Le oscure vie della guarigione
Conferenza tenuta per l’Associazione Culturale Italiana al Teatro Eliseo di Roma il 24 aprile 1959.
Rivista di Psicoanalisi n.2 – 1959 pp.149-164
Quaderni ACI ·XXIX pp.49-69
Signore e signori,
Desterà forse qualche sorpresa che alcuni problemi inerenti al fenomeno della guarigione siano presi occasionalmente in esame da uno psicoanalista, piuttosto che da un internista o da un patologo. Il fatto è che come vedremo, il processo globale della guarigione di un essere umano coinvolge alcuni valori, e pone quesiti, che non sono di stretta pertinenza del medico generico, e che attingono invece a piani profondi della personalità psichica, ossia a ciò di cui prevalentemente si occupano proprio gli psicologi e gli psicoanalisti. Gioverà aggiungere che in questa disamina, lasceremo completamente impregiudicato qualsiasi problema tecnico relativo a questa o quella cura strettamente medica, non solo per motivi di competenza specifica, ma anche perché ciò non rientrerebbe nemmeno nel disegno di questa conversazione.
In una grande città della nostra Italia – e non già, supponiamo, dell’Africa centrale o della Polinesia – si trovano, a poca distanza l’una dall’altra, due targhe di fogge e dimensioni non molto diverse. Una è quella di un modernissimo poliambulatorio, provvisto di tutto l’occorrente per diagnosi e per cure anche specialistiche. L’altro reca il nome e la qualifica di un notissimo “mago” nostrano, anch’egli capace – a suo dire, e a detta di molti clienti – di individuare e guarire una notevole quantità di malattie.
Il raccostamento in questione è un po’ l’indice, si direbbe, di quel che accade da qualche decennio a questa parte nella scienza e nella cultura moderne, particolarmente nel campo terapeutico. Da un lato, si sono avuti sorprendenti progressi in biologia, igiene, chirurgia, biochimica e tecniche di laboratorio, con l’introduzione di strumenti perfezionatissimi, nuovi e potenti farmaci, e neutralizzazione di gravi malattie: dall’altro, e quasi per una polarità apparentemente misteriosa, abbiamo assistito e assistiamo non già a un corrispondente declino – come sarebbe stato logico attendersi – ma a una sempre crescente affermazione di indirizzi, attività e concezioni che non hanno nulla o quasi nulla di scientifico o di razionale. Per limitarci al settore terapeutico, ricordiamo le cure “spirituali” o “divine”, quelle a base di unguenti o balsami di presunta ispirazione soprannaturale (ne abbiamo avuto un recente caso clamorosissimo in una città dell’Italia settentrionale), ed infine i vari tipi ed attività dei cosiddetti “guaritori”. Tutto ciò si accompagna ad altre manifestazioni che non riguardano direttamente il problema terapeutico: accresciuto interesse per diverse forme di occultismo, nuove sette religiose, miracolismo, oroscopi, cartomanzia, astrologia popolare, e via discorrendo.
