La psicoanalisi, oggi
Conferenza tenuta per l’Associazione culturale Italiana al Teatro Eliseo di Roma il 4 dicembre 1953
Quaderni ACI n°XIII
La psicoanalisi ha superato da qualche anno il mezzo secolo di vita. Non è stata una vita facile. L’hanno data più volte per malata grave, per moribonda e per defunta. Non molto tempo fa, uno di coloro che ne avevano per lungo tempo addirittura negata l’esistenza, ha finalmente parlato su «ciò che è vivo e ciò che è morto in psicoanalisi» – riconoscendole così, se non altro, qualche elemento vitale. In realtà, il giudizio di quei medici o di quegli affossatori è stato ed è privo di fondamento. La presunta ammalata sta benissimo: non solo, ma negli ultimi quindici o vent’anni ha dato prova della propria salute in uno dei modi più convincenti: mettendo, cioè, al mondo una cospicua progenie, cui sono stati dati via via i nomi di narcoanalisi, ipno-analisi, analisi di gruppo, psicodramma, medicina psicosomatica ed altri ancora. E’ vero, tuttavia, che, come accade in certe famiglie, l’interesse per le figliuole ha portato spesso a ignorare la madre.
Malgrado ciò, la psicoanalisi, come ognuno può constatare, s’inserisce sempre più nella cultura contemporanea, anche se questa penetrazione non è sempre soddisfacente, anche se, molte volte, gli stessi psicoanalisti protestino contro il travisamento che ne viene fatto, e declinino ai riguardo ogni responsabilità. La psicoanalisi entra, o meglio, vien fatta entrare, nella letteratura, nel cinema, nella critica e persino nelle cronache dei quotidiani. Ecco alcuni titoli dai giornali delle ultime settimane: «Finalmente un assassino senza complessi»; «Un lapsus freudiano alla Camera»; «La nazionale italiana di calcio soffre di narcisismo?»; «La nevrosi domenicale del nostro teatro di prosa»…
Ma queste, beninteso, sono espressioni di orecchianti, e non ci danno affatto la sicurezza che le maggiori resistenze alla psicoanalisi siano state vinte. Noi psicoanalisti continuiamo a trovarle, benché un po’ più di rado, nelle stesse forme in cui le incontravamo venti o trent’anni fa, e i motivi sono, più o meno, ancora quelli: motivi emozionali, proteste in nome di ciò che si ritiene sia la ragione, la logica, la morale, rifiuto di riconoscere un oggetto tirato fuori dall’acqua perchè è bagnato: in sostanza, timore dell’irrazionale che è in noi. Un francese esprimerà questo timore affermandosi «cartesiano». Un filosofo italiano preferirà forse fare appello alla irriducibilità degli atti di pensiero, respingendo così non solo la psicoanalisi, ma qualsiasi psicologia. Si trascura o si vuole ignorare, in tal modo, tutta una parte umana, umanissima, del nostro essere: le nostre emozioni profonde, le nostre fantasie, i nostri sogni, i nostri impulsi istintivi – le oscure matrici, insomma, di cui il pensiero logico, la coscienza, la razionalità, non sono che aspetti antinomici, o propaggini terminali, inconcepibili senza le loro radici ed i loro opposti. Diceva un francese non meno illustre di Cartesio, il Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce».
In questa zona d’ombra della nostra vita psichica, Freud, come tutti sanno, ha effettuato le sue prime ricerche. Oggi, il senso grandioso della sua esplorazione ci appare sempre più evidente. Come il geologo cerca, studiando le profondità della terra, le sue stratificazioni, i suoi commovimenti interiori, di meglio comprendere i fenomeni che appaiono in superficie, al fine ultimo di dare all’uomo una terra migliore, così Freud ha mosso, in sostanza, i primi passi essenziali perchè l’uomo possa, un giorno, realmente integrarsi. Ma per far questo, era necessario in primo luogo riconoscere ciò che in lui esisteva e gli era ignoto; era necessario descrivere i lineamenti caratteristici di questo mondo sconosciuto e misconosciuto, le sue alterne vicende evolutive, i suoi rapporti con ciò che di buono o di cattivo, di utile o di dannoso si verificava nella parte più chiara della personalità; era necessario, infine, studiare per quali motivi l’uomo si era così a lungo e così pervicacemente, benché inconsapevolmente, rifiutato di ammetterne l’esistenza. Ed ecco le memorabili scoperte di Freud sull’inconscio, sulla vita psichica dell’infanzia, sugli impulsi umani primordiali, sui conflitti psichici incoscienti, sui generatori invisibili di tutta una serie di manifestazioni per lungo tempo inspiegate: gli atti mancati, i sogni, le nevrosi, le varietà e i disturbi del carattere e della personalità.
Sogni, lapsus, sintomi nevrotici…: c’è poco da spiegare, si diceva una volta. Forse che i musicisti cercano di spiegare i suoni che un gatto pub produrre camminando sui tasti di un pianoforte? Occupiamoci di cose serie, e non d questi aspetti deprecabili e trascurabili della nostra vita.
Era un modo emozionale di veder le cose, un tipico saggio di resistenza razionalizzata, ma non razionale. In sostanza, si negava che quelle «cose poco serie» avessero un valore e un significato, perchè si riteneva che l’ammetterlo, come scrisse Freud, facesse vacillare il trono su cui l’Io razionale dell’uomo si era orgogliosamente installato. Analogamente, un grande scienziato russo, il Pavlov, si rifiutò categoricamente di indagare se certi comportamenti dei suoi celebri cani potessero qualche volta esulare dallo schema del riflesso condizionato. «Se dovessimo occuparci di ciò che pensano i cani» – esclamò una volta – «non la finiremmo più».
