I culti vodun di Haiti
Conferenza del Prof. Emilio Servadio
Studia Parapsychologica 1956
Signore e Signori, una mia breve, troppo breve permanenza ad Haiti nel gennaio scorso, mi ha permesso di approfondire un interesse, che in me era già vivo, per i culti e le cerimonie Vodun. Alcuni contatti da mi presi con persone del luogo, sia studiosi, sia gente del popolo, mi hanno ulteriormente illuminato su vari aspetti di questi culti, e hanno chiarito alcune idee che io stesso mi ero fatto in base a ciò che avevo letto o diversamente appreso.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, vorrei pregarvi di fare con me ciò che i tecnici della cinematografia chiamano una «carrellata», cioè di avvicinarvi prima panoramicamente, e poi restringendo il vostro angolo di orizzonte, verso quella che è stata giustamente chiamata « l’isola magica », non tanto per qualche rito magico che effettivamente vi si possa svolgere, quanto per il suo aspetto naturale, rigoglioso e superbo, che ne fa una vera gemma della natura.
L’isola di Haiti, come voi sapete, è divisa in due Stati, di cui uno la Repubblica di Haiti e l’altro la Repubblica di San Domingo. Noi ci occuperemo qui di ciò che si svolge nel primo. Come è noto, Haiti era popolata di schiavi, la cui liberazione cominciò nel 1791. La totale indipendenza fu ottenuta nel 1804, e appunto due anni fa la Repubblica di Haiti ha celebrato il centocinquantesimo anniversario della sua autonomia. In Haiti circa l’8o % della popolazione è rurale, e si tratta di una popolazione densa: circa tre milioni e mezzo di abitanti, su una superficie di 28 mila chilometri quadrati. La Repubblica è abitata prevalentemente da discendenti degli antichi schiavi e da coloro che si sono incrociati con i colonizzatori di allora. Le condizioni economiche sono dure, cosicché la vita del popolo haitiano è una vita materialmente assai ristretta. L’economia si basa per larga parte sulla produzione agricola e specialmente su quella del caffé, cosicché basta un raccolto andato a male per mettere in difficoltà tutta l’economia del Paese. Quanto alle condizioni culturali, ci troviamo di fronte a uno degli aspetti più interessanti del problema haitiano: abbiamo una popolazione per gran parte analfabeta e, per contro, una élite culturale veramente molto al corrente rispetto a tutto ciò che si svolge sul piano scientifico, letterario ed artistico internazionale. Questa élite ha potuto dar vita, fra l’altro, ad una ottima Università, l’Università di Port-au-Prince, in cui io stesso ho avuto l’onore di tenere tre conferenze, seguito con un’attenzione e un fervido calore, quali raramente avviene di trovare in Paesi considerati più avanzati.
Naturalmente le influenze culturali dipendono in buona parte dai rapporti antichi e recenti con la Francia. La Repubblica di Haiti è oggi l’unico Stato dell’emisfero occidentale in cui la lingua ufficiale sia il francese. Però il francese è la lingua colta: il popolo non parla francese, parla il creolo. Il creolo è una strana lingua, molto dolce ad ascoltarsi, costituita da un francese corrotto misto a parole di origine africana, specialmente del Dahomey (da cui erano precipuamente originari gli schiavi di allora), a vari termini dialettali francesi, specialmente brettoni, e anche ad alcune parole inglesi e spagnuole. Nella cultura haitiana s’innestano vari recenti apporti anglosassoni, specialmente del mondo americano, perchè Haiti in fondo si trova anch’essa, come tanti altri Stati dell’emisfero occidentale, largamente sotto l’influenza del più potente Stato di quell’emisfero: gli Stati Uniti d’America.