Questa bipolarità, ossia questa contrapposizione tra affinamento scientifico e sviluppi del pensiero magico e prelogico, non è certamente casuale, e non si può né ignorarla, né liquidarla con un’alzata di spalle: tanto che se è legittimo, in via provvisoria, accantonare in blocco molte pretese occultistiche o taumaturgiche definendole con lo sbrigativo termine di “superstizione”, troviamo che accanto alle anzidette forme più o meno rozze e primitive di credenze o di attività, si sono avuti e si sviluppano, in aree culturali scientificamente avanzatissime, fenomeni e indirizzi e metodi che non si possono in alcun caso ripudiare senza discuterli. Lo psicologo avvertito, il medico di larghe vedute, lo studioso di problemi sociali, non possono ignorare che or, esattamente un secolo fa, cominciava la grande epopea mistico-terapeutica di Lourdes; che il continente nord-americano è tuttora percorso dai lieviti della Christian Science e delle “cure spirituali”; che la rivoluzione psicologica e psicoterapica promossa da FREUD ha dato luogo ad un’intensa attività terapeutica che non si limita ormai più al campo delle nevrosi o delle cosiddette malattie funzionali, ma si estende a stati e sindromi che un tempo erano considerati di esclusiva pertinenza delle terapie internistiche o della chirurgia… Ci troviamo dunque di fronte ad una revisione ab imis di metodi e di concetti. Alcuni criteri che parevano fondamentali ancora qualche decennio fa sono posti in forse da personalità scientifiche e mediche di primissimo piano. Lo studioso d’oggi è costretto a chiedersi per qual motivo un numero tanto grande di individui si orienti, a livelli che vanno dal più legittimo al meno giustificabile, verso cure e trattamenti psicologici o addirittura magici; è tratto a meravigliarsi che persone anche intelligenti e colte possano aver più fiducia negli ipotetici “raggi Zeta” di un guaritore che non nei raggi X o negli ultrasuoni di una clinica; e deve finire col sospettare, ad un certo punto, che “qualche cosa possa esserci” non diciamo nella psicoterapia (che ha ormai fatto le sue prove), ma persino in certe cure mistiche o completamente eterodosse. L’uomo moderno, insomma, che rifletta un poco su certi accadimenti contemporanei, si ritrova, mutatis mutandis, di fronte ai secolari quesiti: che cos’è il male? che cosa significa curare? come, e perché, si guarisce?
Il fatto è che se dobbiamo ormai dissentire da un certo atteggiamento di origine ottocentesca e positivistica, che si potrebbe chiamare di “feticismo scientifico”, d’altro canto non possiamo ovviamente peccare di “miracolismo” acritico, e prestare senz’altro fede a maghi, taumaturghi o pretese cure soprannaturali. Ma se a questo punto, allora, cerchiamo nei testi più seri e ufficiali una teoria moderna della guarigione, semplicemente non la troviamo! Così è, signore e signori. Esiste, come tutti sanno, una scienza delle malattie – la patologia; ma non esiste una scienza della guarigione, neppure come capitolo o sottocapitolo dei trattati di patologia generale o speciale: mentre sembra ovvio che lo studio della guarigione da una malattia sia altrettanto legittimo quanto quello della sua eziopatogenesi, della sua fisiopatologia, della sua evoluzione, delle sue forme cliniche, della sua diagnosi e della sua prognosi. Né si può dire che lo studio della guarigione faccia tutt’uno con quello della cura, perché si sa benissimo che in certi casi si ha guarigione… in assenza di qualsiasi cura! E forse è proprio questo uno dei motivi per cui non esiste una teoria ragionata della guarigione: ben di rado, infatti, e comprensibilmente, il medico pratico può esser tratto ad interessarsi delle guarigioni che avvengono senza alcun intervento terapeutico, suo od altrui!
Non rientra nei miei propositi, e neppure nelle mie capacità, offrirvi qui una “teoria della guarigione”, da inserire in qualche testo, o da proporre a qualche docente di patologia: cercherò bensì di promuovere alcune riflessioni sui nuovi significati che i concetti di malattia e di guarigione stanno assumendo, e di trarne, se sarà possibile, conclusioni di massima.
