La teoria psicoanalitica degli istinti
In Psiche, Anno III, n°11-12-13, gen-giu 1950
Conferenza tenuta il 13 maggio 1950 all’Istituto di Psicologia dell’Università di Roma
Più volte, nel corso delle conferenze che hanno preceduto questa di oggi, si è parlato di « istinti », di «attività, istintive », di « impulsi istintivi ». Sembra ora opportuno occuparsi un po’ più da vicino di queste energie, il cui studio è stato particolarmente approfondito dalla psicoanalisi.
Come accade per diversi valori fondamentali ed essenziali del nostro vivere, non è facile definire che cosa sia propriamente un istinto. Vari Autori, anche indipendentemente dalle ricerche psicoanalitiche, hanno tentato tuttavia di farlo. Il biologo e psicologo inglese Joad, ad esempio, in un suo libro recente, scrive che ogni organismo inizia la propria vita con una, particolare e individuale « dotazione » psicologica, a seconda della quale si comporta in modo simile o diverso, in confronto di un altro, ed in circostanze analoghe. Così se noi vediamo, ad esempio, un uomo e una formica nella medesima situazione, diciamo che essi hanno « istinti » diversi, e perciò si comportano in modo differente. Perchè tale comportamento possa dirsi istintivo occorre inoltre, secondo il Joad, che esso non sia stato insegnato, e che si manifesti, in un modo o nell’altro, in uno stadio assai precoce dell’esistenza.
Nel seguito della sua trattazione, il Joad si schiera fra quei biologi e psicologi moderni, i quali tendono e semplificare il problema degli istinti, riducendoli a pochi istinti fondamentali. E ciò, in opposizione a coloro che, indulgendo più o meno al parlare comune hanno ammesso l’esistenza di un numero relativamente grande di istinti primari. Ricordiamo che, la parola, « istinto » è fra le tante che vengono usate sovente a sproposito, e che espressioni come « istinto materno », « istinto filiale», « istinto d’orientamento », ecc., sono adoperate comunemente, senza che chi le adopera si domandi se si tratti veramente di istinti, nè se essi siano o meno il risultato di trasformazioni e fusioni di attività istintive più elementari. Nel secolo scorso si arrivò a parlare di un «istinto morale »!
Tra coloro i quali ammettono l’esistenza di un numero abbastanza rilevante di istinti primari, non possiamo non citare il famoso psicologo Mc Dougall – uno fra gli studiosi, eccezionfatta per gli psicoanalisti, che si sono più occupati dell’argomento. Nel suo libro «Social Psychology», pubblicato nel 1908, il Mc Dougall ammetteva l’esistenza di sette istinti primari nell’uomo. Questo numero appare raddoppiato nel suo « Outline of Psychology », pubblicato nel 1923. Ognuno di questi istinti, nella classificazione del Mc Dougall, è accompagnato da una propria particolare emozione. L’emozione corrispondente allo « istinto sociale o gregario », per esempio, è il senso di « solitudine » «d’isolamento », di « nostalgia ». Oltre a queste emozioni primarie Mc Dougall riconosce alcune « emozioni secondarie », o « miste » (per esempio, la gratitudine), ed alcune «emozioni derivate», risultanti, come le secondarie, da ostacoli o facilitazioni incontrate dagli istinti primari nel loro esplicarsi.
Queste classifiche del Mc Dougall non sembrano davvero troppo soddisfacenti. Vale tuttavia la pena di ricordare la sua definizione dell’istinto. Secondo il Mc Dougall, un istinto è «una disposizione psicofisica ereditaria o innata, che determina il suo possessore a percepire, prestando loro attenzione, oggetti di una certa classe; a sperimentare, nel percepirli, un eccitamente emozionale di una qualità particolare; e ad agire riguardo ad essi in un particolare modo o, almeno, a provare un impulso verso tale azione ».
Gli istinti, dunque, in base a questa definizione, sono « linee di condotta biologiche », secondo le quali, in grado maggiore o minore, ma con dei minimi di obbligatorietà che non possono in alcun modo venire elusi, si svolge la nostra vita. Essi, come giustamente nota il Mc Dougall, presiedono alla stessa « percezione attenta » di oggetti e classi di oggetti a preferenza e con esclusione di altri (entrando in un recinto, una tigre trascurerà completamente, supponiamo, un cesto di mele e un vezzo di perle, e dedicherà tutta la sua attenzione aggressiva ad un tenero capretto: laddove un cavallo o una donna si comporteranno in modo diverso). Anche il Mc Dougall, come altri AA., accentua la caratteristica di « disposizione », di «spontaneità», come essenziale agli istinti; e respinge implicitamente, nella sua definizione, il punto di vista materialistico, per cui la, spinta all’azione dovrebbe essere necessariamente preceduta e dipendente da fatti di ordine fisiologico. In ciò egli è perfettamente in linea con la psicoanalisi, la quale, come vedremo, considera, gli istinti da un angolo sopratutto psicologico.