Per parecchio tempo, Freud e i suoi seguaci non ebbero modo di occuparsi troppo da vicino di ciò che impediva tanto all’uomo comune, come allo scienziato, di ammettere e di comprendere il linguaggio dell’inconscio, e l’origine molto umana e legittima delle sue manifestazioni. Ci si accontentò sul principio di dichiarare che una parte della personalità – l’Io si difendeva in vari modi contro ciò che considerava primitivo, meschino, elementare, e non conforme ai suoi criteri: in primo luogo, ignorandolo e mettendolo al bando, ossia mediante la cosiddetta «rimozione». Solo in questi ultimi anni gli svariati metodi con cui l’fo automaticamente si cautela, in modo più o meno efficace, e con esiti sia normali sia patologici, contro le irruzioni delle energie inconscie, del cosiddetto «Es», sono stati minuziosamente studiati e classificati, riconoscendosene, in pari tempo, l’origine quasi sempre altrettanto inconscia ed emozionale quanto quella degli impulsi temuti. Conosciamo, oggi, circa una diecina di tali meccanismi e li ritroviamo, singolarmente o in alleanze svariate, sia nei nevrotici, sia nei cosiddetti normali.
Non è certo questa la sede per trattarne sistematicamente: ma vorrei menzionarne almeno uno: la «proiezione», per cui tanto sovente tendiamo ad attribuire ad altri le tendenze che non vogliamo riconoscere in noi stessi. Questo meccanismo si trova abbastanza di frequente nei sogni – come in quello della giovane donna che, nel sonno, immagina di essere seguita da un corteggiatore, e che, durante la scena sognata, e magari anche al risveglio, si mostra «seccata» quasichè il sogno non fosse opera sua!
Questa più accurata considerazione dei meccanismi psichici che mirano ad arginare e a regolare le spinte dell’Es può essere posta in correlazione con i recenti sviluppi delle ricerche analitiche, relativi alle prime fasi evolutive della psiche. Ci si è preoccupati di definir meglio tanto le energie primordiali in giuoco, quanto i rapporti della psiche infantile con l’ambiente. Freud aveva fissato, in proposito, alcuni punti essenziali; aveva scoperto l’esistenza di una elementare sessualità infantile, indicandone le tappe principali e i successivi orientamenti; aveva definito «edipica» la situazione culminante e drammatica in cui ogni bambino, a una data età, si trova rispetto alle figure dei genitori, e nella quale meglio si configurano e cercano di esprimersi i suoi moti amorosi e la sua ostilità; aveva tratteggiato per sommi capi le fantasie, le paure e i processi di accomodamento interno per cui sorgono, nel bambino, le prime istanze di auto-regolazione e di controllo; aveva, infine, mostrato i rapporti di tali vicende con l’eventuale emergere, in età ulteriore, di sindromi nevrotiche o difficoltà di adattamento. Le recenti investigazioni sono andate molto più avanti, estendendosi ad epoche della vita infantile che sembravano, per definizione, chiuse ad ogni ricerca psicologica. Comincia oggi a delinearsi, e a rivelarsi formidabilmente significativa, una psicologia psicoanalitica del bambino di pochi mesi, di un anno, di due anni.
Una ventina d’anni fa, durante un congresso, un pediatra ebbe a dichiarare che a suo avviso, il bambino molto piccolo «non aveva una psicologia». Se quello stesso studioso fosse intervenuto, con questa idea in mente, al Congresso internazionale di psicoanalisi che si è svolto a Roma nello scorso settembre, probabilmente avrebbe mutato parere. Quel Congresso, infatti, ha trattato quasi esclusivamente proprio della psicologia del bambino durante il periodo dell’allattamento, e nei primi due o tre anni di vita; e ha discusso, in particolare, sulle fasi «pre-edipiche», ossia anteriori allo stadio del complesso di Edipo. Risulta ormai chiaro che nel bambino anche di pochi mesi si svolgono importanti conflitti di tendenze, e drammi interiori, caratterizzati da fantasie quasi inesprimibili in termini di linguaggio adulto, e per descrivere le quali è stato necessario ricorrere a espressioni verbali immaginose e spesso sconcertanti. La madre e il padre sono beninteso ignari – anche nei casi più favorevoli – di quanto accade, sia perchè il bambino non può esprimersi, sia perché molto, già in tenera età, avviene in lui fuori del campo della coscienza. Alla base dei conflitti psichici della primissima infanzia stanno, da un lato, gli impulsi naturali, istintivi del bambino, che sin dall’inizio si possono ricondurre sia all’amore, sia all’ostilità (e agli impulsi ostili, aggressivi, distruttivi del bambino e dell’uomo è stata riconosciuta un’importanza assai grande, certo non minore di quella che Freud aveva attribuito alla sessualità infantile); dall’altro, i meccanismi elementari di difesa dell’Io, che in quella tenera età sono, principalmente, volti a respingere, proiettare, esternalizzare ciò che è sgradevole, o sentito come «cattivo» e a trattenere, conservare, internalizzare ciò che sembra «buono». Così, per esempio, il seno che non dà latte, o lo dà – secondo la fantasia infantile – in modo inadeguato o insoddisfacente, è oggetto di ostilità da parte del bambino, che vorrebbe rifiutarlo; questa aggressività è proiettata dall’Io infantile, ossia attribuita all’oggetto, e il seno stesso è perciò considerato «cattivo». D’altra parte, il bambino cerca inevitabilmente nel seno materno l’appagamento dei suoi desideri e dei suoi bisogni vitali, e tende perciò anche a trattenerlo, a «introiettarlo». Il bambino avrà dunque a un certo punto «dentro di sè», sotto forma cioè di rappresentanze psichiche, gli aspetti «buoni» come gli aspetti «cattivi» del seno materno; e i suoi rapporti ulteriori con gli oggetti, e in particolare con la madre, si coloreranno a seconda di come la sua personalità psichica in boccio si sia atteggiata rispetto a quelle fondamentali esperienze, e al contesto di fantasie che le accompagnano.
