Il misterioso Jules Verne
Carte Segrete luglio-sett. 1967
Di Phileaf Fogg, protagonista del Giro del mondo in ottanta giorni, Verne ci ha dato un’immagine assai simile a quella che quasi tutti si sono fatti dell’autore: è il ritratto di un individuo che vive come una macchina pensante, puntuale, freddo, scrupoloso, e dalle decisioni irremovibili. Sono questi gli elementi che qualificano, secondo la psicologia clinica, le personalità cosiddette « coatte », ovvero « ossessive ». In esse appaiono assai scarse le capacità di amore: e a molti lettori del Giro del mondo in ottanta giorni il matrimonio finale di Phileas Fogg con la giovane vedova che aveva salvata dal rogo è sembrato perciò un episodio giustapposto e non necessario – come l’innesto di un cuore umano in una calcolatrice elettronica.
Prima di chiederci se anche Jules Verne sia stato una «macchina provvista di cuore», ricordiamo che di Phileas Fogg, Verne scrisse altresì che « parlava il più raramente possibile, e sembrava tanto più misterioso quanto più era silenzioso. La sua vita era bensì evidente, ma ciò che faceva era così matematicamente e sempre la stessa cosa, che l’immaginazione, scontenta, cercava più in là ». Nei limiti in cui possiamo ravvisare una identificazione tra Verne e il suo personaggio, l’espressione appare un invito. Non ci è dato investigare i segreti del misterioso ma immaginario Phileas Fogg. E’ lecito e possibile, allora, cercar di capire quelli di Jules Verne? L’impresa potrebbe sembrare ingiustificata a chi ritenesse, con André Malraux, che non si debbano svelare i « poveri segreti di uomini che fanno onore all’uomo ». Ma la tesi è ovviamente insostenibile: biografi e storiografi hanno sempre ricercato e rivelato gli aspetti anche più intimi dei grandi personaggi della storia politica o letteraria, e non poche volte sono stati addirittura i personaggi stessi a confessare in pubblico! Non vi è persona d’intelletto che non sia grata a chi ci ha fatto conoscere i drammi interiori e le personali vicende di Napoleone o di Tolstoi, di Leopardi o di Chaplin, di Leonardo come di Edgar Poe. Eliminata questa pregiudiziale, troviamo un ulteriore « invito a procedere » nella biografia di Verne più completa e « autorizzata »: quella di Madame Allotte de la Fuye, nipote del romanziere, in cui è scritto che il suo grande parente « era, agli occhi di qualcuno, una personalità tenebrosa », e si dichiara che dopo un attentato di cui Verne fu oggetto nel 1886, lo scrittore s’incupì notevolmente, e apparve più che mai « dominato da chissà quale angoscia segreta ».
Nel Très curieux Jules Verne (Gallimard, 1960) Marcel Moré ha frugato – non molto ordinatamente, ma con grande zelo e non poca ingegnosità – in quelle « tenebre », in quei segreti. La sua principale trouvaille riguarda il rapporto psicologico di Verne con il padre – genitore vero, imago, o personaggio « paterno » a seconda dei casi. Il relativo problema non era stato mai « centrato » precedentemente, né dai biografi né dall’opinione comune: l’una e gli altri probabilmente fuorviati dall’aspetto piuttosto solenne e patriarcale dello stesso grande Jules, così come ce lo hanno fatto conoscere descrizioni, disegni e dagherrotipi. Chi avrebbe potuto immaginare Verne alle prese con un’« autorità» di tipo paterno, psicologicamente non accettata, ma neppure neutralizzata?
