Il mangiatore di sogni
Rivista di Psicopatologia, Neurologia e Psicoanalisi, 1952, n°4
(Nel mese di gennaio 1952, la RAI effettuò, nel «Terzo Programma», un ciclo di trasmissioni sulla psicoanalisi, affidandolo alla competenza del Prof. Emilio Servadio. Il ciclo comprese: una storia clinica in parte sceneggiata; contributi sull’apporto della psicoanalisi alla letteratura, al teatro, alla musica, al cinematografo; la discussione di un caso clinico; e infine la rappresentazione di due drammi – «L’imperatore Jones » di O’Neill e « Il mangiatore di sogni » di. Lenorman – aventi entrambi grande significato dal punto di vista psicoanalitico. Entrambe le rappresentazioni drammatiche furono accompagnate da interpretazioni e commenti. Siamo lieti di poter riprodurre ciò che il nostro collaboratore, Prof. Servadio, disse in proposito del lavoro « Il mangiatore di sogni ». – N. d. D.).
« Il mangiatore di sogni », dramma di H.R. Lenormand, è il frutto di un avvicinamento del suo autore alla psicoanalisi: avvicinamento da lui pienamente riconosciuto e confessato, e che merita tutto il nostro interesse sia psicologico, sia artistico.
Vediamo anzitutto quali sono i personaggi dell’opera, così come Lenormand se li è psicologicamente raffigurati.
La protagonista, Giannina, è una nevrotica grave, oppressa da oscuri sentimenti di colpevolezza e di angoscia, relativi ad eventi d’infanzia connessi con la morte di sua madre. L’altra donna del dramma, Fearon, è una criminale, felice e compiaciuta di fare il male.
Tra queste due donne si pone la figura di Luca, che vorrebbe, nelle intenzioni dell’autore, impersonare quella di uno psicoanalista.
Luca fruga nelle ombre e nei sogni del passato di Giannina, riporta alla sua coscienza eventi obliati, le restituisce una certa apparente serenità, ed intreccia con lei un rapporto amoroso. In questo, tuttavia, viene ostacolato da Fearon, innamorata a modo suo di Luca, il quale, tempo prima, ha messo in luce le sue tendenze sopite verso il crimine, e l’ha fatta pertanto diventare – secondo la tesi di Lenormand – ciò che attualmente essa è.
Con la connivenza di un predone arabo, Fearon riesce a convincere Giannina che il suo sentimento di colpa, relativo alla ostilità infantile verso la madre, non è legato a semplici fantasie, ma ad un evento reale: che Giannina, cioè, ha avuto una parte diretta ed essenziale nell’uccisione di sua madre.
Incapace di resistere a questa rivelazione, Giannina si toglie la vita; e Luca, pur nel tormento e nel rimorso, si riaccosta a Fearon, distruggitrice e vittoriosa.
Non occorre possedere una larga informazione in materia di psicoanalisi per notare i numerosi errori compiuti da Lenormand nella « presentazione » di questa vicenda e di questi tipi.
Sempre, per ora, limitandoci al testo del dramma, rileviamone alcuni tra i più significativi, cominciando dalla equivoca e sconcertante figura di Luca. Questi – e il rilievo riguarda ovviamente il creatore del personaggio – sembra avere nozioni assai approssimative sulla psicoanalisi, alla quale è portato, come brutalmente ma giustamente gli dice a un certo punto la sua amica e nemica Fearon, da motivi nevrotici. Luca ritiene, ad esempio, che per sanare una situazione di disequilibrio psichico sia sufficiente portare alla coscienza alcuni eventi obliati del passato, depurandoli dai sentimenti di colpa: mentre ogni psicoanalista sa che è altrettanto, e forse più necessario, ottenere l’integrazione delle energie psichiche liberate in una nuova situazione adulta di tipo stabile. L’idea, espressa nel dramma, che il render cosciente una particolare tendenza al delitto possa fare, di una ex nevrotica, una criminale – come sarebbe avvenuto nel caso di Fearon – è contraddetta da tutta l’esperienza psicoanalitica, la quale insegna che la graduale presa di coscienza rispetto agli impulsi obliati e ricusati si accompagna con una loro trasformazione in senso sublimativo e costruttivo. Ed ancora: il semplice fatto che tra Luca e Giannina si stabilisca una relazione amorosa, basta da solo a far crollare qualsiasi parvenza di situazione analitica tra i due, e coinvolge entrambi in un piano che non è più quello obiettivo e « distanziato » del riesame di vicende psicologiche trascorse ed oscure come avviene in una situazione analitica corretta -bensì quello di un « agire » più o meno nevrotico di entrambi i protagonisti, ossia di un loro rivivere ed attuare i loro drammi emozionali inconsci, anziché analizzarli e comprenderli a fondo.