L’accertamento e la descrizione di conflitti psichici imponenti già nella prima infanzia, la valutazione dell’importanza che in tali conflitti hanno gli impulsi ostili e distruttivi, la migliore conoscenza dei modi fantastici e strabilianti in cui essi si configurano nella vita mentale infantile, hanno meglio chiarito un’infinità di problemi cui le geniali scoperte di Freud avevano solo in parte dato risposta. Come scrive eloquentemente Ernest Jones, «la paura del fanciullo di fronte a se medesimo» – ossia di fronte ai suoi stessi impulsi e alla loro supposta nocività nei riguardi delle persone care che lo circondano – « è di capitale importanza per il suo destino futuro, e può condurre non soltanto a innumerevoli forme di «inferiorità», ma anche a quelle alternative tra dipendenza e indipendenza, così miserevoli nella nostra vita sociale ». Per lungo tempo era rimasto un enigma il bisogno profondo, così evidente soprattutto in certi nevrotici, che l’uomo sembra spesso provare di giudicare, punire, incrudelire su se stesso, e addirittura – sebbene di solito in modo larvato – di godere della propria sofferenza. Freud aveva chiamato «Super-Io» quella parte della nostra personalità che ha funzioni giudicative, di critica e di coscienza morale; e pur riconoscendo in questa istanza molti aspetti inconsci ed irrazionali, l’aveva in linea di massima fatta risalire a una identificazione parziale e permanente di una parte dell’Io con le figure dei genitori e particolarmente del padre, e aveva creduto di poterne fissare la formazione in un’epoca posteriore alla fase edipica. Questa concezione, tuttavia, non spiegava perchè certi individui che avevano avuto un padre e una madre amorevoli e tolleranti, si rivelassero, anche a un’analisi superficiale, oppressi da un Super-Io tanto severo e crudele; ne giustificava le forme estremamente primitive e terrorizzanti ditale crudeltà, quali apparivano in sogni, fantasie ed altre produzioni psichiche. Oggi si può con sicurezza affermare che i nuclei del Super-Io si formano già nel primo anno di vita, e che gli aspetti «terribili» di questa istanza appartengono alle prime rappresentanze psichiche degli oggetti «cattivi» internalizzati dal bambino, mostruosamente deformati dalla fantasia infantile, e carichi della sua stessa primitiva e smisurata aggressività. Il bambino, abbiamo detto, ama e odia al tempo stesso: ma la paura di aggredire e distruggere le cose che ama è così grande in lui, che egli ricorre, per impedirlo, a misure estreme, rivolgendo una buona parte della sua aggressività contro se stesso e cercando, magari, di trovar piacere in tale situazione di auto-accusa o di auto-condanna. I riflessi di queste prime divisioni interiori potranno costituire, in età successive, alcune caratteristiche della personalità adulta.
In questa inestricabile commistione, sin dai primordi, degli impulsi amorosi e di quelli ostili nella nostra psiche, è probabilmente da trovare la ragione di tante difese e degli innumerevoli tabù che l’uomo ha sempre elevato contro la sessualità. In certe specie animali, le manifestazioni sessuali sono di per se stesse violente, e spesso addirittura distruttive. L’uomo, si direbbe, è in buona parte riuscito a renderle meno selvagge: ma per far ciò, ha dovuto mobilitare una parte della sua aggressività, e metterla al servizio di una istanza repressiva autogena. Non dobbiamo meravigliarci se questa istanza, prodotto terminale di tale operazione, assuma spesso non tanto le sembianze e le funzioni di giudice equanime, quanto quelle di intollerante carceriere o di inquisitore spietato.