A undici anni Giulio Verne, fanciullescamente innamorato della cugina Caroline, fuggì da Amiens e s’imbarcò su un veliero. Il padre lo raggiunse, gli inflisse una solenne bastonatura, e lo riportò a casa. Secondo Marcel Moré, questo evento traumatico costituì il nucleo di un grave conflitto di Verne nei riguardi del proprio padre. Probabilmente, secondo noi, tale conflitto già esisteva (tutta la teoria psicoanalitica è concorde nel situare l’acme del complesso edipico intorno ai quattro o cinque anni, e nel considerare le fughe da casa, in qualsiasi modo « scatenate », come indice di una tensione endofamiliare in atto). Visti comunque sotto tale profilo, certi ulteriori contrasti nella vita di Verne, e soprattutto nella sua produzione intellettuale, si chiariscono in grado notevole. In primo luogo, quello tra la sua vita prevalentemente reclusa e sedentaria, e le fantasiose « fughe » compiute, per il tramite dell’identificazione con certi suoi personaggi, nei più lontani Paesi, e persino nelle profondità terrestri, o intorno alla Luna. In secondo luogo, l’atteggiamento che si può ben chiamare « ambivalente », verso varie figure paterne, vere o immaginarie: per cui sia nella vita reale e vissuta, sia in molte pagine dei Voyages extraordinaires, ricorrono le immagini del « padre ideale » e del « padre cattivo », si alternano vere e proprie simbiosi, e feroci antagonismi, tra esponenti « paterni » o « filiali », appartenenti a diverse generazioni.
Frustrato nel proprio rapporto con il padre, Verne trovò un protettore, e in sostanza un secondo padre, nell’editore Hetzel – le cui lettere, come scrive, gli fanno « balzare il cuore », e che gli si rivolge chiamandolo « mon cher enfant ». I « padri ideali » dei suoi romanzi si chiamano Lord Glenarvan, Otto Lidenbrock, Lord Glenor. I « padri cattivi » sono Balao Rao, o Killer. I « padri reali », come il Capitano Grant, sono figure senza particolare rilievo. Una suggestiva trasformazione di « figlio ribelle » in figura paterna benevola e protettiva si può ravvisare nell’evoluzione del Capitano Nemo, nichilista e distruttore dell’autorità nelle Ventimila leghe sotto i mari, e dispensatore occulto e quasi onnipotente di benefici nell’Isola misteriosa.
Ostile e ossequiente, timoroso e ribelle verso il padre, Verne esprime in molte sue pagine la non avvenuta risoluzione di un conflitto che ogni uomo deve, a un certo punto della sua vita, superare, se non vuol rimanere eternamente rimorchiato e «dipendente», magari anche sul solo piano morale, e a livelli inconsci. Nella sua vita, vediamo alternarsi comportamenti da perfetto borghese, tutto « casa e famiglia », e iniziative «populiste» come quella che lo spinse, un bel giorno, a presentarsi candidato di un partito di estrema sinistra. Vediamo però anche tentativi d’incarnare, a sua volta, l’immagine del « padre ideale », non tanto verso il figlio Michel a cui mostrò bene spesso poca tenerezza e scarso interesse quanto verso altri uomini più giovani di lui. Fra questi, troviamo con sorpresa Aristide Briand sedicenne, che Jules Verne, già sui cinquant’anni, affettuosamente e per vario tempo «protesse».
Ma la crisi più saliente della vita di Verne si ebbe nel 1886. La nipote Allotte de la Fuye narra che una sera, Verne fu vittima, sulla porta di casa, di un tragico incidente. « Un disgraziato adolescente, fugge da casa con un’arma da fuoco. Per quale aberrazione la punta contro lo scrittore di cui, sin dall’infanzia, è lettore ammirato? La morte sfiora Giulio Verne da vicino, il colpo ch’egli stoma lo ferisce soltanto ». La pistolettata, infatti, ferì lo scrittore ad un piede, ed egli zoppicò da allora per gli altri diciannove anni che gli rimasero da vivere. Ma assai più che la ferita fisica, contò la ferita morale: poiché il « disgraziato adolescente » – come alcuni avevano supposto in passato e come Marcel Moré ampiamente dimostra – non era altri che il nipote dello scrittore, Gaston, che dallo zio era stato amato, e per lungo tempo beneficato.