Si fa riferimento, qui, al cosiddetto transfert, per cui il paziente in analisi traspone nella situazione analitica, e sulla persona dell’analista, eventi e sentimenti – positivi o negativi – del passato, e che furono già rivolti a persone e circostanze familiari. A tale transfert, è chiaro che l’analista non deve partecipare se non come spettatore, poiché altrimenti non potrebbe in alcun modo aiutare l’analizzando a comprenderne i motivi originari, e verrebbe trascinato nello stesso giuoco inconscio di questi ultimi.
E ciò è appunto quel che accade allo pseudo-analista Luca.
Vediamo infatti che questi, vivendo con Giannina una vicenda non più analitica, ma personale, diventa suo malgrado parte integrante di un giuoco malefico che ripone la sventurata donna in una situazione molto analoga a quella triangolare, edipica, dell’infanzia. Luca lascia avvicinare Giannina da una donna -rivale, contro la quale essa non può lottare; ed essa sente, anche in relazione a ciò, il suo amore per Luca come colpevole. A sua volta, Luca sembra trascinato in questo suo agire da una oscura ambivalenza verso Giannina, da una specie di sadismo morale che gli impedisce di amarla senza residui, e senza volere, al tempo stesso, inconsciamente distruggerla. E’ dunque lui, e non Fearon, il vero responsabile della tragedia, e Fearon stessa non manca, nel suo solito modo cinico e sferzante, di farglielo chiaramente capire.
In questa chiamata di correo, che l’ingegno di Lenormand ha indirettamente postulato a carico di Luca, non si può certo ravvisare qualche cosa di casuale. Anche se non conoscessimo taluni antecedenti storici del « Mangiatore di sogni », non potremmo esimerci dal notare nel dramma profondi motivi di ostilità verso la psicoanalisi. Senza risentimenti, bensì con chiara serenità analitica, noi ci proponiamo ora di individuarli e di spiegarli. Nelle sue «Confessioni di un autore drammatico», lo stesso Lenormand ci dà ampie, se non esaurienti, informazioni sulle circostanze che l’hanno condotto a scrivere il «Mangiatore di sogni ». Nella Giannina del dramma egli ha voluto rappresentare una vera donna nevrotica, Rosa, da lui realmente conosciuta ed amata mentre essa veniva sottoposta a un trattamento psicoanalitico in Svizzera. L’analista di Rosa, giustamente – a nostro avviso – preoccupato dell’influenza negativa del legame che si era stabilito fra la donna e il drammaturgo, e in seguito al quale la prima si era aggravata, aveva consigliato una interruzione del rapporto. Lenormand non ci nasconde, in proposito, il suo risentimento, e confessa di aver veduto nell’analista un suo rivale. La prima idea del « Mangiatore di sogni » – egli c’informa inoltre – gli venne proprio in quell’epoca, ossia in un periodo in cui, per motivi personali e affettivi, egli nutriva una forte ostilità contro gli psicoanalisti e la psicoanalisi.
Nel personaggio di Luca, Lenormand sembra quindi aver fuso due immagini: quella di sé medesimo quale amante, e quella dell’analista. Nei dramma, egli tenta di mostrare che Giannina, come già Rosa nella realtà, avrebbe potuto essere salvata dall’amore, mentre è stata distrutta dalla psicoanalisi.