Il concetto di « istinto » in senso psicologico si è andato precisando in tempi relativamente recenti, ed ha formato oggetto di studio accurato da parte della scienza psicoanalitica. Non si può dire che tutto sia chiaro e definitivo in questo difficile settore, e le difficoltà sono sopratutto dovute al fatto che gli istinti, qualunque definizione si creda di poterne dare, sono, come scrive Freud, « al limite tra lo psichico e il somatico »: sono rappresentanti psichici degli stimoli, che, sorgendo nell’interiorità somatica, pervengono nel piano psichico.
Come è avvenuto per altri accertamenti e scoperte della psicoanalisi, le prime mosse per la formazione di una teoria degli istinti umani furono compiute in sede di esame e di cura di talune malattie nervose. Nelle psiconevrosi, in particolare, Freud riscontrò in un primo tempo che tendenze istintive inconscie, di carattere sessuale, si trovavano in conflitto con altri gruppi di istinti, la cui essenza non era ben chiara. Freud ravvisò, in qualsiasi istinto, un impulso – ossia la somma di energia da esso rappresentata -; una meta – ossia l’appagamento -; e un oggetto, nel quale, o mediante il quale, l’istinto raggiunge la sua meta. Quanto alla fonte dell’istinto, restava e resta tuttora ignoto se essa sia sempre e soltanto di natura, biochimica, o se possano intervenirvi altri fattori.
Si ammise, dunque, sin dall’inizio delle ricerche analitiche, l’esistenza di importanti gruppi di istinti non sessuali. Come ho accennato, Freud parlò, sin dall’inizio, di « conflitti » di forze istintive: ammise, dunque, l’esistenza di gruppi quanto mai forti ed importanti di istinti che non potevano in alcun modo essere considerati sessuali. A chiunque abbia seguito lo svolgersi del pensiero freudiano, l’accusa di «pansessualismo », che a più riprese fu rivolta a lui, e alla psicoanalisi in genere, appare destituita di qualsiasi fondamento, sebbene ancora oggi essa sia ogni tanto ripetuta da qualche orecchiante.
Senonchè, mentre la sessualità e i suoi problemi si rivelavano terreno fecondissimo d’indagine e assorbivano si può dire tutto l’impegno di Freud e dei primi psicoanalisti, l’altro gruppo di istinti fu in un primo tempo lasciato alquanto in disparte. Freud vide che le forze che si trovavano in conflitto con gli istinti sessuali erario forze di auto-conservazione, di auto-affermazione e di potenza; principii etici, estetici, sociali, ecc.: così almeno esse gli apparvero prima ch’egli riuscisse a operare a loro riguardo alcune semplificazioni decisive; e li chiamò « istinti dell’Io ».
« Istinti sessuali » e « istinti dell’Io » esaurivano, già nelle prime formulazioni freudiane, tutti gli istinti umani – gli altri essendo, secondo il suo punto di vista, ramificazioni, mescolanze e prodotti terminali delle vicende degli istinti elementari.
Ma come definire che cosa s’intende per «sessuale »? La prima idea che viene in mente a questo riguardo è che la sessualità faccia tutt’uno con il processo e l’esigenza biologica della riproduzione, e così si pensò e si scrisse per lungo tempo. Subito tuttavia il pensiero corre, obiettando, a espressioni innegabilmente sessuali – quali certe perversioni, o anche semplicemente il bacio – che che la riproduzione hanno poco o punto a che fare. Evidentemente il concetto di « sessualità» è dunque più vasto che non quello di «riproduzione », e comprende molte altre cose oltre questa. Uno dei più grandi sessuologi contemporanei, l’americano Havelock Ellis, non ha trovato di meglio, per definire i due « momenti » essenziali della sessualità, che adottare i vocaboli «tumescenza » e « detumescenza » noi potremmo dire tensione e distensione: il che coglie indubbiamente nel segno in quanto a descrizione generica e generale; ma non « definisce » proprio niente!