Prima di considerare direttamente il problema delle cure non ortodosse e dei guaritori, soffermiamoci un istante su certe implicazioni della medicina psicosomatica. A partire dagli studi di Von BERGMANN e di GRODDECK, si può dire ormai accertato, dopo decenni di lavoro medico e psicoanalitico, che determinati fattori emotivi e psichici si manifestano non soltanto in fenomeni di tipo isterico, come tachicardia, spasmi muscolari, pseudo-paresi o dermografismo, ma dando luogo o aprendo la via a vere e proprie affezioni organiche di carattere permanente, a carico dell’apparato respiratorio, del tubo digerente, dell’epidermide o delle articolazioni. Sono passati venticinque anni, ormai, da quando, nel Congresso internazionale di psicoanalisi di Lucerna del 1934, potei io stesso ascoltare dalla viva voce di FRANZ ALEXANDER la prima relazione sui “Fattori psicogeni nella eziologia dell’ulcera gastro-duodenale”, che allora sbalordì per la sua novità e per la sua audacia. Studiando vari casi di ulcera, ALEXANDER e i suoi collaboratori avevano appurato che nei singoli soggetti esistevano conflitti psichici profondi fra il loro amor proprio – che li spingeva ad affermarsi – e il desiderio inconscio di restare in una situazione infantile di sottomissione e di passività. È largamente noto il legame stretto che esiste nella psicofisiologia infantile tra la nozione di “amore” e quella di “nutrimento”. I desideri latenti e le preoccupazioni dei soggetti si erano andati localizzando, inconsciamente, al livello del tubo digerente, traducendosi in una ipersecrezione gastrica la quale, alla lunga, causava l’ulcera. Il trattamento preconizzato e attuato da ALEXANDER consisteva perciò nell’identificare e risolvere il conflitto psichico, interrompendo così il processo patogeno alla sua stessa radice.
Molti anni sono passati, ed è ormai largamente accettata l’idea che certe malattie si possano guarire con puri mezzi psichici, identificando e risolvendo i conflitti e i problemi psicologici inconsci, dei quali la malattia stessa non è che la manifestazione sul piano organico e somatico. Lo stesso ALEXANDER e la sua scuola hanno definito, con grandissima approssimazione, i diversi profili psicologici delle persone soggette ad ammalarsi di ulcera gastrica piuttosto che di artrite reumatoide, di ipertensione essenziale piuttosto che di neuro-dermatite. Vediamo dunque che almeno per un determinato gruppo di affezioni aventi un chiaro aspetto organico è cambiato il concetto stesso di malattia, ed è cambiato, ovviamente, molto di ciò che si pensava e si faceva circa il loro trattamento e la loro guarigione. A guardar bene, la “guarigione” di una delle predette malattie, ottenuta con soli mezzi psichici, consiste in una migliore coordinazione del mondo interiore del soggetto, e quindi in un suo più armonico inserimento nella sua stessa storia culturale, ambientale e familiare, rispetto alla quale egli aveva cercato, in malo modo e a livelli elementarissimi, di assumere posizioni di polemica e di lotta. Il semplice allentarsi dei sentimenti di colpa inconsci, sempre presenti sia nei puri disturbi psicologici, sia nelle affezioni che abbiamo menzionate, non costituisce forse un più definitivo riconoscere se stessi, con i propri doveri, ma anche con i propri diritti rispetto alla vita e al benessere?
Superfluo dire che la considerazione e il trattamento dall’angolo psicosomatico di una data malattia, e del relativo processo di guarigione, non debbono significare che il soggetto non possa e sovente non debba giovarsi delle cure somatiche, e appellarsi al medico generico o allo specialista. Lo stesso ALEXANDER ammonisce severamente coloro i quali credessero che una volta rilevata l’origine emotiva di un fatto morboso, non rimanga che passare il paziente allo psichiatra, allo psicologo, o allo psicoanalista!
Il piano della medicina psicosomatica è oggi, ci sembra, il più “ortodosso”, rispetto al problema generale dell’influenza dei fattori psichici ed emozionali nell’insorgere di determinate malattie anche organiche, e sui relativi processi di guarigione. Ma che dire, ora, dei già menzionati, vastissimi campi in cui si persegue – con o senza controlli e approfondimenti di ordine medico – un avvicinamento spirituale, mistico, taumaturgico alla malattia e alla guarigione?