Il dilemma tra dipendenza e libertà – interiori o esteriori – si presenta, nell’uomo, in forma così drammatica, appunto perchè l’uomo, a differenza degli animali, è sottoposto a quegli imperativi sociali e morali senza i quali l’ordine umano si dissolverebbe in giungla. Motivi di evoluzione biologica e di adattamento sociale hanno fatto sì che la dipendenza del bambino, e poi anche dell’uomo, dagli esseri e dagli oggetti che lo circondano, sia incomparabilmente maggiore di quanto avviene nelle specie animali. Il gattino, il cagnolino di pochi giorni, hanno una loro relativa autonomia e indipendenza che il bambino di pari età non si sogna di eguagliare. La madre si allontana, ed ecco allontanarsi la sorgente di vita, la sicurezza, ed ecco, perciò, la necessità di meccanismi psichici che a costo di qualsiasi sofferenza ed angoscia, garantiscano il sopravvivere e mantengano i legami ambientali. Di fronte al suo piccolo universo in cui tante cose sembrano minacciano, il bambino per giunta, nella sua fantasia, deforma la realtà, vede mostri e terrori anche dove non ve ne sono, si aggrappa disperatamente – all’inizio senza possibilità di scelta – a chi può rassicurarlo e proteggerlo, cerca di instaurare in sè difese anche estreme e drastiche contro quegli impulsi che, nel suo elementare giudizio, potrebbero porre a repentaglio coloro da cui dipende. In tutti i tempi, si è intuito che la tenerezza, il calore, la parola affettuosa, sono altrettanti rimedi contro l’insicurezza psichica. Perseguendo una strana ricerca su quella che poteva essere stata la «lingua primordiale» dell’umanità, l’imperatore Federico li a quanto si narra – affidò un certo numero di orfani neonati ad altrettante donne, ordinando a queste di attendere a tutte le necessità fisiche degli infanti, ma di astenersi dal rivolgere loro qualsiasi parola, carezza o manifestazione d’interesse. La curiosità del sovrano – in quale lingua, cioè, quei bambini avrebbero pronunciato le prime parole – non fu mai appagata, perchè entro pochi mesi, le creature morirono tutte! Vero o falso che sia, questo racconto di un’antica cronaca prova che il detto «Non si vive di solo pane» è ancora più esatto, psicologicamente, di quanto in genere si pensi.
Le recenti vedute, qui rapidamente riassunte, sui conflitti psichici dell’infanzia – conflitti che tanto presto s’interiorizzano, fossilizzandosi nell’inconscio, e di cui solo condizioni favorevoli possono attenuare, ma non totalmente eliminare l’importanza – ci hanno fatto comprendere meglio l’origine e il significato di svariati disturbi psichici dei bambini e degli adulti, e quelli di molti aspetti e problemi della nostra vita quotidiana e collettiva. Una prima, piuttosto ingenua problematica psicoanalitica aveva posto l’accento soprattutto sui fattori esterni, limitatori della stessa espressione delle energie psichiche del bambino o dell’uomo. La parola d’ordine in pedagogia fu: tolleranza, lasciar fare, allentare le morse del divieto e del castigo. Maria Montessori in Italia, Decroly in Belgio, Neill in Inghilterra si adoperarono, e non senza motivo, nel senso ed ai fini di un’educazione senza coercizioni e senza punizioni. Non avevano fatto i conti con quella che Erich Fromm ha chiamato l’angoscia di fronte alla libertà: una angoscia che, come si è visto, ha origine nelle stesse coordinate originarie della condizione umana. Sino a tanto che la psiche non si sia conciliata con l’insicurezza ed il rischio, la libertà è mal tollerata; e se vien meno l’autorità esterna, possono rafforzarsi, in forme spesso patologiche e talora estreme, i processi interni di auto-limitazione e di inibizione: i quali, come vediamo nei nevrotici, tendono ad investire non più soltanto le attività considerate illecite dalla morale, dalla ragione o dalla società; ma anche manifestazioni che la stessa coscienza non ha alcun motivo razionale di ripudiare – il sonno, la vita sessuale, l’attività motoria, il lavoro, le relazioni col prossimo, e persino il semplice pensiero. Non pochi nevrotici hanno presentato miglioramenti passeggeri dei loro sintomi in situazioni nelle quali è stata limitata la loro libertà: malattie organiche, eventi di guerra, internamento. Io stesso ho assistito all’insorgere di nevrosi acute in adulti improvvisamente liberati dalla prigionia. Al rischio e all’insicurezza – quasi sempre immaginari, ma inconsciamente riattivati nelle loro origini infantili – si preferisce il malessere permanente della schiavitù, o dell’inibizione nevrotica. Sul piano sociale, è questa l’origine del fascino delle ditta ture e, in genere, della subordinazione incontrollata, tanto diffusa, all’autorità, si chiami essa leader, ideologia filosofica o politica, gusto, costume o moda. Sul piano clinico, è qui il motivo del profondo paradossale attaccamento di tanti nevrotici alla loro infelice situazione.
Che i limiti logici di quella che è stata chiamata la «giustizia interiore» siano costantemente varcati, e che l’origine del castigo sia tanto sovente proiettata negli eventi, nella sorte, in un fato altrettanto severo e ineluttabile quanto quello degli antichi miti, è provato dalla cosiddetta nevrosi d’insuccesso, per cui l’individuo, senza ragione apparente, sceglie sempre la via sbagliata e, in tal modo, fa di se stesso la propria vittima. Ora, non solo egli si punisce, in tal modo, per atti non commessi, e colpisce soltanto, senza perciò annullarle, oscure velleità e fantasie inconscie, ma reagisce prendendosela non già con il suo demone interno, bensì con le circostanze. Le cose, gli eventi naturali, vengono così psicologizzati, si attribuisce loro, pur senza coscientemente ammetterlo, una intenzionalità. Si regredisce dunque a quei processi magici del pensiero, propri a una fase primitiva dello sviluppo psichico, che hanno formato oggetto di molti recenti studi, e che sono efficacemente esemplificati in una prova psicologica escogitata dall’analista francese André Berge. Questi propone a un maschietto il seguente quesito:
«Gianni ama suo padre. Giacomo, invece, non si sa bene perché, è arrabbiato contro papà, e pensa: “Se, rientrando, papà ruzzolasse per terra, sarebbe una gran bella cosa”.