Ciò che secondo la grafia e la pronuncia locali si denomina Vodun e che viene spesso indicato come Voodoo o Vaudou, significa « essere soprannaturale », «spirito », sia in senso teistico universale, sia come designazione di un mondo di deità minori o di spiriti, i « loas » corruzione della parola francese loi, ossia « legge». La parola designa, infine, un sistema di culto, dominante in Haiti ancorché, ufficialmente, la religione ufficiale del Paese sia la cattolica apostolica romana. Le interferenze tra Vodun e Cattolicesimo non sono poche, come vedremo: e sono frequenti i casi in cui un Haitiano si professa cattolico e segue il culto cattolico, il che non gli impedisce di recarsi, di quando in quando, nella foresta a praticare i riti Vodun. Tanto il termine, quanto le credenze e i riti Vodun, hanno origine africana (Dahomey). Sul Vodun sono state diffuse in passato una quantità di fantasie, di dicerie e di leggende. La parola è stata considerata sinonimo di magia nera, di feticismo, di adorazione del serpente, di satanismo. Si è detto e scritto che il Vodun implicava cerimonie orgiastiche, eccessi sessuali, e persino sacrifici umani. Tutto questo è derivato originariamente, si ritiene, dalla prima descrizione di una cerimonia Vodun fatta nel 1797 da Moreau De Saint-Méry, in un libro intitolato « Description topographique, physique, civile, politique et historique de la partie francaise de St. Dorningue ». In tale descrizione una cerimonia Vodun veniva descritta come « una danza sociale », i cui· partecipanti, in circolo, veneravano un serpente: come « una specie di baccanale » – sono parole dell’autore citato. Romanzieri quali Dennis Wheatley hanno definito il culto Vodun come orrendo e satanico; uno scrittore come il Craige ha addirittura intitolato «Cugini cannibali» un libro sul Vodun, imputando agli Haitiani un immaginario cannibalismo; e il famoso Seabrook, in un libro che ha avuto molto, troppo successo – « L’isola magica », apparso nel 1929 – ha fatto, come ho potuto accertare, una notevole confusione tra veri e propri culti Vodun, cerimonie magiche, fatture, negromanzia, e ha confuso soprattutto in un modo veramente incredibile quello che in Haiti è magico e quello che è religioso.
Per capire meglio come e quanto il Vodun sia a mio avviso e secondo l’opinione di vari autori recenti – una vera e propria religione diremo meglio della sua teologia. I seguaci del culto Vodun ammettono un Dio supremo, ma pressoché inaccessibile, il Mahou degli indigeni del Dahomey e della Nigeria. Ma subordinati a questo Dio supremo, e più avvicinabili, sono i « loas », o spiriti, più o meno analoghi agli dei o ai semidei pagani. I riti Vodun hanno come scopo essenziale il mettere in comunicazione gli uomini con i loas, e ottenerne l’intervento. Naturalmente questa definizione è insufficiente, e vedremo ben presto che il Vodun ha anche ulteriori significati di carattere psicologico e sociale; ma quanto ho indicato corrisponde a ciò che i seguaci del Vodun fondamentalmente credono.
I loas, chiamati anche, nelle cerimonie, « mystères » e altre volte, e in altre circostanze, « anges », « hounaiés» o «voduns », rappresentano un retaggio ancestrale di sapienza e di conoscenza; una costante, permanente, immanente forza. I singoli loas hanno caratteristiche e compiti precisi e diversi, anche se taluni motivi fondamentali dei loro differenti aspetti possano esser loro comuni. Ecco un esempio: collegati nel motivo comune della fertilità noi troviamo vari loas, i quali però rappresentano ognuno un aspetto differente di questo tema centrale. Per esempio il dio o loa Damballah, che è forse il più largamente invocato ad Haiti, rappresenta la fertilità come sorgente di vita; Agwé è il dio del mare, dal quale sorge la vita, ed è il marito di Erzulie, la quale a sua volta è la dea dell’amore; Ogun, dio della guerra, rappresenta la virilità, la passione; Ghedé, signore della morte e della vita, indica il momento sessuale ed erotico della fertilità; Azacca, dio dell’agricoltura, rappresenta la fertilità organica e animale; Legba, dio dei crocevia, rappresenta colui che sovrintende ai parti felici; e infine Erzulie, la dea dell’amore, rappresenta la femminilità e la seduzione. Tutto questo piccolo pantheon è sotteso da un unico motivo, articolato in diverse rappresentazioni.
Ci sono poi vari gradi gerarchici di riferimento a seconda del livello a cui corrisponde la supposta rappresentatività del dio. Per esempio il dio Ogun rappresenta il ferro al livello degli elementi, il fuoco al livello fisico, la virilità al livello psicologico, il coraggio al livello intellettuale, l’intelligenza, al livello morale, la giustizia al livello sociale e politico.
Dove stanno i loas? I loas « stanno in Africa », dicono gli Haitiani, e vengono dall’Africa ogni volta che sono invocati dai loro fedeli; oppure stanno in una misteriosa e non meglio determinata isola sotto il mare, o in una mitica città chiamata « La Ville aux champs ».