Credo di aver sufficientemente studiato sui testi il grande problema di Lourdes – pur non avendo avuto l’opportunità di approfondirlo sul posto. Il compianto Dottor LEURET, che fu Direttore del Bureau Médical di Lourdes, mi diede la possibilità, fra l’altro, di esaminare da cima a fondo alcuni incartamenti e processi completi, relativi a casi di guarigione ritenuta soprannaturale. Non è beninteso di mia pertinenza pronunciarmi sulle cause prime di quanto accade o può accadere a Lourdes: ma che colà si siano verificati casi i quali mostrano l’intervento e l’azione di fattori ideoaffettivi x in processi di guarigione di malattie organiche anche gravi – questo, credo che qualsiasi studioso serio e prudente, il quale abbia investigato con cura, sia ormai tenuto ad ammetterlo. E se ciò è ammesso, eccoci, signore e signori, di fronte ad un’altra coordinata, da tener presente nella futura compilazione del trattato, o del capitolo, sulla guarigione. Il trattatista o l’estensore dovrà dire, anche se non potrà per ora spiegarlo, che nella guarigione di una – supponiamo – peritonite tubercolare, i processi di risanamento possono essere scatenati e potenziati da un fattore immateriale, il quale può agire in un tempo anche rapidissimo sui tessuti e sugli organi ammalati. Persino uno scienziato severo come il Dottor WEST, che ha sollevato sottili dubbi e ingegnose contestazioni di ordine medico in merito a undici dei più famosi e recenti “casi” di Lourdes – persino WEST, dicevo, al termine del suo studio critico, dichiara di ritenere che “rapidi e profondi mutamenti fisiologici avvengano qualche volta a Lourdes”.
Durante un mio soggiorno negli Stati Uniti d’America, l’anno passato, ebbi modo di avvicinare uno dei massimi Centri per lo studio e lo sviluppo delle cosiddette “cure spirituali” – Centro situato in un luogo amenissimo, a breve distanza da New York. Al convegno cui partecipai, intervennero medici, pastori protestanti, fisici e liberi studiosi, e vennero discussi metodi, casi ed esperienze. Debbo dire che sebbene più d’una volta mi sia chiesto quanto di fondato e di ragionevole ci fosse, ad esempio, nel mettere in relazione la guarigione di un Tizio con le preghiere fatte a suo favore, o con altre pratiche mistiche adottate dal gruppo del Reverendo X, o dalla scuola di medicina spirituale del Dottor Y, la mia impressione globale fu quella di essere con gente seria, piuttosto colta e bene equilibrata – oltre che, s’intende, perfettamente convinta delle proprie tesi di partenza. Non si trattava certo, comunque, di fanatici, e tanto meno d’imbroglioni – il che non vuol dire naturalmente che negli Stati Uniti, come in tanti altri Paesi, non abbondino gli impostori, i paranoici pseudo-taumaturghi, gli “ispirati” di questa o quella setta, e coloro che vendono fialette anticancro contenenti acqua fresca – proprio come avviene da noi!
In America, nel convegno menzionato, ebbi occasione di dire qualcosa sulla ricerca da me effettuata qualche tempo fa, insieme con l’etnologo prof. DE MARTINO, e con altri studiosi italiani, sui cosiddetti maghi-guaritori della Lucania. Il vasto materiale da noi raccolto sarà oggetto di una pubblicazione scientifica – dopo che qualche elemento di esso è già stato reso noto sia dal DE MARTINO che da me e da altri in varie pubblicazioni parziali. Qui vorrei limitarmi a menzionare in qual modo a mio avviso si situi la figura del guaritore nelle coordinate culturali del contado lucano e della sua popolazione. Premesso che si tratta di un’area economicamente depressa e culturalmente arretrata, mi è apparso chiaro che il male e la malattia, nelle campagne lucane, assumono spesso caratteristiche e connotazioni che corrispondono solo in parte a quelle delle nostre zone più progredite. Vi è un ordine di fenomeni patologici, o psicopatologici, che sono evidentemente vissuti dall’interno come “male” più in un senso morale che in quello della nostra medicina universitaria. Al “male” inteso in tal guisa vengono attribuite origini svariate: si tratta qualche volta di fattura o di malocchio; altre