La cosa si complica vieppiù quando si prenda in considerazione il fatto che la sessualità umana, in certi suoi aspetti e in talune sue fasi di sviluppo, comprende molte più attività ancora di quel che il giudizio comune immagini, o di quel che la scienza preanalitica fosse disposta a riconoscere.
Per lunghissimo tempo, sia i cultori di scienze naturali e biologiche, sia l’uomo della strada, hanno ritenuto che nell’individuo umano la sessualità si manifestasse alla pubertà. Ma per Freud, che andava seguendo a ritroso, nei suoi pazienti, l’evoluzione degli istinti sessuali, e che ne andava ritrovando i presupposti e le radici sin nella prima infanzia, la questione si presentava diversamente. Gli istinti sessuali gli apparvero esistere e manifestarsi anche nel bambino, anche nel neonato. Essi seguono nell’infanzia certe linee evolutive, presentano alcune «tappe» principali nel loro sviluppo, e, in genere, hanno caratteristiche assai diverse dalla sessualità adulta. E’ questa, propriamente parlando, che non si stabilisce se non alla pubertà, dopo un periodo nel quale gli stinti sessuali sono più o meno in stato di quiescenza. Che la sessualità infantile sia diversa dalla sessualità adulta non sembrerà più strano di quel che sia il riconoscere come appartenente all’ordine dei lepidotteri sia la farfalla nel suo pieno sviluppo, sia il bruco che in essa si è trasformato. Solo una persona completamente profana potrebbe, vedendo l’uno accanto all’altra un bruco e una farfalla della stessa specie, credere che si tratti di animali di gruppo, famiglia, ordine o specie differenti.
Per necessità di trattazione, riassumerò molto brevemente quanto ebbe già occasione di esporre il dott. Modigliani, quando parlò in questa sede delle fasi critiche dello sviluppo psichico: richiamerò, cioè, quello che la psicoanalisi ci ha appreso circa la evoluzione degli istinti sessuali nella prima infanzia.
Nel bambino piccolo troviamo, anzitutto, che la sessualità non ha in principio alcun organo o zona particolare, ed è diffusa per tutto il corpo: si tratta, cioè, di una « erogeneità epidermica diffusa ». Ben presto, tuttavia, si accentua l’importanza di questa o quella « zona erogena »: zona, cioè, particolarmente atta a destare sensazioni di ordine sessuale nel bambino.
La prima, in ordine di tempo, di queste zone ad assumere un primato è quella della bocca. Il bambino, come è noto, scopre ben presto una fonte di piacere nel succhiare instancabilmente il proprio dito, o un qualsiasi altro oggetto che possa trovare o che gli venga porto dagli adulti. Questa fase, nello sviluppo degli istinti sessuali, viene chiamata la «fase orale », e si evolve ben presto in una fase successiva; nella quale si accentuano le tendenze a mangiare, maciullare, introdurre dentro di sé oggetti, e che coincide con la prima dentizione infantile.
Tali fasi, e quelle che seguono, son state chiamate in psicoanalisi « fasi infantili della libido ». « Libido » è il termine primamente adottato da Freud indicare l’attività, l’« espressione dinamica » degli istinti sessuali. Esso è rimasto e si adopera tuttora in psicoanalisi. Diciamo pure che esso è scelto piuttosto male, in quanto, per noi Latini, richiama alla mente la parola « libidine », che vuol dire tutt’altra cosa (in tedesco il nostro « libidine » è reso con la parola « Wollust » e non con un vocabolo derivato dalla parola latina: quindi per una persona di lingua tedesca l’impressione è assai diversa). Comunque, ormai il termine freudiano è entrato nell’uso. Notiamo ancora che la « libido », come meglio vedremo più oltre, è, suscettibile di sublimazione, e applicabile quindi ad attività umane elevatissime e ben lontane dalla sessualità originaria, nonchè dalla « libidine »! La libido desessualizzata e sublimizzata è per buona parte la forza propulsiva della creazione letteraria, artistica, scientifica. Basta ciò, crediamo, per precisarne il concetto e per evitare perniciose confusioni.
L’espressione e fasi infantili » (o « pregenitali », per usare il termine di Abraham « della libido » andrà poi ulteriormente riveduta e corretta quando avremo visto che anche gli altri istinti non sessuali percorrono determinate vie evolutive nell’infanzia, parallelamente a quelli sessuali.