Una caratteristica interessante della teologia Vodun, come abbiamo accennato, è l’integrarsi e il mescolarsi di elementi di tale culto con elementi del Cattolicesimo. Non si tratta soltanto di una giustapposizione, ma di una vera e propria commistione. Troviamo anzitutto che non soltanto in linea di principio, ma anche in taluni cerimoniali e in molte invocazioni, i loas sono assimilati addirittura a personaggi, santi, ecc., della tradizione cattolica. Per esempio Damballah è più o meno assimilato a S. Patrizio, Erzulie Fréda alla Vergine Maria, Ogun a S. Giacomo, Legba a S. Antonio. La croce ha una notevole importanza in queste cerimonie, perchè con segni di croce di vario tipo hanno inizio molti riti Vodun, e la croce stessa appare in molti ornamenti ed emblemi. Ma nella metafisica Vodun, la croce rappresenta l’intersecazione dei quattro punti cardinali, su un piano orizzontale, con il piano verticale, cioè con l’asse metafisica che s’immerge nel mondo dell’invisibile, dove abitano i loas. In questa croce metafisicamente considerata, troviamo pertanto una integrazione del mondo visibile con quello invisibile, dell’individuale con l’ancestrale e col collettivo, e, infine, del conscio con l’inconscio. Tuttavia sbaglierebbe chi, assistendo a una cerimonia Vodun e sentendo delle litanie, abbastanza simili, qualche volta, a quelle che possiamo sentire in una delle nostre chiese, ritenesse che questa, da parte dell’haitiano, fosse una vera e sincera adesione al cristianesimo. Si tratta di fenomeni di sincretismo aggiuntivo, e, ciò che forse più importa, di contatto con alcuni principi religiosi più generali, che il cristianesimo reca in sé, come li recano in sé altre grandi religioni. In ogni modo, i punti di contatto sono chiari ed appariscenti, e li troviamo, tra l’altro, anche nei cosiddetti « vevers », dei quali non posso darvi qui una raffigurazione, perchè si tratta di elementi pittografici. I « vevers », indispensabili al rito Vodun, sono disegni tracciati a terra, ai piedi di un palo centrale che esiste nel peristilio di ogni tempio Vodun. Questi disegni rappresentano emblematicamente il loa che si desidera invocare. I « vevers » sono tracciati a mano con grande abilità, che spesso raggiunge la validità artistica. La materia impiegata è farina di grano o di granoturco, mista a cenere, chiamata « farina di Guinea », polvere di zenzero o di caffè. Sono quasi sicuramente vestigi di culture totemiche precolombiane; hanno qualche volta una singolare somiglianza con i pentacoli medioevali, con le «clavicole di Salomone », ben note nella nostra tradizione. Ma la loro prima origine è da ritenersi precolombiana e più specificamente messicana. Essi sono stati influenzati nel loro disegno dalle tradizioni magiche e mistiche europee del medioevo, ma adottati dal Vodun in uno spirito religioso che si collega alla loro origine. Vi sono taluni, assai singolari punti di somiglianza tra questi disegni rappresentativi ed evocatori ed alcune immagini della tradizione mistica cristiana. Per esempio non può non colpire chi veda il « vevers » di Erzulie Fréda il riconoscervi qualcosa che ricorda molto il Sacro Cuore di Maria o di Gesù, così come lo troviamo spesso in tante figurazioni nostrane. La rappresentazione del Sacro Cuore, d’altronde, si trova già in libri alchemici prima di quella che rappresenta, nel Cattolicesimo, l’immagine-archetipo, tracciata da S. Margherita Maria nel 1685, e conservata nel Monastero della Visitazione di Torino. Siamo tratti quindi a pensare, in questo come in altri casi, che un emblema mistico, quale il cuore sacralizzato, possa essere anteriore alle caratteristiche religiose specifiche che può aver preso in tempi posteriori.
I riti Vodun si dividono in due grandi gruppi: riti Radas e riti Pétro. I più importanti, tipici e tradizionali sono i riti Radas, molto più antichi, e direttamente importati dal Dahomey. Dirò anzitutto di questi, e cercherò di descrivere i luoghi e gli ambienti in cui si svolgono. I locali di culto sono piccoli templi nella foresta chiamati «houniforts ». Essi constano solitamente di tre camere, di cui due – « bagui » e « sobagui »· – sono indispensabili. La più importante è il « bagni », in cui si trova l’altare o « pé », che è di cemento, quadrangolare, e porta ornamentazioni e iscrizioni varie. Per terra c’è un bacino detto «bacino di Damballah ». Sull’altare stanno i «govis » o vasi sacri, sui quali vengono « chiamati » i loas. Tali vasi sono avvolti di stoffa con i colori consacrati ai diversi loas. Per esempio al dio Atibon Legba è dedicato un avvolgimento blù scuro, a Damballah blù chiaro, o rosa; ad Erzulie Fréda rosa o bianco, a Ogun Badagris rosso, ecc. Sull’altare ci sono anche delle bandiere, una lampada ad olio, e davanti a esso una sciabola, vestigio di tempi eroici e simbolo di potere. Talvolta sull’altare si vedono anche strani involti chiamati « paquets »: essi contengono vari ingredienti e servono a scopi di terapia, in vista dei quali vengono preparati e trasmessi durante le cerimonie collettive.