«Gianni, per negligenza, ha lasciato in anticamera un giocattolo. Papà, rientrando, vi inciampa, cade e si fa male.
«Quindi i due fratelli, Gianni e Giacomo, vanno a spasso. Dall’alto, si stacca una tegola, e ferisce uno dei due. Quale?».
I maschietti invariabilmente rispondono: «Giacomo».
Non si deve credere, peraltro, che il pensiero possa funzionare in senso «magico» solo in certe fasi dello sviluppo psichico infantile. Le superstizioni di tanti adulti colti ed intelligenti ne costituiscono un altro frequentissimo esempio. A tale equiparazione, o non distinzione emozionale tra pensiero e azione, si sono mostrati soggetti persino corpi accademici severi. Non moltissimi anni fa, fu chiesto al Senato dell’Università di Tubinga se le studentesse potevano usare, una volta la settimana, la piscina riservata agli studenti. La risposta fu negativa in quanto – come si espresse testualmente quel Senato accademico – «non si poteva permettere che le menti dei giovani nuotatori venissero contaminate dalla nozione che corpi di fanciulle si erano tuffati poco prima nella stessa vasca».
Sorge qui il problema della psicoanalisi come mezzo atto a debellar questi e ben più gravi processi patologici del pensiero inconscio; dell’analisi come strumento rieducativo e psicoterapico. Si pensava un tempo che il su compito potesse qualificarsi ed esaurirsi nel senso di portare alla coscienza i conflitti inconsci: la nuova dialettica dell’Io più maturo di fronte ai contenuti psichici resi coscienti avrebbe portato a nuove, sintesi, e a una conseguente miglior funzionalità psichica rispetto all’ambiente e alla realtà.
Sennonché, come si è visto, il progressivo affrancamento dai ceppi nevrotici non porta necessariamente a un più ampio godimento della libertà riconquistata, qualora non vengano neutralizzate, o in qualche modo saturate, quelle che con termine preso in prestito alla chimica vorrei chiamar le «valenze» auto-punitive e masochistiche. In modo più o meno implicito, e di solito senza aver troppo chiari i termini della questione, i principali gruppi ed esponenti della psicoanalisi hanno recentemente cercato d sottoporre a revisione sia la teoria psicoanalitica delle nevrosi, sia la tecnica da adoperare per ottenere i migliori risultati in sede clinica.
Un interessante tentativo in questo senso è stato fatto ed è tuttora il vigore negli Stati Uniti d’America. In alcuni circoli psicoanalitici statunitensi, la parola d’ordine, ancora oggi, è l’«adattamento sociale». Il paziente in analisi deve modellarsi sulla comunità in cui vive, e accettarne gli standards. A tale scopo, l’intervento psicoanalitico mira a produrre mutamenti permanenti nell’Io dell’analizzando, tali da consentirgli di ristabilire più soddisfacenti contatti con l’ambiente. Le premesse infantili, inconscie e soggettive del suo maladjutment (disadattamento), vengono notevolmente trascurate. Il problema del paziente è attuale; l’oscura storia, le origini lontane dei suoi disturbi contano poco. E stato rilevato, a questi riguardo, che l’«adattamento» così inteso presuppone un’accettazione tacita dell’ordinario, della media, di uno sfondo predefinito di realtà sociale. Al limite, si potrebbe pensare che la «normalizzazione» analitica voglia proporsi come scopo finale una casa arredata e un’automobile all porta; ed io non sono troppo sicuro che per certi colleghi d’oltre Oceani non sia proprio questo il senso che essi danno al «successo» analitico. A parte le ovvie obiezioni che un simile indirizzo solleva in sede filosofica morale e sociale (la tesi dell’adattamento, se rigidamente intesa, negherebbe il progresso, l’eccezione, il genio precursore, le continue rotture d’equilibrio che contraddistinguono la vita), io penso che l’intimo meccanismo per cu talune persone possono reagire favorevolmente a interventi del genere si; quello, già accennato, della permutazione di una limitazione con un’altra. All’individuo insicuro, angosciato, che si auto-limita nella nevrosi, si offre una limitazione vicaria sul piano collettivo, più il senso di essere «come gli altri», e l’assoluzione dell’autorità costituita. Psicologicamente, ciò equivale allo scambio fra la segregazione cellulare e il campo di concentramento.