Le fasi successive a quella orale infantile sono caratterizzate, volta a volta, dal primato di altre zone erogene: quella anale, quella uretrale. Una fase ulteriore, prima dell’instaurarsi di un periodo di quiescenza o « latenza » degli istinti, è infine quella in cui l’interesse e l’erogeneità riguardano soprattutto la zona genitale. Siccome però nel bambino o nella bambina molto piccoli l’interesse non è rivolto ai genitali come tali, ma o al membro (nel bambino) o al suo equivalente femminile, la clitoride (nella bambina), questa fase viene più propriamente chiamata, anzichè « fase genitale », (termine, questo, che si applica propriamente alla maturità pubere), « fase fallica ».
Ho riassunto in poche parole constatazioni e classifiche le quali hanno formato oggetto di ricerche innumerevoli, di anni di studio e di pubblicazioni voluminose. Ma mi premeva soprattutto fissare i punti essenziali di questa trattazione, che ha solo carattere introduttivo, e sottolineare ancora una volta sia la vastità e l’importanza degli istinti sessuali, sia il fatto che essi si manifestano nell’uomo in forme precise, determinate, e ormai abbastanza ben note – sin dalla prima infanzia.
La sessualità infantile è, all’inizio, prevalentemente e autoerotica ». Il bambino, cioè, non cerca se non di procurarsi e ottenere per se stesso sensazioni di carattere sessuale, e non si preoccupa affatto, sessualmente parlando, del mondo che lo attornia. In un secondo momento sorge più chiaro nel bambino l’« amore per l’oggetto», o interesse sessuale e alloerotico ». E’ da notare che a seconda della fase di sviluppo attraversata, il bambino dà alla propria istintività una «esecuzione » diversa e tipica della zona erogena che assume temporaneamente il primato. Così, nella fase orale la sessualità infantile si manifesterà soprattutto nel « succhiare » l’oggetto (la madre); nella fase anale vi sarà la tendenza a concedergli – o a negargli – i prodotti del proprio corpo, e via, discorrendo.
La libido inerente alla sessualità infantile ha una facilità molto maggiore che non nell’adulto a spostarsi, in un primo tempo, da un oggetto ad un altro; e poi, nell’inconscio, da una rappresentazione ad un’altra. Questa è l’origine di tante sostituzioni e di tanti simboli, per cui, nell’inconscio e nelle espressioni che dall’inconscio traggono specialmente origine (come ad es. i sogni), vediamo che un dito o un braccio o il naso possono rappresentare il membro, la bocca la vagina, le guance le natiche, ecc. – In linea generale, queste sostituzioni seguono una linea di « spostamento dal basso verso l’alto », giacché la « parte bassa » del corpo, i suoi organi e le sue funzioni, sono particolarmente colpiti dalla rimozione.
Le luci gettate dalla psicoanalisi sulla sessualità infantile hanno, tra l’altro, permesso di capire il senso e la portata di parecchie perversioni sessuali. Si è, cioè, constatato che, mentre le attività sessuali infantili che abbiamo rapidamente menzionate lasciano alla fine il primato, in casi normali, all’attività genitale dell’adulto, e rimangono soltanto, nell’adulto stesso, quali atti preparatori o concomitanti dell’atto sessuale propriamente detto, nei cosiddetti « pervertiti », invece, si ha una «fissazione » o una e regressione » a questo o quello degli « istinti parziali » o delle « fasi pregenitali » infantili. Per spiegarci meglio: tutti sappiamo che il « guardare » l’oggetto amato, e l’esserne guardati, fa parte della sessualità adulta: una parte più o meno importante, ma non certo principale. In certi individui il guardare o l’essere guardati diventa invece un piacere sessuale « fine a se stesso »: si tratta delle perversioni note ai sessuologi sotto il nome di « scopofilia » (voyeurisme) e rispettivamente di « esibizionismo ». Orbene, noi diciamo che questi individui non hanno raggiunto il livello evolutivo della sessualità adulta; o che, raggiuntolo, non vi si sono saputi mantenere.
Con il loro comportamento essi mostrano di aderire a fasi o momenti della sessualità infantile in cui il guardare o l’essere guardati erano potentemente « erogeneizzati »; la loro libido, diciamo, è «fissata » a quelle, esperienze e a quei momenti, e non sa staccarsene. In un nevrotico, la rimozione impedirebbe a quelle stesse tendenze, o ad altre consimili, di venire alla coscienza, e il conflitto fra esse e le forze rimoventi si esprimerebbe nei sintomi. Nel pervertito, esse appaiono, per contro, chiaramente, positivamente in luce, anche se i motivi nucleari della perversione rimangono sostanzialmentee inconsci. Per questa differenza,diremo così, di «rilievo » nell’uno e nell’altro caso, Freud poté dire, con una delle sue celebri frasi, che « la nevrosi è il negativo della perversione ».