Nel peristilio, come ho avuto occasione di dire, c’è un palo centrale (« poteau »): intorno al palo, a una certa distanza, il coro delle sacerdotesse. più vicino al palo, quelle che danzano ritmicamente, accompagnate soprattutto da svariati tipi di tam-tam.
L’houmfort è retto da una « società » che ha un suo presidente e una sua amministrazione, ma questa è distinta dalla gerarchia sacerdotale. I sacerdoti del Vodun appartengono a diversi gradi gerarchici. Al più alto livello stanno gli « houngans », che sono gli alti sacerdoti maschi, e le «mambo », che sono le sacerdotesse di pari grado. Sotto di loro stanno, rispettivamente, gli « adjanikon » e le « houncis ». Meno elevati sono gli « hounci-kanzo » (maschi o femmine), e poi vari aiutanti chiamati « confiances », « aides-confiances », ecc. Gli houngans e le mambo presiedono alle cerimonie.
Si potrebbe dividere, con Louis Maximilen, il dramma religioso del Vodun in sei grandi atti. Possiamo considerare come primo atto l’iniziazione dell’hounci-kanzo, cioè dell’haitiano il quale, dopo una certa preparazione spirituale, contatti diretti, o altre esperienze, desidera entrare a far parte dell’organizzazione sacerdotale. Il secondo atto è l’invocazione, la chiamata dei loas dal loro regno invisibile ad occupare, a quanto si ritiene, i govis. Il terzo è il «dessounin », cerimonia funebre, che si celebra alla morte di un hounci-kanzo. Dopo un anno dalla morte abbiamo il quarto atto, ossia una cerimonia che si chiama « sottrazione dello spirito dall’acqua » (retrait de l’espril de l’eau). Possiamo considerare come quinto atto una cerimonia chiamata « bruler zin» in cui si bruciano speciali sostanze e alcoli, si sacrificano piccoli animali, si affrontano prove del fuoco, ecc.; è in questa particolare cerimonia che tutto assume un carattere estremamente dinarrico ed esaltante. Sesto atto, i « ghédés » in cui si simboleggiano la morte e la resurrezione. Questi ultimi riti hanno vaghe rassomiglianze con certi riti egiziani antichi, connessi con il culto di Osiride e con il mito della sua rinascita.
Questo, per quanto riguarda i riti Radas. I riti Pétro sono invece di data più recente, e sono stati instaurati in Haiti stessa sul vecchio tronco di quelli tradizionali, le cui origini si perdono nella notte dei tempi africani. I riti Pétro sono più aggressivi, si svolgono al suono di schiocchi costanti di frusta, e di sibili stridenti di un fischietto. Essi si collegano molto chiaramente ad un periodo di «Sturm und Drang» e di rivolta: la rivolta degli schiavi contro i loro oppressori. Sono riti accessori, nel grande quadro del Vodun, e i loas che presiedono ad essi sono deità di violenza.
Perchè la frusta? Perchè il fischio? Ebbene, non è molto difficile rintracciare l’origine di queste due suppellettili e del loro uso, se si pensa quante volte, nel passato, gli schiavi haitiani hanno dovuto sentire gli schiocchi della frusta e il sibilo del fischietto dei negrieri. Si direbbe che, adottando questi strumenti, essi abbiano voluto diventare, per così dire, dominatori, identificandosi inconscientemente ai loro aggressori, e soppiantandoli. I riti Pétro sono apparsi verso la meta del secolo XVIII, ed è molto singolare il fatto che il primo segno della rivolta degli schiavi contro i negrieri, il primo atto della loro liberazione, sia consistito in una grande cerimonia Vodun, condotta da un houngan che ancora oggi viene ricordato e che si chiamava Boukman. Questa cerimonia si svolse nel cuore della foresta, e coloro che stavano per ribellarsi invocarono per ore le deità Pétro perchè li aiutassero a combattere. Durante i riti scoppiò una tempesta. Mentre i tuoni si succedevano e gli elementi si scatenavano nella violenza tipica dell’uragano tropicale, furono invocati lo spirito della guerra, nullo dell’acciaio. tutti ali spiriti della vendetta. Una settimana dopo, la ribellione divampava dappertutto; la guerra per l’indipendenza di Haiti era cominciata.
