Perché si uccidono
Il Tempo 22/02/1963
Vari episodi recenti — tra cui quello che ha avuto come protagonista la dodicenne Odilla Corona — hanno richiamato l’attenzione di moltissimi su un problema angoscioso e che sembra ogni tanto ripresentarsi con particolare veemenza: quello del suicidio di persone molto giovani o addirittura di bambini. Non v’e dubbio che se la notizia di un suicidio può turbare, quella della corsa alla morte di un ragazzino o di una bambina ci colpisce come un’atrocità, come l’improvviso avvizzirsi e cadere di un fiore in boccio.
I suicidi dei bambini sono rari; e per bambini intendiamo individui dagli 8 ai 14 anni, ancorché si siano dati casi estremi di suicidi in età, di 5 o 6 anni. Le statistiche recenti più attendibili indicano percentuali dallo 0,5 all’1% sui casi totali. Questa relativa rarità non attenua affatto la corrispondente impressione di sgomento; anzi, sembra rafforzarla!
Dopo i 14 anni, e sin verso i 19 e i 20, la percentuale de suicidi aumenta enormemente nella proporzione di 10 o di 12 a 1. Quello del bambino che si uccide rimane; dunque, un problema nei problema, che turba, lo studioso e insieme lo affascina.
Cercare in assoluto le « cause » del suicidio dei giovanissimi non sembra molto produttivo, ne costruttivo, dato che esse, in sostanza, possono essere altrettanto varie e complesse quanto quelle che scatenano l’autodistruzione in età meno precoci. Non v’e dubbio che tra i bambini suicidi vi siano – come fra gli adulti – dei veri e propri anormali psichici (tipi paranoicali, gravi depressi, personalità instabili)ed anche degli individui su cui pesano tare congenite od ereditarie. Si potrebbe anche dire – e qualcuno lo ha sostenuto – che lo stesso particolare paradossale e quasi inconcepibile atteggiamento anti-vitale di un bambino che cerca la morte, presuppone in lui una situazione psichica abnorme. Tuttavia, simili osservazioni non fanno che riproporre il problema sotto altra forma, ossia lo lasciano praticamente invariato.
Molto più interessante è il vedere quali siano gli elementi psicologici che, in un preadolescente, possono agire in modo tale da indurlo a togliersi la vita. Questi elementi sono quelli più tipici della mentalità sia del fanciullo, sia del ragazzina in età pre-puberale o appena puberale: emotività, immaginazione, impulsività, suggestionabilità, instabilità affettiva. Sono queste le leve che possono – per fortuna raramente – aprire le porte all’azione suicida.
Relativamente frequente (pur nella rarità globale dei casi in questione) è nel fanciullo il « suicidio emotivo – impulsivo », scatenato dal timore di punizioni, da sentimento di colpa, da rivalità, frustrata nei riguardi di un familiare o di un compagno. In simili casi, l’atto suicida è spesso a elaborazione rapida, talvolta istantanea. Di elaborazione alquanto più lenta è invece, di solito, il « suicidio immaginativo », tipico dei soggetti introvertiti, con tendenze alla depressione o addirittura alla melanconia. Vi sono stati casi in cui il giovanissimo ha coltivato abbastanza a lungo, nella sua mente, idee funebri – magari sulla base ai un decesso che lo aveva particolarmente colpito e addolorato – sino alla decisione ultima e fatale. Accanto a simili vicende si pongono quelle, talvolta particolarmente atroci nella loro assurdità, dei « suicidi per imitazione ». Non è di molti mesi fa il caso d’un quattordicenne trentino, che si uccise imitando punto per punto l’episodio -c on relative illustrazioni – narrato in un certo giornalino a fumetti…
Queste ed altre tristi storie sono rese possibili dalle peculiarità della psiche infantile o adolescenziale e dalle vicende dell’attività psico-istintiva in tali fasi. L’attività in questione è spesso improvvisamente potenziata per ragioni biopsi-cologiche (passaggio di età), mentre ragioni di ordine familiare, sociale e tradizionale tendono ad opporsi alla realizzazione dei relativi impulsi.
Non v’e dubbio, a questo punto, che il problema del suicidio dei molto giovani si dilati ed investa questioni di ordine morale, familiare e sociale. Una considerazione anche elementare ci mostra oggi il bambino come un essere troppo spesso lasciato a sé e ai propri eventuali conflitti, mentre sempre più acute si fanno le stimolazioni ambientali di ogni genere, che lo colpiscono e lo sollecitano. D’altra parte, sarebbe ingiusto dare senz’altro la colpa di questa relativa solitudine infantile ai genitori, che spesso hanno pochissimo tempo disponibile, perché assorbiti da precisi obblighi di lavoro e da altri impegni altrettanto inderogabili; o agli educatori e insegnanti, i quali ben sovente sono già troppo gravati dagli incarichi scolastici, e dai quali sarebbe assurdo pretendere che esercitassero, a vantaggio del bambino singolo, una consistente azione di conforto e di sostegno. Se è facile indicare gualche rimedio e operare in senso profilattico, occorre dunque spostare alquanto l’angolazione del problema e chiamare in causa sia — più genericamente — gli istituti sociali e le loro possibilità di miglioramento e sia — più specificamente — i possibili interventi psicopedagogici, psicoterapici e magari psichiatrici, rispetto ai quali occorrerebbe sempre maggiormente orientare e sensibilizzare la pubblica opinione.
Molti genitori e molti insegnanti sono – lo abbiamo detto – assai sovente scusabili se i loro figli o i loro scolari presentano difficoltà e problemi rispetto ai quali essi non sanno o non possono intervenire: lo sono un po’ meno quando ignorano o respingono gli aiuti, i consigli e l’opera specialistica degli psicologi, dei neuropsichiatri e degli psicoterapeuti. Un’ormai larga esperienza ha, infatti, dimostrato che tali consigli e tale opera hanno, in molti casi, dissipato piccole o grosse nubi dell’orizzonte infantile, molto prima che esse potessero dar luogo a vere tempeste psiche o a disastri irreparabili.
Emilio Servadio