Queste, nelle linee essenziali, le caratteristiche e lo sviluppo degli istinti sessuali nella prima parte della vita umana: in quella parte, cioè, che comprende press’a poco i primi cinque o sei anni di vita. Dopo i quali gli istinti stessi si acquietano, e l’individuo entra nel cosiddetto « periodo di latenza», che si estende fino alla pubertà. E’ stato osservato con buon fondamento, a questo riguardo, che l’uomo è l’unico essere vivente la cui sessualità si manifesti, per così dire, in due riprese.
Ritorniamo adesso alla prima distinzione proposta da Freud fra « istinti sessuali » e « istinti dell’Io ». Lo stesso studio degli istinti sessuali portò Freud ad alcuni accertamenti che rendevano l’anzidetto dualismo non più sostenibile o, per lo meno, assai poco soddisfacente. Alludiamo alle indagini freudiane sul narcisismo.
Il termine « narcisismo » fu primamente introdotto dal dottor Havelock Ellis per definire una perversione sessuale: quella per cui l’individuo si comporta nei riguardi del proprio corpo come una persona normale verso quello della persona amata: si contempla, si ammira, si accarezza, ecc. (il termine, come è ovvio, è stato scelto con riferimento alla favola greca di Narciso, bellissimo giovane unicamente innamorato di se stesso, e amato invano dalla ninfa Eco). Per Freud «narcisismo » è, in genere, l’interesse (o libido) per la propria persona, fisica o psichica.
Giù abbiamo detto che il primo interesse sessuale del bambino concerne la propria, e non l’altrui persona. Ma l’auto-erotismo presuppone comunque il sé come oggetto. La sessualità originaria del bambino è invece, per così dire, intransitiva, ossia narcisistica. Questo narcisismo « primario » subisce varie sorti e trasformazioni: ma non si annulla mai completamente neppure nell’adulto. Freud giunse alla conclusione che l’amore che portiamo a noi stessi è in parte di carattere sessuale; e che, quindi, una parte di quegli istinti di conservazione, ecc., che in un primo tempo egli aveva definito come « istinti dell’Io », non erano distinguibili dalla libido narcisistica – andavano, cioè, essi stessi qualificati come « sessuali ».
Lo studio del narcisismo ha permesso di capire, ad esempio, il vero contenuto psicologico dell’interesse per una persona con la quale il soggetto più o meno si identifica: amandola, l’individuo ama in sostanza se stesso; attribuendole qualità che possiede, o che possedeva in passato, o che vorrebbe possedere. In questo modo, attraverso questa parziale identificazione e introiezione -, una parte della libido narcisistica ritorna al soggetto (ed abbiamo il cosiddetto narcisismo « secondario »).
L’esistenza indipendente di quelli che Freud aveva chiamato « istinti dell’Io » fu dunque scossa dal concetto di narcisismo. Tuttavia Freud conservò, anche in questa fase delle sue ricerche, l’idea di una componente non libidica di tali istinti.
In una terza fase, vennero ascritte agli istinti dell’Io le tendenze aggressive – e ciò apparve particolarmente chiaro nel lavoro di Freud « Gli istinti e le loro vicissitudini ». Mentre dapprima gli impulsi sadistici erano stati considerati come legati alla sessualità, apparve sempre più chiaro che il termine « sadismo » includeva anche fenomeni di pura crudeltà, senza componente sessuale apparente. Si osservò inoltre che gli impulsi a « controllare », tipici della fase anale, non differivano molto da certe manifestazioni sadistiche, e che anche le tendenze « difensive » rivelavano aggressività. Qual era dunque il rapporto tra sessualità e aggressione? Non c’erano qui che due vie: o considerarle come aspetti « bipolari » di una sola energia istintiva, oppure considerarle come qualitativamente differenti sin dall’origine. Freud scelse la seconda soluzione, e ascrisse l’aggressività agli istinti dell’Io. Per spiegare fenomeni quali il «sadismo sessuale » propriamente detto fu introdotta per la prima volta l’idea di una fusione, o impasto, degli istinti: fusione che poteva riuscire più o meno, oppure non riuscire affatto, cosiccchè si parlò anche di defusione o di disimpasto degli istinti stessi.