Tra i momenti salienti delle cerimonie Vodun sono le ben note « crisi di possessione », dalle quali vengono colpiti alcuni partecipanti, per cui si ritiene che la persona sia in quel momento posseduta da un particolare boa, diventando, come dicono gli Haitiani, il suo « cavallo », e in certo qual modo impersonandolo. È interessante il fatto che il « posseduto » si comporti sempre secondo le caratteristiche del singolo loa che si suppone lo «cavalchi ». Per es. se Damballah Wedo, che è il dio dell’arcobaleno (il quale a sua volta in Africa è stato spesso identificato col serpente) « possiede » un suo fedele, questi si contorce a terra come un serpente, imita il dio, in un certo modo s’identifica con lui. Se un fedele è posseduto da Ogoun Chango, dio delle battaglie, mangiatore di fuoco, c’imbattiamo spesso in fenomeni che possono interessare gli studiosi di parapsicologia, poiché il posseduto calpesta talvolta impunemente carboni ardenti, immerge le mani in olio bollente, tocca ferri roventi, ecc. Quando la possessione è ad opera del dio Legba, che è raffigurato come vecchio e claudicante, il posseduto zoppica e deve camminare con stampelle.
Quali sono le tappe di una possessione, o «crisi loa »? Il fenomeno comincia con fatica muscolare e senso di vertigini; poi c’è una perdita di conoscenza e una caduta a terra. Il « posseduto » dev’essere sorretto e rimesso in piedi. Avviene allora, in questo terzo momento, un mutamento della personalità. Infine la possessione è completa: lo houngan si prosterna davanti al loa incarnato nell’individuo umano. Questa crisi dura a volte più di due ore; se si prolunga eccessivamente, lo houngan può farla cessare con riti ad hoc.
Molte teorie sono state formulate su queste possessioni Vodun: da quelle più ingenue che le facevano risalire a un intervento effettivo di « spiriti » a quella, per lungo tempo sostenuta da psicologi e psichiatri, dell’isterismo individuale o collettivo. Quest’ultima definizione è un tipico esempio di applicazione meccanica e formalistica di una qualifica occidentale a fenomeni che si svolgono in coordinate culturali totalmente diverse dalle nostre. Un avvicinamento culturalistico moderno dimostra invece che non è possibile classificare senz’altro gli individui soggetti a queste crisi nelle categorie degli psicopatici, dei mitomani e via discorrendo. Altri studiosi, infatti, hanno dato un quadro più esatto e più approfondito di tali stati, e tra essi vorrei ricordare il mio buon amico dott. Louis Mars, di Port-au-Prince, psichiatra assai bene orientato in senso psicoanalitico, il quale ha dedicato alla questione un ampio studio, molto ben fatto, intitolato appunto « La crise de possession ». Secondo Mars, il fenomeno va interpretato servendosi di concetti psicodinamici e psicoanalitici, quali la scienza occidentale oggi padroneggia, ma tenendo conto che si tratta di qualcosa che si svolge ad Haiti, e non a Roma o a Parigi, respingendo, tanto per incominciare, la definizione di isterismo collettivo proposta da qualche vecchio autore, e introducendo i concetti ben noti della proiezione per cui certi contenuti e impulsi fantastici dell’inconscio vengono esternalizzati e sentiti come non propri, e della identificazione, che presuppone una inconsapevole incorporazione di oggetti esteriori, autentici o immaginari. Questi fenomeni di proiezione e di identificazione stanno certamente alla base delle crisi del Vodun, giacchè in esse i loas vengono postulati come esseri reali ed esterni, mentre beninteso si tratta di entità immaginarie e interiori, con le quali il soggetto s’identifica. Ma teniamo presente che in Haiti questi fenomeni sono ampiamente socializzati, e quindi non possiamo considerarli come se avvenissero nelle coordinate di una cultura a noi più nota o più vicina. Le nostre definizioni di « normale » o di « anormale » devono essere sempre riconsiderate ogni qualvolta spostiamo il nostro angolo di osservazione e ci trasferiamo in un’area culturale molto diversa dalla nostra; così come certi fenomeni nostrani di carattere collettivo, che noi consideriamo perfettamente normali, potrebbero essere giudicati in modo molto diverso da persone appartenenti a culture differenti. Vorrei sapere, per esempio, che cosa potrebbe pensare un canadese dell’estremo Nord, assistendo a una nostra partita di calcio, e vedendo come si comportano i nostri tifosi! Probabilmente egli darebbe delle definizioni «psichiatriche » di questo fatto, che noi, appunto perchè lo inquadriamo in una cultura che ci è familiare, consideriamo normale.