Invece, si tratta precisamente del contrario! A Rosa, nella realtà, è stato impedito da un uomo, dall’uomo Lenormand, di condurre a termine lo sua analisi, e di guarire – cosicché si può ben dire che la sua relazione con Lenormand le è stata fatale, tanto è vero che essa finì col suicidarsi. Giannina, nel dramma, soccombe perchè invece che uno psicoanalista trova, sul suo cammino, un nevrotico, che la porta senza saperlo alla disfatta e alla morte.
Naturalmente Lenormand non poteva, senza condannare se stesso, condannare Luca in quanto uomo ed amante; e perciò lo condanna come psicoanalista, e rende la psicoanalisi responsabile della sciagurata sorte sia di Rosa – nelle « Confessioni » -, sia di Giannina – nel « Mangiatore di sogni ». Egli opera così uno spostamento d’accento, una trasposizione di responsabilità, che equivale a un vero e proprio meccanismo di difesa contro l’angoscia ed il senso di colpa. La sua ostilità verso gli psicoanalisti e la psicoanalisi è dunque dovuta, a un livello più cosciente e dichiarato, all’ira contro l’analista veduto come un rivale, quegli che gli ha sottratto l’oggetto del suo piacere – Rosa; a un livello più inconscio, al bisogno di deflettere, e di rivolgere contro qualcun altro, le cariche aggressive che altrimenti avrebbero colpito lui stesso, nella forma di sentimento di colpa e di rimorso.
Che tale sia la « storia interiore » del «Mangiatore di sogni » è provato, dalle già citate «Confessioni » di Lenormand, purché si sappia interpretarle. Ed è un’ulteriore prova della superiore efficienza dello strumento psicoanalitico, il fatto che si possa, sulla base di quanto l’autore ci ha confessato, comprendere a fondo, al di là del dramma esteriore ch’egli ci presenta, alcuni aspetti del suo più vero e tormentoso dramma interiore.
D’altronde, lo stesso Lenormand ci rivela in modo più generale, nelle pagine delle «Confessioni», la sua ambivalenza verso lo psicoanalisi, che ammira come uomo d’intelletto, e che odia per i motivi emozionali già descritti. Volta a volta, egli chiama gli psicoanalisti « cercatori di mostri sotterranei », attribuisce loro errori di diagnosi, intenti mistificatori e il carattere di torturatori morali; ma contemporaneamente, riconosce di aver egli – Lenormand – « crudelmente sfruttato degli esseri per fini artistici » (leggi Rosa), e dichiara che « la psicoanalisi rimane il più audace, il più vertiginoso dei sentieri tracciati dall’uomo in cerca dei suoi stessi abissi ».
Dopo qualche anno dalla prima rappresentazione del « Mangiatore di sogni », Lenormand ebbe un incontro con Freud.
« -Non entrai » – egli scrive letteralmente – « senza angoscia nel suo studio » (e questa angoscia, in un autore così affermato e smaliziato, non rivela forse di per se stessa un sentimento di colpa?). Ma Freud, anche in quella occasione, si dimostrò l’incomparabile psicologo di sempre, e tranquillizzò il visitatore, dicendogli che il suo dramma era « molto spiritoso ». Lenormand non sembra aver sospettato quanto di ironico vi fosse in questa definizione, e come essa indicasse la nessuna importanza che Freud attribuiva al lavoro su un piano conoscitivo e culturale. La breve intervista fu completata da un’altra significativa allusione del Maestro viennese. Freud, mostrando a Lenormand, nella sua biblioteca, le opere di Shakespeare e i volumi dei tragici greci, gli disse che « quelli erano i suoi maestri »! Neppure questa volta il drammaturgo sembra aver rilevato ciò che Freud intendeva: la portata, cioè, del suo implicito e non molto lusinghiero paragone. Egli nota soltanto la « grande modestia » del fondatore della psicoanalisi…
Non è nostro compito, mostrare in quale misura le vicende reali od immaginarie, e i motivi consci ed inconsci; inerenti al suo lavoro, siano stati trasfigurati in rappresentazione artistica dall’autore del « Mangiatore di sogni ». Altri, e con maggior competenza, hanno detto o diranno la loro opinione sul valore letterario di questo dramma, per tanti versi interessantissimo. Qui si è voluto soltanto mettere l’ascoltatore in grado di meglio valutare l’opera per tutto ciò che in essa può riguardare la psicoanalisi. Più che per altre produzioni artistiche o teatrali, tale valutazione ci è stata qui possibile: non soltanto perché le situazioni del « Mangiatore di sogni » fanno continuo e diretto riferimento alla psicoanalisi; ma anche e soprattutto perché in questo caso, a differenza di altri, l’autore stesso, attraverso i suoi resoconti autobiografici, ci ha permesso, anche senza volerlo, di veder chiaro nei suoi moventi, e di individuare con sufficiente precisione i legami profondi, coscienti od inconsci, intercorsi tra le sue esperienze psico-affettive, e la loro espressione in sede di creazione artistica.