Il tramonto definitivo della concezione degli «istinti dell’Io » fu segnato dalle nuove formulazioni freudiane relative alla struttura della personalità psichica, distinta nelle istanze dell’Es, dell’Io e del Super-Io. In special modo, gli studi sul masochismo offrono un esempio di tendenze aggressive operanti fuori del campo di operazione dei supposti «istinti dell’Io », (lato che esse sono inconciliabili con i presunti fini di questo.
Altri esempi sono dati dalla depressione melancolica e dai processi di autopunizione. In questi casi non si poteva non pensare ad un istinto distruttivo operante nel soggetto stesso e presentante uno stadio e un aspetto analoghi alla fase narcisistica primaria della sessualità.
La difficoltà relativa ad una nuova classificazione degli, istinti primari fu superata da Freud in un modo quanto mai audace e impensato. Egli prese in esame vari fenomeni psicologici e biologici i quali, a suo modo di vedere, rivelano un’unica tendenza organica fondamentale: la tendenza – egli la chiama «coazione » – al « ripetere ». Questa tendenza è rilevabile, ad esempio, nelle migrazioni periodiche di pesci e di uccelli, nel fenomeno di ricapitolazione per cui nei nove mesi della gestazione l’individuo umano dalla cellula al bambino nascente – percorre tutta la scala evolutiva delle forme biologiche, dalla più semplice alla più complessa. La stessa ereditarietà è, evidentemente, dovuta ad una tendenza alla ripetizione insita nella materia organica. Secondo Freud, essa sta appunto, come tale, alla base dell’attività istintiva in genere.
Ma se la coazione a ripetere rivela una specie di inerzia o di « limite di elasticità », nella materia vivente, per cui essa tende a ripristinare stati precedenti, il ripristino finale a cui essa arriverà in un lontano giorno sarà, secondo Freud, quello dello stato inorganico, previtale, che ha preceduto il primo apparire della vita. In altre parole, la vita, attraverso le sue varie fasi, tenderebbe, nell’individuo come nella specie, e come in tutte le sue manifestazioni di oggi, di ieri e di domani, alla morte. La tesi di Freud è dunque che si muoia perchè nella materia organica esiste una vera « tendenza a morire », un vero e proprio « istinto della morte ».
Freud concluse che gli istinti sessuali, i quali comprendono in sé quelli della riproduzione, costituiscono il nucleo essenziale di quelle forze vitali che si oppongono di continuo agli istinti della morte e li tengono in scacco: forze che egli, prendendo a prestito un termine di Platone, propose finalmente di raggruppare sotto il termine generale e comprensivo di « istinti dell’Eros ».
Gli istinti della morte, secondo Freud, sarebbero dunque di continuo contrastati da quelli della vita, o dell’Eros. Egli suppone che mutate condizioni ambientali nel globo abbiano costretto la materia organica ad un adattamento secondario, imponendole giri sempre più laboriosi e lunghi per ritornare allo stato inorganico: il fine degli istinti della morte, in altre parole, sia nel quadro generale del fenomeno « vita » nel cosmo, sia in quello più ristretto del ciclo biologico dell’individuo singolo, sarebbe raggiunto solo attraverso un « lungo circuito». Come per legge di gravitazione la caduta di un corpo celeste sopra un altro è estremamente ritardata, pur dovendo in un ultimo luogo avvenire, così per virtù degli istinti dell’Eros – « satelliti » di quelli della morte – può proseguire e affermarsi sul globo, di contro alla morte, la vita.
Questa idea del « lungo circuito » percorso dagli istinti della morte permette di distinguerli senz’altro dalla tendenza al suicidio – fenomeno in cui la morte sarebbe invece raggiunta per un « corto circuito», come se il legame invisibile che annoda il satellite al pianeta venisse improvvisamente a spezzarsi.
Tale, dunque, il secondo e definitivo « dualismo degli istinti » proposto da Freud. Da un lato, gli «istinti dell’Eros», dall’altro, quelli della morte. Eros e Thanatos – le personificazioni dell’amore e della morte nella mitologia greca – sarebbero dunque i due poli dell’asse intorno al quale ruota l’attività istintiva biologica dell’uomo.
Ma gli istinti della morte – i quali, insieme con quelli dell’Eros, sarebbero dunque le fonti prime di qualsiasi altra manifestazione « istintiva » – per la loro stessa natura sottenderebbero ogni moto od azione dell’uomo senza farsi direttamente sentire; sarebbero, per adoperare un’immagine che mi sembra corrispondere bene al concetto freudiano, come una specie di peso essenziale che dovrà finire col trascinare a fondo il nuotatore, ma di cui questi, nuotando, non si accorge. Sono istinti «muti », solo forse particolarmente – ma non mai esplicitamente – ravvisabili in particolari affezioni psichiche, quali la melanconia. Finchè essi rimangono interni, immanenti all’uomo, non si può, a rigor di termini, parlarne in senso fenomenologico.