Alcuni seguaci del principio di «adattamento sociale» hanno prospettato, è vero, l’opportunità che tale conciliazione con l’ambiente non debba considerarsi a priori come un processo unilaterale, la cui esecuzione spetti sempre e soltanto all’individuo. In una società diversa – essi dicono – è diverso anche lo sviluppo psichico del bambino e dell’uomo; in una società sanamente organizzata, gli uomini saranno psicologicamente sani. Assistiamo così a questo paradossale contrasto: che negli Stati Uniti, dove è più largamente sostenuta la tesi dell’adattamento dell’individuo all’ambiente, e dove si ritiene, implicitamente o esplicitamente, che le coordinate sociali siano tra le migliori possibili, le nevrosi sono in continuo aumento, e i pazienti debbono prenotarsi con un anno di anticipo per essere ammessi tra i clienti degli psicoanalisti più accreditati; mentre in Russia, dove le condizioni ambientali sono ben lungi dall’optimum cui mirano quei dirigenti, le nevrosi – a quanto dicono gli stessi scienziati sovietici – sarebbero addirittura scomparse! « Sarà, ma non ci credo » diceva un grande comico italiano. Non è difficile concludere che la tesi della nevrosi come «prodotto sociale» o come «inadattamento sociale» va largamente riveduta. Che i fattori sociali e culturali influenzino in grado notevolissimo le varie forme dell’attività umana e gli svariati modi in cui la natura umana si atteggia a seconda delle circostanze, nessun dubbio. Ma che tali fattori possano raggiungere l’inconscio, e influire sulle fantasie primitive del bambino, ossia sul primo formarsi della sua personalità psichica, rimane da dimostrare. Ciò che in noi seguita ad agire e a configurarsi fin dagli inizi della vita psichica è il risultato di migliaia e decine di migliaia d’anni di eredità psico-biologica, e non può essere annullato o radicalmente trasformato da mutamenti anche vasti di ordine sociale o politico. Non credo che le primitive fantasie incorporative o proiettive di un bambino russo nei riguardi dell’oggetto materno possano essere molto diverse da quelle di un bambino americano, italiano o neo-zelandese.
E’ dunque ben giustificata la tendenza che attualmente vige in settori sempre più larghi della psicoanalisi: quella di badare, soprattutto, ai primordi della vita psichica infantile, così come oggi ci appaiono alla luce delle più recenti scoperte, e ai vari tipi di meccanismi mediante i quali l’Io cerca di trovare un equilibrio tra le esigenze dell’istinto e quelle di una realtà ambientale mal percepita e deformata, le cui rappresentanze illegittime, stabilizzate nell’inconscio, tendono ad assoggettarlo. Solo così si può sperare in risultati terapeutici che non lascino l’Io impotente di fronte alle sue nuove possibilità, o che non consistano semplicemente nel fargli accettare una forma diversa, anche se per certi rispetti più conveniente, di asservimento e di rinunzia.
Il primo degli anzidetti due orientamenti è contrassegnato dagli studi psicoanalitici diretti della psiche infantile, e dalla applicazione sempre più diffusa dell’analisi pratica – esplorativa e terapeutica – a bambini anche di pochi anni. Si verifica così l’auspicio di Freud, che in uno dei suoi ultimi libri definì questa opera come «straordinariamente importante, fertile di speranze per l’avvenire, forse il lato più notevole dell’odierna attività psicoanalitica». Modificazioni ingegnose della tecnica classica hanno consentito agli specialisti di analizzare bambini anche di due o tre anni, ossia in un’età in cui il linguaggio verbale è scarso, e la personalità si esprime prevalentemente attraverso il gesto, l’atteggiamento, il giuoco o il disegno. E quasi superfluo dire che in questo campo, i contributi più notevoli alla psicoanalisi sono stati dati da donne analiste. Nomi come quelli di Anna Freud, Melanie Klein o Susan Isaacs cominciano ad essere largamente noti anche nella nostra cultura generale.
Nell’analisi degli adulti sono subentrate modifiche certo meno radicali, ma non perciò meno importanti, di quelle oggi adottate per analizzare i bambini. Per comprenderle meglio occorre immaginare l’analisi come un monologo inframezzato da brevi dialoghi. L’analizzando parla senza critiche o preconcetti; dice, in conformità a quanto ha accettato di fare all’inizio del trattamento, tutto ciò che gli interessa e che gli viene in testa, associando un’idea a quella successiva. Fantasie, ricordi, sogni si avvicendano nella sua mente. L’analista tace: tace molto più di quanto in genere si crede. Poco a poco, l’analizzando si trova nuovamente immerso in una situazione psicologica la quale non è che una nuova edizione di quelle che hanno condizionato e provocato le sue difficoltà. Il rapporto analitico è la scena di questo dramma, i cui personaggi attuali – parenti, conoscenti, ma soprattutto l’analista – divengono i rappresentanti dei protagonisti originari: genitori, fratelli, ambiente d’infanzia o di adolescenza. Ma si tratta, all’inizio, di un dramma soprattutto « agito », e non compreso.
L’analizzando prova strani sentimenti durante la seduta analitica, può sorprendersi a pensare all’analista come a un semidio o a un essere odioso, come a un salvatore o a un tiranno. Senza volerlo, egli tende volta a volta a compiacerlo o a contraddirlo, ad accettarlo come personalità indiscutibile, o ad espellerlo dal suo orizzonte psichico. Ciò, beninteso, in linea di principio: ma questa evidente ripetizione, nell’analisi, di processi emotivi che hanno contraddistinto i più importanti rapporti d’infanzia del soggetto con le persone del suo ambiente, non va esente dalle distorsioni e dai mascheramenti che già si verificarono allora, e che sono caratteristici di ogni singolo soggetto e di ogni particolare gruppo di disturbi psichici. L’intervento analitico si concentra sia sui modi di questa deformazione, sia sul rapporto inconscio che si è stabilito fra la nuova situazione – che in psicoanalisi è chiamata appunto «di transfert» – e le esperienze psicologiche del passato. Dallo schermo analitico si risale alle immagini originarie che vi vengono via via proiettate, e se ne scorgono le dimensioni e i profili reali. Senza questa analisi – quella, cioè, dei meccanismi di difesa e del transfert non si può parlare di psicoanalisi. Interpretare un sintomo o un sogno senza aver prima studiato e capito in qual modo e per quali ragioni le fantasie o gli impulsi che l’hanno determinato hanno assunto quella specifica forma, e in che rapporto essi stanno con la situazione psicologica rappresentata dal rapporto analitico, equivarrebbe a cercar di estrarre chirurgicamente un corpo estraneo rimasto per lunghi anni nell’organismo, senza averlo prima localizzato, e senza aver chiarito i processi di incapsulamento, di riduzione e di trasformazione cui con l’andar del tempo esso è stato sottoposto.