Il grave episodio fu soffocato, la stampa acconsentì a non farne menzione, e Gaston Verne fu rinchiuso a vita in un manicomio. Quali siano state le profonde motivazioni del gesto insano, non ci è dato sapere, e tanto meno approfondire. Può darsi che nel nipote di Verne, come nel nipote di Beethoven, si sia esasperata l’ostilità contro « l’odioso benefattore », per adoperare una espressione di Swift (e la psicoanalisi ci apprende che tale ostilità non è che il parossismo di quella primitivamente diretta contro la figura paterna). Qualche accenno lascia supporre che Gaston sparasse perché lo zio gli aveva negato certi aiuti finanziari. Comunque, quel che più conta è il significato che questo dramma familiare ebbe per Verne. Da allora, come si è accennato, egli si mostrò ancor più riservato, incupito, e poco socievole. Il suo tentativo, d’impersonare un tipo di padre magnanimo e generoso in opposizione a quello che era stato il suo stesso padre per lui, era completamente fallito. La figura dello eroe avventuroso e prometeico, « proiettata » da Verne nel Capitano di quindici anni o in Michele Strogoff, si era miseramente ridotta a quella di un pazzoide che spara nel buio contro chi l’ha aiutato e protetto. Come scrive Allotte de la Fu -ye, « a cinquantott’anni, rinunciando alle attività parigine, alle crociere marine, Giulio non sarà più se non un borghese di Amiens. Robur il conquistatore ripiega le sue ali, Nemo il vagabondo dei mari getta la àncora ».
Gli scritti ulteriori di Verne, e soprattutto l’ultimo romanzo, La missione Barsac, riflettono questa fallimentare situazione affettiva, che diventa addirittura visione sociale tetra e pessimistica. La figura di Killer è l’incarnazione stessa dell’odio distruttivo verso un parente benefattore, Lord Glenor; e la distruzione totale di Blackland, fra turbini elettrici e immani esplosioni, sembra anticipare di oltre mezzo secolo gli annientamenti atomici…
Nelle Nouvelles explorations (Gallimard, 1963), Marcel Moré prende in esame altri quesiti relativi al « mistero di Verne ». Il primo quesito, a dire il vero, non ha nulla di « misterioso »: si tratta delle conoscenze e dei gusti musicali del romanziere, che appaiono singolari e precorritori non meno delle sue anticipazioni scientifiche. Tra gli autori preferiti del Capitano Nemo figura ad esempio Riccardo Wagner: e siamo appena nel 1870, quando Wagner era poco conosciuto e pochissimo capito («· ce génie incompris» lo aveva chiamato, due anni prima, un altro personaggio di Verne, il geografo Paganel, in un episodio dei Figli del Capitano Grant). Non va dimenticato che Verne scriveva allora in una rivista educativa e ricreativa, Le musée des familles – non già in un periodico d’avanguardia! Moré crede di scorgere un altro segno dell’ammirazione di Verne per Wagner nel nome da lui scelto per la goletta che accompagna in Islanda gli eroi del Viaggio al centro della terra: la « Valchiria »! Frequenti sono d’altronde, nei romanzi verniani, gli accenni al mondo della musica, e le descrizioni – talune veramente efficaci – di esecuzioni vocali o strumentali.
Ma ben altrimenti importanti che non queste esegesi musicologiche sono le considerazioni e le analisi delle Nouvelles explorations, relative a un altro importante aspetto della personalità di Verne, quello dei suoi rapporti con l’imago femminile, moglie, amante o eroina che fosse. Dal punto di vista psicoanalitico, un conflitto non risolto con la figura paterna (e abbiamo visto sino a qual punto Verne ne soffrisse) deve riflettersi necessariamente sull’atteggiamento del soggetto verso la donna, e costringerlo all’uno o all’altro tipo di pseudo-soluzione nevrotica o di compromesso. Non ci meraviglia dunque di apprendere che Verne era in fondo un misògino. L’episodio pre-adolescenziale della fuga in mare aveva avuto un seguito. Dopo alcuni anni dalla raclée somministratagli dal padre, Verne aveva chiesto alla cugina Carolina di sposarlo. Non solo la ragazza gli aveva riso in faccia, ma aveva, di lì a poco, sposato un altro! Verne aveva reagito con rabbia, e depressione ansiosa, a quelle che in una lettera definì «les noces exécrables». La sua ostilità si era manifestata sia attraverso qualche allusione contenuta nei suoi scritti (nella Famiglia senza nome, fa travolgere dalle cascate del Niagara una imbarcazione chiamata… « Caroline »), sia, e con rilievo ben maggiore, in un generale atteggiamento verso la donna, fatto di diffidenza, freddezza, e sottile sarcasmo. Alcuni suoi personaggi sono francamente misògini e misògami: primo fra essi quel Clovis Dardentor, che « non ammetteva il matrimonio, né d’inclinazione, né di convenienza, né d’interesse, né di denaro, né di ragione, né sotto il regime della comunione dei beni, né sotto quello della separazione, né in alcuno dei modi usati in questo basso mondo ». A trenta anni, Verne sposò – come Phileas Fogg – una vedova, senza amarla, e dopo aver fatto chiaramente intendere che avrebbe potuto sposare qualsiasi altra donna. Sia in occasione delle sue nozze, sia commentando quelle di qualcun altro, associò più volte la cerimonia nuziale… a un rito funebre! Con la moglie Honorine fu sposo educato e freddo, e non mancò mai di allontanarsi da casa per qualche viaggio in mare sul suo « Saint-Michel », ogni qualvolta glie ne venne voglia.