Paul Federn usa specialmente, a loro riguardo, l’espressione «medio» (medial), presa a prestito da una classe di verbi greci che non sono nè attivi nè passivi ne riflessivi: che esprimono, cioè, semplicemente un «modo di essere» intrinseco al soggetto. Contrastano essi dunque in modo straordinario con gli istinti dell’Eros, appariscenti e chiassosi. Queste loro caratteristiche negative, questo loro rimanere perennemente in ombra, hanno fatto sì che taluni psicoanalisti non si siano sentiti di seguire Freud nell’ultima sua illazione speculativa. Essi lasciano impregiudicata l’esistenza degli « istinti della morte » come tali, e si rivolgono invece a quelle che potrebbero eventualmente essere le loro . manifestazioni centrifughe, o meglio «estrovertite»: a quelli, cioè, che appaiano all’esterno quali «istinti distruttivi».
Giacché anche gli istinti della morte, nella stessa concessione freudiana, seguono la stessa sorte di quelli dell’Eros, e particolarmente degli istinti sessuali. Come la libido, in origine narcistica, si estroverte e diventa amore per l’oggetto (o libido oggettuale), così l’energia dinamica degli istinti della morte si estroverte anch’essa, e da istinto di morte diventa istinto di aggressione e di distruzione. Qui le forze diverse ed opposte a quelle degli istinti creativi appaiono in piena luce, ed è perciò che taluni,, ripetiamo, preferiscono prendere in considerazione soltanto istinti « distruttivi », senza entrare in merito al problema se questi siano o meno un aspetto estrovertito degli istinti della morte.
La teoria freudiana dei due istinti fondamentali –istinti dell’Eros e istinti della morte – dipende in sostanza da una concezione della vita come un processo metabolico, in cui vi è una continua costruzione (anabolica), e distruzione (catabolica), delle unità biologiche elementari. In biologia, questa concezione è pressoché pacifica. La difficoltà, nella teoria di Freud, consiste nel considerare il fattore disintegrante come un vero e proprio a istinto di morte ».
In una recentissima esposizione, ‘l’insigne psicoanalista americano Franz Alexander ha sostenuto la tesi secondo cui la tendenza alla disintegrazione non sarebbe altro se non l’impulso separatistico – o, in termini freudiani, narcisistico – di autoaffermazione degli elementi biologici già integrati in unità superiori. La morte sarebbe non già lo scopo, ma la conseguenza di questo fenomeno, ravvisabile in forma macroscopica nei, dissolvimenti dei grandi aggregati sociali, dai gruppi sino agli imperi: dissolvimenti, per spiegare i quali non vi è alcun bisogno di introdurre l’idea di una tendenza a morire. Nelle nevrosi – osserva Alexander, in polemica con Karl Menninger – non troviamo affatto un conflitto, fra istinti erotici e istinti di morte.
Piuttosto, ciò che si trova è una disintegrazione di adattamenti emozionali complessi, e una regressione a forme di soddisfazione più primitive e più semplici. Vi è una protesta contro l’indipendenza adulta, e un’insistenza nell’essere amati e curati, anche con grave sacrificio altrui. Questa regressione verso un atteggiamento fortemente egocentrico può causare non solo sentimenti d’inferiorità, ma anche di colpevolezza e di angoscia, ai quali l’individuo cerca di sottrarsi attraverso l’autopunizione.
Il conflitto interno è inevitabile, perchè una parte della personalità non partecipa all’accennata regressione. « Tutte le nevrosi » – conclude Alexander – « possono essere considerate come disintegrazioni, in cui una tendenza singola si emancipa e cerca soddisfazione per conto suo, in un modo non pratico e svantaggioso, incompatibile con l’età e la situazione sociale del paziente. Il suicidio è un esempio estremo di una tendenza isolata che non ha più freno. Gli impulsi aggressivi, dapprima subordinati ad altri fini quali l’autodifesa, possono disintegrarsi e cercare una soddisfazione autodistruttiva, se tutte le altre vie di sfogo sono sbarrate ».