Prima di ulteriormente sottolineare l’importanza, non solo ai fini di una definizione, ma psicologica e sociologica, dell’accennata socializzazione del Vodun anche nei suoi aspetti più esterni, vorrei soffermarmi un momento sull’idea, già menzionata, secondo cui chi è posseduto da un ba diventa la sua « cavalcatura ». Troviamo qui una certa somiglianza con il fenomeno dell’incubo, che è stato assai bene studiato dalla psicoanalisi (Jones). Dal punto di vista analitico, l’incubo corrisponde alla fantasia inconscia di essere aggrediti, più o meno sessualmente, da una figura che rappresenta simbolicamente quella paterna o quella materna; ed è curioso osservare che alcune lingue introducono nel termine equivalente al vocabolo nostrano «incubo » la parola cavallo, o qualcosa che ricorda il cavallo. Per esempio gli inglesi adoperano la parola « nightmare » che letteralmente significa « cavalla di notte ». D’altra parte il gruppo fonetico mr (che ritroviamo tra l’altro anche nel francese cauchemar) richiama costantemente l’idea di «madre ». Secondo una tesi su cui non voglio dilungarmi e che non intendo discutere, proposta dal già citato Louis Mars e da George Devereux, le crisi del Vodun potrebbero essere in certo qual modo incubi socializzati, che si svolgono secondo linee direttrici molto più collettive che individuali.
Veniamo ora a un punto abbastanza controverso. Le pratiche del Vodun sono o non sono pratiche magiche? Il Vodun, nel suo complesso, è magia o è religione? Teniamo presente che quando ci troviamo di fronte ad una popolazione che dal punto di vista culturale nostrano è una popolazione arretrata, possiamo trovare una quantità di commistioni e di deviazioni da qualcosa di centrale e di essenziale, ossia, in particolare, pratiche magiche inserite nel contesto di un vasto fenomeno religioso. D’altronde, ciò si verifica anche tra noi nell’ambito della religione cattolica, che sarebbe veramente un po’ curioso voler identificare in toto con certe credenze e certi riti delle nostre popolazioni rurali meridionali. Così non è detto certamente che alcuni fedeli del Vodun non credano nella magia o non la pratichino episodicamente, ma la differenza tra magia e religione è essenziale, istituzionale. Nella magia abbiamo una manipolazione di elementi sia diretta, come nella preparazione di pozioni magiche, sia indiretta e simbolica, come l’uso magico di bambole o statuette. Nel Vodun abbiamo cerimonie volte ad ottenere la protezione dei loas, ma nulla che ricordi la magia cerimoniale costrittiva: si mira a contatti indiretti, non controllabili a volontà, con qualcosa di preternaturale, con qualcosa che si spera o si attende. Il ba rimane sempre il potere supremo, e il sacerdote non è che un officiante. Mentre la magia molto spesso prescinde da un criterio morale, tantochè molti maghi o assertori della magia sostengono che la magia è una semplice tecnica, nè morale nè immolale, ma amorale o premorale, nel Vodun invece troviamo un’alta moralità d’insegnamenti, una precisa impostazione etica. Inoltre nel Vodun l’accento viene posto sulla conoscenza, mentre nella magia, come si sa, l’accento cade sulla potenza. E infine nella magia ritroviamo costantemente il segreto, l’isolamento, mentre i culti Vodun non sono affatto segreti e non è proibito a nessuno accostarvisi. Non è difficile assistere a una cerimonia e anche, eventualmente, chiedere una più diretta partecipazione ai riti. Sembra dunque legittimo considerare il Vodun come una religione.
Un punto ulteriormente interessante è quello che riguarda la supposta azione preternaturale nei riguardi delle malattie, che si cerca di ottenere attraverso l’invocazione dei loas e il loro susseguente intervento. Per molte malattie – vi dirà qualsiasi houngan – il processo di, guarigione non può essere se non naturale, e in questo caso non si suppone che il boa debba intervenire. Altre malattie sono invece considerate come in qualche modo dovute ad influenze non direttamente dominabili con la medicina empirica, alquanto semplice e sbrigativa, di quella popolazione, e allora deve occuparsene il sacerdote attraverso le operazioni di culto.