Sia pure in modo approssimativo, l’idea che per certi disturbi psichici il trattamento non dovesse e non potesse consistere nella somministrazione di medicine, bensì nell’accurata identificazione di taluni motivi e processi inconsci, è ritrovabile in non pochi testi del passato. E taluno ha precisato addirittura che i desideri resi in tal modo coscienti possono essere soddisfatti se rispettabili, mentre si deve correggerli e tenerli a freno in caso contrario – proprio come insegna la psicoanalisi! Mi è capitata per caso tra le mani, poco tempo fa, una commedia di Goldoni che avevo letto per la prima volta chissà quando: «La finta ammalata». Il dottor Onesti – che è onesto di nome e di fatto, oltre che molto intelligente ha capito benissimo che i mali di Rosaura sono effetto di conflitti psichici non chianti e non risolti – anche se non ha ancora capito di essere egli stesso l’oggetto di tali conflitti. Ed eccolo, in discussione con altri medici, formulare la sua diagnosi:
«Conchiudo pertanto, giudicando io il male di questa signora essere meramente ideale e non fisico, dipendente unicamente dalla immaginazione, non esservi nell’arte medica rimedio opportuno a rischiararle la fantasia; ma ciò doversi fare colla cognizione del motivo della sua fissazione, secondando le di lei brame, se sono oneste, o correggendole se tali non sono».
Un vero gioiello di intuizione psicoanalitica ante literam!
L’intervento psicoanalitico non ha dunque affatto quelle caratteristiche di «violentazione psichica» o di «coartazione dell’individualità» che gli sono state rimproverate da critici scarsamente informati. Non si esercita alcuna influenza arbitraria sulla crescita di una pianta se si identificano gli elementi che le hanno impedito di svilupparsi e, con prudenza, si tolgono gli ostacoli e se ne facilita così il rigoglio e la fioritura. Beninteso, nessuno può stabilire a priori quale sarà il risultato finale. In un’analisi ben condotta, tuttavia, l’individuo dovrebbe ottenere il massimo d’integrazione, e la realizzazione più completa delle sue possibilità latenti.
Fu chiesto un giorno a uno dei più celebri allievi di Freud se una ragazza nevrotica, avviata a una professione pedagogica, avrebbe continuato con successo ad esercitare tale attività anche dopo la fine dell’analisi. «Non ne so nulla – rispose l’analista – ma so che le sarà molto più facile decidere se continuare, oppure cambiare strada». Quando un aspirante analista si rivolge a un veterano della professione per sottoporsi alla lunga analisi preparatoria e didattica, rigorosamente indispensabile alla sua formazione, non gli viene mai promesso che riuscirà come analista. «Se la Sua analisi andrà bene – gli si dice – Lei avrà, tra l’altro, l’inestimabile vantaggio di vedere da sé se il Suo desiderio era giustificato, o se il Suo posto nella vita e nella società è bene sia un altro».
Mi accorgo di non essermi completamente sottratto al mio «complesso professionale», e di avervi intrattenuti su un argomento che mi sta, forse un po’ troppo, personalmente a cuore: quello della formazione di nuovi, di veri psicoanalisti – l’unico fronte che noi possiamo contrapporre a quello di coloro che si dichiarano tali senza averne le qualifiche. Qualifiche, intendo, non tanto formali, quanto sostanziali: giacché i titoli accademici contano, sì, ma sino ad un certo punto. Quello che soprattutto conta, è l’esperienza lungamente vissuta e profondamente sentita di un trattamento analitico di training, di quella analisi individuale e didattica che nessuna lettura o curriculum di studi eruditi può sostituire.
L’attività analitica, s’intende, non può essere confinata alla rieducazione psicologica o psicoterapica anche e questo sia il terreno su cui la psicoanalisi è sorta, sul quale si è sviluppata tutta la nuova psicologia dinamica, e su cui troviamo oggi molte piante e pianticelle che non esisterebbero se non esistesse e non vigoreggiasse il tronco maggiore.