Più chiaramente ancora che nella vita, queste ed altre «posizioni» e difficoltà di Verne si riflettono in varie donne dei suoi romanzi. Sono quasi sempre figure gentili ma scialbe, e le descrizioni – qualche volta ditirambiche – di Verne a loro riguardo non riescono a farcele sentire creature di carne ed ossa. Un motivo frequente nei Voyages extraordinaires è quello del matrimonio, o del ravvicinamento fra un uomo e una donna, reso impossibile da un fatto catastrofico che manda tutto a monte. Non rare anche le improvvise e fatali separazioni, o i divorzi rapidi. Alla felicità coniugale Verne credeva così poco che scrisse, al termine delle Tribolazioni di un Cinese in Cina: « i due sposi si amavano! Dovevano amarsi sempre! Mille felicità li attendevano nella vita! Bisogna andare in Cina per vedere cose simili… »). Il matrimonio di Phileas Fogg con la vedova Aouda è commentato con parole non molto diverse: Aouda – scrive Jules Verne – rese Phileas Fogg « il più felice degli uomini per inverosimile che la cosa possa sembrare».
Più tardi, Verne disumanizza ancor più la figura femminile, togliendole in vario modo ogni « carnalità ». La Stilla del Castello dei Carpazi risorge sotto forma di grande ritratto parlante, favoloso prodotto di illusioni ottiche e di artifizi auditivi (e Moré non manca, negli ultimi capitoli delle Nouvelles explorations, di mostrare come l’idea possa essere stata tolta da Verne alla Eve future di Villiers de l’Isle-Adam). In altri scritti, la macchina stessa è femminilizzata e sostituisce la donna inaccettata o inaccettabile. L’Isola a elica, l’ «Albatros », il « Nautilus » sono solo alcuni esempi di tale inconscia identificazione, che su un piano più generale appare oggi ulteriormente chiarita dalle analisi relative ai sentimenti e agli atteggiamenti di molti uomini verso la propria automobile. L’idea di una macchina meravigliosa e controllabile può essere apparsa a Verne, a livelli inconsci, come alternativa a una autentica «conquista della donna» – visto che questa gli era resa impossibile dal conflitto col padre e da oscuri timori d’infanzia – per cui gli era stato giuoco forza sviluppare le « difese antifemminili » a cui si è accennato.
Il « mistero » di Jules Verne appare dunque una interessante «variazione sul tema di Edipo», per esprimerci con una terminologia para-musicale che forse non gli sarebbe dispiaciuta. Nella sua personalità, nei suoi atteggiamenti, e in quei tests proiettivi che sono (come per ogni autore) le sue opere, troviamo tutta una serie di manifestazioni in cui si alternano gli impulsi temuti e le loro difese: nei riguardi della figura paterna, si va dai tentativi di rivolta all’idealizzazione, dalle labili identificazioni agli incupimenti depressivi; e nei confronti dell’imago materna, o femminile, dalla desessualizzazione alle ripulse pseudo-aggressive, dalla esaltazione retorica alla disumanizzazione, e al culto vicario della macchina.
