici dell’antichità, di cui il tarantismo echeggia alcune caratteristiche, sebbene riplasmate in modi di cui non si riesce a ritrovare traccia anteriormente al Medioevo.
E in verità nel Medioevo se non addirittura, come scrive lo stesso De Martino, «in un altro pianeta» – sembrano svolgersi le scene cui l’Autore e la sua equipe hanno assistito nella «terra del rimorso», e a cui pare proprio di partecipare leggendo il suo bel libro. Alle allucinazioni, i agli stati confusionali, alle grida, alle convulsioni e alle danze frenetiche dei soggetti fanno da sfondo e da coro gli atteggiamenti, le preghiere, i canti e le musiche di chi li assiste e li coadiuva affinché essi possano attraversare e superare la crisi. Le descrizioni, molto accurate e, spesso, letterariamente avvincenti, sono rese ancor più efficaci da una serie di fotografie prese con la consueta abilità da Franco Pinna, e – rara novità – da un disco microsolco che accompagna il volume, e che riproduce in modo fedelissimo l’atmosfera sonora altamente drammatica, le esclamazioni, le ossessionanti « pizziche tarantate », e tutto ciò che acusticamente contrassegna, sia in un ambiente profano, sia nella chiesa dove viene invocato San Paolo, la grande vicenda riequilibratrice del tarantismo.
Consapevole della multiformità della vicenda stessa, e dalla necessità di esaminarla dai punti di vista di scienze e discipline diverse e particolari, il De Martino si è avvalso, nella sua laboriosa indagine, dei contributi di un etno-musicologo (Diego Carpitella), di una sociologa (Annalia Signorinelli), di un’assistente sociale (Vittoria De Palma) e, beninteso, di uno psichiatra (Giovanni Jervis) e di una psicologa (Letizia Jervis-Comba). Ognuno di questi ha dettato, per La terra del rimorso, altrettante apposite appendici.
Ragni e sogni
E’ un peccato – e il De Martino esplicitamente se ne rammarica – che in questa affascinante ricerca, e all’elaborazione dei relativi risultati, sia mancata la collaborazione di uno psicoanalista. In primo luogo, tale collaborazione avrebbe potuto integrare e approfondire il lavoro dello psichiatra e quello dello psicologo, consentendo – qualora le circostanze fossero state particolarmente favorevoli di giungere a qualche risultato più conclusivo. Tanto il dottor Jervis quanto la dottoressa Jervis-Comba si sono infatti accontentati di definire accuratamente il problema dai loro rispettivi punti di vista: ma il primo chiude la sua esposizione rinunziando a riconoscere e a descrivere nel tarantismo una vera e propria «dimensione» psichiatrica, e con un invito alla cautela; la seconda, dichiarando che « la possibilità di integrare in un ampio quadro i profili dei singoli casi studiati e del gruppo sfugge alla nostra competenza ». Sono posizioni e dichiarazioni oneste, di studiosi consapevoli della limitatezza dei loro stessi strumenti di lavoro.
Ci sembra tuttavia che il De Martino avrebbe comunque potuto mettere maggiormente a profitto i criteri psicoanalitici, seguendo in modo più aperto e volenteroso alcune indicazioni che noi stessi gli demmo a suo tempo, e di cui egli gentilmente ci si professa grato. Di tutto il lavoro psicoanalitico, utilizzabile per l’approfondimento del problema del tarantismo, il nostro Autore, pur solitamente così informato e attento, non considera e lo fa di sfuggita se non un notissimo scritto di Karl Abraham, nel quale si mostra che il «ragno» compare nei sogni, e in certe fantasie, quale simbolo di un aspetto primario, parziale e terrorizzante della figura materna ( il De Martino preferisce scrivere, un po’ sbrigativamente, «della madre in collera»). Le cose sono in verità molto diverse e molto meno «marginali» di come appaiono al De Martino; e tali rimarrebbero anche se rinunziassimo a chiederci perché mai questi non abbia citato neppure lo specifico saggio psicoanalitico di Howard F. Gloyne, apparso nel 1950, sul tarantismo, né alcun altro contributo analitico oltre quello già citato di Abraham, che risale al 1922. II ragno, nelle fantasie inconscie di molti individui, è la cristallizzazione concreta di un’immagine primordiale: quella di una entità mostruosa e divorante. Nei primissimi tempi dell’evoluzione psichica, certe fantasie del bambino, come ad esempio quella di poter abbrancare e divorare (succhiare) lo oggetto (ossia il seno materno), vengono «proiettate», e cioè attribuite all’oggetto stesso. Si forma così una imago interna, che trova più tardi nel ragno, o in altri animali dello stesso tipo, una contropartita precisa, tale da poter essere percepita e pensata e sognata in particolari circostanze. Un vastissimo materiale psicologico-clinico ha sistematicamente indicato che l’imago in questione può in certi casi essere attiva, o riattivarsi, presso vari tipi di individui: da persone normali nel corso di particolari crisi psicologiche sino a veri e propri malati di mente.
Nei tarantati salentini, tutti i processi psichici relativi all’attivazione o alla riattivazione patogena di un’entità malefica interiore assumono fisionomia specialissima e sono indubbiamente – come scrive il De Martino – condizionati in modo assai stretto da circostanze storico-culturali, ambientali ed economiche tutt’affatto specifiche. Nulla vieta di ammettere, con il De Martino, che gli episodi culminanti del tarantismo coincidano con l’epoca del raccolto, «quando cioè acquistano particolare rilievo sia gli animali che danneggiano il raccolto stesso, sia quelli che insidiano chi raccoglie». Tutta via appare in questo tentativo d’inquadramento genetico un vuoto, una lacuna, che il metodo seguito dal De Martino non consente di colmare, così come non possono riempirla i contributi di una psichiatria non risolutamente psicoanalitica, o quelli di una psicologia fondata sull’uso dei tests o su qualche tentativo di colloquio e di comunicazione a livelli inevitabilmente superficiali. A nostro avviso, la introduzione coraggiosa e consapevole del criterio psicoanalitico avrebbe permesso al De Martino di riconoscere nel tarantismo uno spettacoloso e importantissimo aspetto fenomenologico singolare e collettivo, variamente condizionato, di una fondamentale, umanissima «crisi dell’Io», rispetto al «morso»(cui nessuno può in certi casi sottrarsi appieno) di taluni «ragni», o consimili «entità cattive», che dormono nelle nostre stesse profondità e che talvolta si ridestano. Da tali profondità essi possono esser cacciati, o possono rientrarvi indeboliti, con mezzi che vanno dalla psicoterapia scientifica delle società culturalmente progredite sino alle pittoresche, superstiti cerimonie che si svolgono ancor oggi nella «terra del rimorso».
Emilio Servadio