Seguendo le indicazioni di Freud e gli esempi di non pochi tra i suoi migliori allievi, molti analisti si sono dedicati ai tanti problemi della psicoanalisi applicata: problemi letterari, artistici, biografici, di pedagogia, di psicologia collettiva, di mitologia, di folklore, di costume. Sono stati gettati, specie in tempi recenti, ponti sempre più numerosi tra la psicoanalisi e le altre scienze. E tali ponti vengono spesso costruiti simultaneamente, a partire da due diverse rive. Voglio dire che alle investigazioni degli analisti in campi che non sono di loro stretta pertinenza, corrispondono assai sovente le ricerche di chi, negli altri campi, ha sentito l’utilità e l’imprescindibilità del contributo analitico. Un esempio luminoso di questa collaborazione, di questa complementarità d’interessi scientifici, lo abbiamo avuto nel campo dell’antropologia e della etnologia. Un giovane antropologo ungherese, Géza Róheim, molti anni or sono s’imbatté in una delle più suggestive opere di Freud, Totem e Tabù, e comprese che quell’opera poteva essere la prima pietra di una nuova scienza – l’antropologia psicoanalitica. Studio intensamente la psicoanalisi, e sottopose poi le sue nuove vedute a riprova sperimentale, compiendo lunghe ricerche sugli aborigeni dell’Australia Centrale e presso altre culture primitive. Stabilitosi infine negli Stati Uniti, questo scienziato ha, esercitato la più decisiva influenza sulla nuova generazione di antropologi ed etnologi americani, che gli hanno reso grandi onori sia in vita, sia, non molti mesi fa, quando venne a mancare. In questo, come in altri settori dello scibile, possiamo ben dire che l’intervento della psicoanalisi ha trasformato sia gli uomini, sia i loro strumenti di ricerca. Personalmente, ho avuto richieste di delucidazioni da persone appartenenti ai rami di studi più diversi – tutte mosse dalla fondata speranza che un certo orientamento psicoanalitico potesse aiutarle e illuminarle nel loro lavoro. Due lettere mi sono state particolarmente care: una era di un illustre professore universitario di economia politica, il quale si accorse, a un certo punto, che anche nei fenomeni economici giuocavano fattori psicologici non soltanto coscienti ma inconsci ed irrazionali, e si proposto di studiarli più da vicino; l’altra era di una maestrina di montagna, coscienziosamente preoccupata del suo compito di educatrice, e delle relative responsabilità. «Mi aiuti a capire meglio questi bambini· – diceva la sua lettera. «A che serve insegnar loro a leggere e scrivere, se essi rimangono altrettanti libri chiusi per noi?».
Per un verso o per l’altro ritorniamo, come si vede, sempre all’infanzia della vita e della psiche, incontro alle piccole sorgenti che decidono quel che sarà un giorno il fiume. Persino un ente internazionale di somma importanza, l’Organizzazione mondiale della sanità, ha sentito la necessità di attirare l’attenzione dei Governi sui problemi psicologici dei primi anni, e si è avvalsa, a tal fine, dell’opera di alcuni psicoanalisti: recentemente, ad esempio, di quella del dr. Bowlby, Membro della Società Psicoanalitica Inglese e capo del Dipartimento Psico-Pedagogico della Tavistock Clinic di Londra. A cura della stessa Organizzazione mondiale della sanità, uno studio del dr. Bowlby sugli effetti psicologici della separazione dei bambini dai genitori è stato diffuso in centinaia di migliaia di copie, presso gli 81 Stati membri di questo supremo organismo, tutelare della salute del mondo.
Lo stesso carattere altamente individualizzato dell’opera analitica non consente ancora alla psicoanalisi di assolvere, se non molto limitatamente, a quella funzione di « bonifica umana » che sin dall’origine essa si è proposta, e che, pur nei suoi mutamenti e progressi teorici e tecnici, tuttora persegue. La sua influenza, però, come dicemmo all’inizio di questo discorso, è anche indiretta, e ha certamente già in parte contribuito al nostro progresso psicologico e morale. Morale, ripeto, Signore e Signori, e con intenzione: poiché non si pub definire altrimenti un indirizzo che si propone di rettificare quanto vi è nell’uomo di egocentrico di inconscio, di inibito, di aggressivo, di timoroso, di dipendente, e di farne un essere più tollerante, più comprensivo, più coraggioso, più autonomo, più armonizzato con se stesso e con la società in cui vive. E stata mossa per lungo tempo alla psicoanalisi l’accusa di far leva sugli istinti inferiori dell’animale-uomo, e di sollecitarlo così, anche senza volerlo, a dar libero sfogo ai propri impulsi. Abbiamo visto quanto questa accusa fosse falsa, e come la «morale» nel cui nome si protestava fosse sovente essa stessa la manifestazione di una parte primitiva, non evoluta, irrazionale della personalità. Possiamo noi infatti onorare col termine di morale la spinta cieca ad infliggere o ad infliggersi sofferenza, quale ancora vediamo in innumerevoli episodi di comportamento individuale e collettivo? E non dobbiamo invece pensare che, come si espresse un sacerdote psicoanalista, l’Abate Jury – questa pseudo-morale non possa in alcun caso ricondursi a un principio superiore, e men che meno divino, ma sia da riferirsi piuttosto a un’istanza di male e di distruzione? Di qualcuno dei suoi analizzandi in preda all’angoscia nevrotica, l’Abate Jury diceva: «Il me semble plutòt che c’est du Diable que ça vient». Ebbene, noi contestiamo a queste forze luciferine la falsa dignità di «portatrici di luce» con cui per troppo tempo esse hanno cercato di ingannarci. Il giudice che riconosciamo non può essere il Super-Io arcaico, crudele e delirante, che ha tagliato i ponti con la realtà, e che accusa e punisce per colpe non commesse. L’uomo è ancora, per molti rispetti, un bambino che ha paura del buio, perchè nel buio proietta sia le immagini fantasmatiche dei suoi impulsi, sia quelle, tanto similari, di oscure agenzie dalle quali si attende, come nel capolavoro di Kafka, processo e condanna. La psicoanalisi ad altro non tende se non a farlo crescere, a portarlo nel sole, a renderlo, nella completa padronanza di se stesso, uomo tra uomini.
Emilio Servadio