L’opera che a nostro avviso riassume, più e meglio d’ogni altra, il travaglio psicologico di Verne, e le sue fantasie di liberazione e di superamento, è Un viaggio al centro della Terra. Di questo romanzo Marcel Moré si occupa assai poco: mentre basteranno – crediamo – alcuni cenni per farne comprendere l’alto valore simbolico, e l’indiretto potere di rivelazione.
Il « viaggio »· può intendersi come il sogno – o la rêverie – di un giovane, Axel, in cui l’autore si identifica. E’ un ragazzo timido e inibito, che obbedisce pavidamente alle imposizioni di un « padre »·· per cui ha timore e venerazione: il non cattivo, ma autoritario zio Otto Lidenbrock, a cui Axel non è mai riuscito a confessare il platonico sentimento che lo lega alla cugina Gretchen (superfluo osservare che questa è da vedersi come un duplicato gentile e benevolente della cugina Carolina, invano amata da Verne fanciullo). Inutilmente Axel cerca di trattenere lo zio dall’intraprendere la spedizione al centro della Terra, spedizione che egli stesso ha reso possibile decifrando un antico documento. I due partono: Lidenbrock con l’entusiasmo fanatico dei soggetti paranoicali, Axel con tutte le incertezze dell’adolescente alle soglie di un’unica e tremenda esperienza.
Ma quale esperienza? Una certa familiarità con i simboli dell’inconscio fa capire che si tratta, in sostanza, di un’iniziazione sessuale. La « terra » è una grande imago femminile, e nella sua intimità penetrano tre uomini: Lidenbrock, Axel e la guida Hans (il numero tre è un noto simbolo dell’apparato maschile) passa attraverso una serie di paurose « prove ». Si perde in oscuri cunicoli, affronta mostri e tempeste…: si trova, cioè, nel bel mezzo delle sue fantasie e dei suoi conflitti psicosessuali infantili. Lo zio e la guida appaiono qualche volta come figure di genitori «migliorati», che lo accompagnano e lo assistono nell’impresa.
Molti episodi del· «· viaggio » si prestano a interpretazioni (ma lo stesso si potrebbe dire di varie altre vicende narrate da Verne, a cominciare da quella descritta in Dalla Terra alla Luna) simboliche. Il « centro della terra » rappresenta l’intimità più profonda della madre o della donna; il vulcano centrale, per cui i tre discendono, è simbolo della vagina; il labirinto è l’interno del corpo femminile; rimanere senz’acqua ripete la paura di restar privi dell’alimento materno; il mare sotterraneo è il liquido amniotico… ecc. ecc. Da ultimo, Axel appare trasformato: prende iniziative, è pieno di ardimento e di slancio, fa saltare per aria una enorme ostruzione rocciosa… A questo punto, la vicenda diventa una tipica fantasia di nascita. Forze espulsive violente immettono nel mondo e restituiscono alla realtà un Axel letteralmente rinato, che viene a trovarsi – dalle brume nordiche e dal « gelo » anche affettivo da cui era partito – in una terra tiepida in cui abbondano cibo, frutti ed acqua. E’ diventato ormai un vero uomo, che può pertanto avvicinare sessualmente, e sposare, la donna che prima osava appena sfiorare con lo sguardo. Si sente eroe, ed è perciò l’eguale del « padre » Lidenbrock, di cui condivide la fortuna e la gloria…
In questa fantastica esperienza c’è praticamente tutto quel che Verne avrebbe potuto sperimentare se, anziché esternalizzarla in un romanzo, avesse vissuto dall’interno la vicenda di Axel, prendendo coscienza dei suoi significati, e rielaborandola in prima persona. A questo punto qualcuno potrebbe dire che in tal caso avremmo avuto un Verne più sano, ma non l’autore dei Voyages extraordinaires. Noi siamo d’altro parere, ma non è questo il momento, né il luogo di discutere il problema, tanto più che esso appare, se riferito a uno scrittore defunto, non molto più realistico di… una fantasia di Giulio Verne!
Emilio Servadio