Vorrei prescindere qui completamente dalla realtà o meno di una azione specificamente terapeutica di certi riti Vodun, o del Vodun nel suo complesso, perchè direttamente non ne so nulla e non ho potuto constatare nulla di preciso a questo riguardo. Vorrei però ricordare che in Haiti troviamo una totale, o pressoché totale assenza di certe malattie che oggi vengono comunemente chiamate psicosomatiche, e che noi sappiamo in certo qual modo contraddistinguere la cultura occidentale, così come la contraddistingue purtroppo la diffusione delle psiconevrosi, dovute in buona parte alle condizioni d’ambiente in cui la nostra vita odierna si svolge. In Haiti il Vodun fa parte della vita psichica totale della comunità, e vi immette una energia sapienziale accumulata e collettiva già nella fase di formazione della vita individuale. Alcuni scienziati hanno sottolineato il fatto che una delle maggiori cause di tensione nella nostra cultura è la frequente impossibilità, da parte dell’individuo, di ottenere una autoidentificazione, una auto reali zzazione. Questa faccenda dell’identificazione limitata e unilaterale nei nostri climi, in contrasto con quello che succede in Haiti attraverso il Vodun, è forse uno dei punti più interessanti del problema, perchè riguarda una condizione non soltanto individuale, ma collettiva. Nella nostra cultura il mondo del bambino sono i genitori, e anche nei migliori casi questo rende le possibilità di identificazione del bambino stesso – e su ciò molto ha studiato la psicoanalisi – singolarmente ristrette. Nel Vodun tale identificazione è obiettiva, infinitamente più vasta, e formulata in modo da prestarsi a manipolazioni costruttive e correttive. I loas, in fondo, sono il tessuto connettivo psicologico e spirituale ereditato, che collega strettamente l’individuo ai suoi simili. In Haiti i genitori sono meno individualizzati, dato che sono il veicolo che trasmette i loas e che questi, e non loro, sono le immagini ancestrali archetipiche ed eterne, rispetto alle quali, psicologicamente parlando, non vi può mai essere un orfano. Se i genitori reali vengono a mancare, mancano solo i rappresentanti immediati, tangibili, di quei più grandi genitori che sono i loas, la cui costante presenza psichica permea e determina sostanzialmente la vita psicologica dell’haitiano. Si direbbe, in altre parole, che attraverso la ritualizzazione e la socializzazione di un culto intensamente vissuto gli haitiani abbiano trovato il modo di esercitare nei loro stessi riguardi una sorta di psicoterapia preventiva e collettiva, mettendosi costantemente in rapporto con qualcosa che è preterindividuale e che trascende il livello razionale, e ottenendo, con questo, proprio quei contatti profondi tra coscienza ed inconscio, tra razionalità ed emozione, tra intelletto ed istinto, che noi sembriamo aver largamente perduto e la cui mancanza è probabilmente alla base di tanti di quei disturbi della personalità e di quelle nevrosi che ci affliggono. Vista in questa prospettiva, la crisi del loas è una specie di eruzione improvvisa, di rottura dialettica di un equilibrio in vista di un equilibrio successivo e maggiore, e quindi assume essa stessa un valore psicoterapico. Queste sono deduzioni che io stesso ho creduto di poter are attraverso qualche osservazione e riflessione, e che sottopongo all’attenzione degli studiosi.
Per tornare alle concezioni generali del Vodun, vorrei ancora ricordare un interessante parallelismo tra quanto esso insegna sulla costituzione dell’uomo totale e certe vedute occidentali. Secondo il Vodun l’uomo è essenzialmente tripartito, e costituito da tre elementi chiamati rispettivamente « corps », « petit bon ange » e «gros bon ange ». Ora questa triplice distinzione corrisponde perfettamente a quanto i Greci descrivevano rispettivamente come «soma », « pneuma » e « psiche », e anche agli insegnamenti dello spiritismo occidentale kardechiano riguardo al «corpo », alla « anima », e al « perispirito » o «corpo astrale ». Non ho avuto occasione di approfondire questo parallelismo, o di indagare sulle sue origini prossime· o lontane.