Anche altri autori americani, come French, contestano che si possa parlare di impulsi distruttivi come del tutto e qualitativamente distinti da quelli erotici; e affermano che solo un’attesa speranzosa può permettere all’Io di conservare la propria integrità e di accettare frustrazioni. Se tale attesa scompare, gli impulsi interni di desiderio possono dissociarsi dallo schema integrativo dell’Io, e scaricarsi in rabbia o aggressione.
Si tratta, come è chiaro, di vedute tanto suggestive quanto discutibili. Non vi è dubbio, a mio avviso, che l’introduzione in psicoanalisi del concetto di impulsi distruttivi sia stata quanto mai fruttuosa. Fenomeni, ad es., quali le perversioni dette sadismo e masochismo sono apparsi effetto di un’eccedenza (o « disimpasto ») degli istinti distruttivi e aggressivi in confronto a quelli sessuali. In un piano più normale, è stato studiato l’istinto combattivo nelle sue varie manifestazioni (militari, politiche, sportive, morali, ecc.), e si è concluso che esso risulta da una mescolanza – o «impasto » – più o meno dosata, e felice di libido e di istinti aggressivi. Quelli che un tempo erano stati chiamati « istinti dell’Io » furono ricondotti anch’essi o a libido narcisistica, come aveva già riconosciuto Freud, o a impasti di libido narcisistica e di energie distruttive – come nel caso, ad es., dei cosiddetti istinti di conservazione. Riconosciute poi possibilità di sublimazione se non dell’istinto distruttivo in quanto tale, per lo meno di esso in quanto coinvolto in processi sublimativi della libido, si è giunti a riconoscere il valore e l’importanza degli istinti di aggressione anche in attività umane di tipo superiore, quali il lavoro intellettuale specializzato, la ricerca scientifica, ecc.
Se ripensiamo ora alla prima evoluzione degli istinti, nell’infanzia, non ci stupirà il fatto che accanto e di pari passo con quella della libido si compia, quella dell’energia dinamica degli istinti distruttivi. Particolari studi hanno ravvisato componenti aggressive sia nella fase orale -(specialmente nel suo aspetto mordace, «cannibalico»), sia in quelle successive. Lo studio dell’evoluzione dei « modi» dell’energia distruttiva nei primi anni infantili non ha ancora raggiunto la competenza di quello relativo alle fasi della libido, ma al riguardo già una notevole massa di osservazioni è stata assicurata alla scienza, principalmente i merito degli psicoanalisti del gruppo inglese.
Come la libido, infine, può assumere forme «riflessive» oltreché narcisistiche e attive, così pure si può dire degli istinti d’aggressione: i quali, tanto per menzionare uno dei loro aspetti fenomenologici più importanti, sono quelli che conferiscono al Super-Io la sua forza, la sua severità, le sue caratteristiche eventuali di entità crudele e persecutoria. In questo caso l’individuo rivolge – tramite il Super-Io – energia aggressiva contro se stesso; e ciò, come sappiamo, può causare depressione, sentimenti di colpa, idee o atti suicidi.
Signore e signori, lo studio teorico e pratico, effettuato dalla psicoanalisi, dell’istintività umana, ha messo in luce impulsi e meccanismi costruttivi e distruttivi; e, attraverso l’osservazione in vitro della sofferenza dei singoli, ha già tratto importanti conclusioni circa il dolore umano e la possibilità di lenirlo.
Questa possibilità esiste. Ognuno di noi è giunto, con “la sua esperienza, a constatare quale e quanta sia la somma di sofferenze inutili che gli uomini, attraverso l’introversione, la regressione e l’esternalizzazione dei loro impulsi aggressivi inconsci ed arcaici, sollecitati da motivazioni del tutto inattuali e malamente razionalizzate, hanno causato e causano a se stessi. La psicoanalisi ha additato le cause di tanto dolore e ne ha indicato anche i rimedi. L’uomo ha in sè istinti costruttivi, ed è su questi che occorre far leva. Come nelle nostre analisi noi vediamo gli individui disporre di una maggiore pienezza e gioia di vita, via via che si dissolvono le ombre cupe e i divieti assurdi che albergavano nel loro inconscio, così noi vedremo – io lo spero, io lo credo –una progressiva conquista della felicità, da parte delle masse, via via che esse si libereranno dei loro pesanti fardelli soprattutto interiori. Noi lottiamo anche per questo: perchè cioè, riconosciuto e chiarito come l’esistenza sia, nel più verso senso psicobiologico dell’espressione, un campo di battaglia, possa su questo aspro terreno librarsi, con volo sempre più sicuro, Eros vivente e immortale.