volte di una sorta di punizione per cattivi pensieri avuti, o per azioni che non si sarebbero dovute compiere e a volte, ancora di presunti interventi di entità maligne, operanti per proprio conto, o scatenate da stregoni e fattucchiere. Date le anzidette caratteristiche e componenti psicologiche del terreno su cui sorge questo o quel “male”, è chiaro che in vari casi un intervento possa esser chiesto al mago o al taumaturgo, preferibilmente che non al medico. Ed il mago può inserirsi autorevolmente in processi o in situazioni di malattia, delle quali è arduo dire quali siano le componenti psicologiche, dove queste diano luogo a situazioni di pertinenza di una rozza psicoterapia, e dove sfocino in sindromi psicosomatiche, originando e alimentando vere malattie organiche. In ogni modo, come si è detto, il guaritore a questo punto interviene sia nel senso di un “pronto soccorso” psicologico e psicoterapico a favore d’individui in evidente crisi, sia in quello di chi sa e può magicamente contrastare le oscure forze del “male”, sia, infine, nel senso di chi ha la facoltà di “scaricare” il soggetto da ciò che lo opprime, assumendolo in proprio, ed esimendo il paziente dai sensi di responsabilità e di colpa. Ho visto operare uno dei più famosi maghi lucani: e non posso dimenticare la frase ch’egli rivolgeva al cliente, dopo essersi fatto spiegare ciò di cui questi soffriva e si lamentava, e dopo avergli dato amuleti, o fatto recitare formule particolari: “Va – diceva – e non te ne incaricare” (nun te n’incarricà). Si aveva proprio l’impressione che egli volesse, in tal modo, “assolvere” il paziente, togliendogli metaforicamente un “peso” psicologico e morale, il dantesco, grave “incarico” del male e della sofferenza. Forse il risultato più importante della spedizione etno-psicologica in Lucania è stato proprio quello di aver reso possibile un nuovo inquadramento teoretico e metodologico del problema del “guaritore delle campagne”, diverso da quello dei “guaritori cittadini”, ma che presenta alcuni elementi in comune con questo.
Nelle campagne lucane – e la dichiarazione è probabilmente valida anche per altre aree similari – il cliente va dal guaritore ogniqualvolta ritiene che ciò che gli accade, o che accade ad un suo caro, appartiene ad un ordine di fenomeni rispetto ai quali la persona che “sta fuori” – fosse anche il più grande medico vivente – non comprende e non può nulla. Questi fenomeni vanno dal malocchio alla fattura, dal mal di capo di origine sospetta alla sterilità femminile o alla mancanza di latte, dallo spostamento inesplicabile di oggetti in casa al deperimento del bestiame.
Qualche volta i confini si allargano, e c’è chi invoca l’intervento del mago per una nefrite acuta o per una osteomielite. Ma il mago, quasi sempre, in tali casi manda dal medico, o si dichiara impotente.
Ma il medico – e tanto più quanto più è abile – appare al contadino lucano come un essere quasi incomprensibile, mentre il linguaggio e le tecniche del mago non gli destano alcuna sorpresa. Proprio il contrario di quel che proverebbe un cittadino al quale si dicesse, con aria di certezza, che tutti i sistemi medici cui è abituato sono stati surclassati da un taumaturgo infallibile!
Insomma: il mago è, entro certi limiti, il medico delle campagne e il medico gli appare un po’ come a noi il mago.
Ma se così è, risulta sempre più spiegabile che il vasto materiale raccolto in Lucania ci abbia obbligati a rivedere molte concezioni. Lo psicologo ed il medico non possono, al contatto con quel materiale, non riferirsi continuamente ad un quadro ideologico nel quale la nozione di “malattia” è diversa dalla nostra e nel quale, pertanto, lo stesso strumento diagnostico va tarato e modificato; nel quale certe strane cose debbono venir giudicate non già secondo i nostri abituali criteri di ciò che è normale e di ciò che è patologico o psicosomatico o fors’anche paranormale, ma secondo quelli di chi sa che una data “orazione” sconfigge il male, un “male” per larga parte, come si è detto, morale, spirituale, immateriale!