Studi e ricerche sono in corso per verificare se e quanto, nell’ambito dei culti Vodun, avvengano fenomeni aventi un interesse propriamente parapsicologico. Tali ricerche presentano peraltro notevoli difficoltà, una delle quali è quella di trovare ad Haiti dei parapsicologi che abbiano i mezzi, il tempo disponibile e soprattutto la competenza necessari. Il dott. Louis Mars è, praticamente, il solo cui si possa riconoscere una vera preparazione parapsicologica nel nostro senso. Ma non si tratta soltanto di una «deficienza di personale »: si tratta del fatto che qui, come in altri casi, evidentemente sarebbe necessario adattare gli strumenti della ricerca parapsicologica alle condizioni particolari in cui essa deve effettuarsi. È assolutamente insensato pensare che si possa andare nel bel mezzo della foresta haitiana, o anche semplicemente in mezzo alla popolazione di Port-au-Prince, con le carte Zener per le prove di ESP, o con i dadi per la ricerca degli effetti psicocinetici. Come adattare gli strumenti della ricerca parapsicologica alle particolari condizioni di una data area? Questo è un problema ancora aperto, che non riguarda soltanto Haiti, ma tutta l’« etno-parapsicologia », e che alcuni studiosi, tra cui il nostro De Martino, cercano di affrontare. Possiamo dire peraltro che in Haiti, nel corso delle cerimonie Vodun, e anche al di fuori del loro particolare ambito, è probabile possano essere studiati e verificati fenomeni di vario ordine, come la conoscenza paranormale in sede di pratiche di divinazione, specialmente nella forma cristalloscopica. Talvolta i posseduti in una crisi di ba parlano in modo molto strano, e non è sempre detto che si tratti di glossolalia, ma può darsi che in qualche caso si abbiano fenomeni di vera xenoglossia. Tutto il campo delle cure non ortodosse meriterebbe da solo una ricerca di parecchi anni. Abbiamo presunti casi di invulnerabilità al fuoco. Talvolta il posseduto da Damballah si arrampica su un albero avvolgendosi serpentinamente dal basso verso l’alto, e procedendo in questa sua rapida ascensione in modi che non so fino a qual punto si possano spiegare col semplice esercizio della forza muscolare, e che forse implicano l’esercizio di poteri « paracinetici». Si tratta, comunque, di esplorazioni parapsicologiche ancora da venire.
Se questi ed altri studi sui multiformi aspetti del Vodun debbono effettuarsi, come io ardentemente auspico, non dobbiamo dimenticare che in Haiti, come altrove, si sta svolgendo una progressiva introduzione e permeazione della civiltà del Novecento, della civiltà meccanica. Lo sviluppo dei mezzi meccanici e della mentalità che li accompagna crea poco a poco quella più rigida separazione di un uomo dall’altro, accentua quello stagliarsi delle singole individualità, che rende sempre più problematici i contatti con le profondità della psiche collettiva, e che inevitabilmente porta al crollo di sistemi complessi di moralità e di religione vissuta, la cui funzione è quella di servire comunità interdipendenti. Gli Haitiani stanno entrando ora in quell’era individualistica da cui noi forse cominciamo, non dico ad uscire, ma a prendere distanza, e che osserviamo già da qualche tempo con spirito critico, perchè ci stiamo accorgendo che, identificandoci fino al collo nel nostro razionalismo meccanicistico e al solo livello di coscienza, perdiamo veramente il senso di noi stessi come uomini tra uomini, come parti di un complesso preterindividuale di cui l’inconscio è funzione e primum movens. Si può quindi temere che proprio mentre le cerimonie e i culti Vodun stanno attirando l’attenzione degli studiosi nostrani, gli Haitiani possano perdere, non dico di qui a pochi mesi o a pochi anni, ma in un tempo non poi troppo lontano, quello stesso sistema che forse tanto c’interessa proprio perchè anche noi, a nostra volta, stiamo entrando in una fase che richiederebbe, mutatis mutandis, una struttura alquanto simile!
L’eco dei tam-tam che accompagnano i riti Vodùn si sta gradualmente, se pur lentamente, allontanando, e, forse, tra non moltissimi anni nessuno sarà più in grado di ascoltarne il simbolico messaggio. E allora, finché siamo in tempo, cerchiamo di apprendere quanto può insegnarci il povero Haitiano analfabeta, che tuttora mantiene e alimenta in sè, pur nella sua ignoranza, una fiamma eterna. Non possiamo esser troppo orgogliosi dei nostri rapporti, spesso ridotti a puro formalismo, con ciò che è più grande di noi e che ci trascende. Ricordiamo le parole di Kierkegaard: «Se di due uomini, uno prega il vero Dio senza sincerità personale, e l’altro prega un idolo con tutta la passione dell’infinito, ebbene, è il primo che in realtà prega un idolo, mentre il secondo, veramente, prega Iddio ».
Emilio Servadio