Potrà sembrare alquanto strano che, a chiusura di un ciclo di trasmissioni dedicate alla psicoanalisi, gli ascoltatori siano stati posti di fronte ad una storia in cui, indirettamente, e per motivi emozionali e personali, l’autore ha collocato l’analisi in una luce torbida e sfavorevole. Ebbene, questa può essere considerata come una prova, una fra le tante che ogni persona, la quale abbia cercato di far suoi i fondamenti della psicoanalisi, deve saper affrontare. Di simili e ben più difficili prove, per cui si misura la saldezza di una posizione mentale, è stato cosparso il cammino di Freud; e tutti gli psicoanalisti ne hanno incontrate e sempre ne incontrano.
La sicura conquista delle verità psicoanalitiche esige, infatti profonde operazioni e rielaborazioni interiori di cui non tutti sono capaci. Forse il compito più difficile che si possa proporre ad un uomo è quello di affrontare senza illusioni e senza misericordia se stesso, di comprendere e controllare ciò che vi è in lui di irrazionale e di primitivo, di scorgere i veri volti – quali che essi siano – sotto le maschere proprie ed altrui. A questa impresa possono frapporsi ostacoli e difese innumerevoli, che vanno dalla incredulità allo sdegno, dal dubbio ricorrente alle riserve intellettualistiche, dalla inconsapevole deformazione dei concetti all’aperta reazione aggressiva.
Questi meccanismi difensivi, bene individuati e descritti dalla psicoanalisi, sono così connaturati alla condizione umana, che vano è sperare di poterli completamente neutralizzare se non attraverso una investigazione diretta. Nel suo ultimo lavoro, rimasto incompiuto, e pubblicato dopo la sua morte, Freud scrive che soltanto chi ha ripetuto su se stesso le innumerevoli esperienze ed osservazioni, su cui si basano le affermazioni della psicoanalisi, ha la via aperta ad un giudizio proprio.
Da tutto questo, io credo che si possa trarre un insegnamento ed un invito. L’insegnamento riguarda l’importanza e la serietà della psicoanalisi come scienza, la grande difficoltà che il suo studio presenta, la nessuna possibilità di accostarvisi e di assimilarne i fondamenti senza un’intensa e ardua ricerca che va molto al di là di una semplice esperienza intellettuale. L’invito che la psicoanalisi ci propone è un invito al combattimento: alla lotta contro l’angoscia e la sofferenza umana, all’illuminazione progressiva dei regni bui della nostra psiche, all’amore incondizionato della verità, allo svincolamento dell’uomo da ciò che in lui vi é ancora di incoerente, di pre-logico, di arcaico.
E’ una battaglia, questa, che si può combattere su qualsiasi fronte. Non è necessario essere specialisti di psicoanalisi per parteciparvi. Basta far propri i principi su cui essa si basa: coraggio e chiarezza. Le vie che conducono all’affrancamento interiore sono molte, anche se la direzione è una. La psicoanalisi indica tale direzione: essa è quella verso la luce consapevole della scienza, e verso la libertà.