Una zona come quella della Lucania è certo fra le più indicate per studiare il problema dei “guaritori”, che nelle nostre grandi città è tanto sovente sovrastrutturato, e reso più complicato da elaborazioni culturali: – scientifiche o pseudoscientifiche. Il senso diverso, certe caratteristiche psicologico-mistico-morali che la malattia assume sovente per l’individuo colpito, sono, nel contadino lucano, bene spesso a livelli quasi coscienti – il che non si verifica quasi mai nel “cittadino” più o meno colto, che si reca dal mago con targa chiedendone l’intervento contro un’artrite o una paresi. Tuttavia non v’è dubbio, secondo me, che nell’inconscio del laureato cittadino si svolgano press’a poco gli stessi conflitti, drammi e processi psicologici di cui l’analfabeta lucano può esprimere aspetti e figurazioni molto più prossimi ai relativi contenuti essenziali.
Come si vede, in questo avvicinamento al problema dei guaritori io mi sto occupando assai più della posizione, della personalità e di ciò che in genere si svolge nell’animo del cliente, che non delle doti o facoltà vere o presunte del mago di Acerenza o di quello di Gallarate. Ritengo, infatti, che l’avvicinamento tradizionale alla questione sia stato quasi sempre unilaterale e male impostato – un po’ come avveniva allorché si credeva di poter comprendere qualche cosa del mesmerismo o dell’ipnosi cercando di misurare il preteso “fluido” magnetico, o di scoprire in che cosa consistessero le doti di fascinazione dell’ipnotizzatore.
Oggi tutti sanno che quello dell’ipnosi è un problema psicofisiologico del soggetto che si fa ipnotizzare, e che l’ipnotizzatore non è che un personaggio più o meno adatto ad incarnare una immagine interiore – e largamente inconscia – appartenente allo psichismo del soggetto stesso, e che questi può così “proiettare” sull’altro. Analogamente dobbiamo, mi sembra, chiederci in primo luogo che cosa si agiti nel profondo di chi va dal guaritore – ammettendo a priori che questi possa avere qualche tratto particolare di autorevolezza, di fiducia in se stesso, e di rapida presa di contatto con chi gli si rivolge, ma lasciando per ora nel limbo delle ipotesi l’idea che dal suo organismo possano sprigionarsi – come alcuni credono – energie fisiche tuttora ignote alla scienza. L’insistere in questa idea, lo abbiamo detto, non ha approdato sinora a nulla di conclusivo, e ha praticamente impedito, per giunta, di capir meglio che cosa succede o può succedere tra guaritore e cliente, a livelli psichici interpersonali alquanto profondi.
E quel che succede, in sostanza, non è che l’ingrandimento quantitativo di ciò che sempre succede, inconsapevolmente e a piccole dosi, tra paziente e medico: ossia la “proiezione”, sulla persona del terapeuta, dell’immagine arcaica del taumaturgo e del mago – e cioè, in sostanza, di una imago paterna dotata di una quasi onnipotenza. Non dobbiamo dimenticare che la medicina si è separata dalla magia in tempi non poi lontanissimi, e che in vaste aree culturali, ancor oggi, medico e mago sono una persona sola. Se è vero che nella cultura occidentale, e sul piano della coscienza, la distinzione è per lo più chiaramente accettata, troviamo tuttavia residui di tale impostazione nel rapporto fra paziente e medico in molti atteggiamenti emozionali di persone anche adulte e colte, le quali spesso, di fronte al medico, si attendono, o addirittura invocano, non già la cura – nel senso concreto e scientifico del termine – bensì, in sostanza, il miracolo!
Trattando del potere della “fede”, in tutti i suoi aspetti, nei meccanismi di ristabilimento, uno studioso francese, il prof. TOCQUET, scrive giustamente che il fatto che la fede primitiva sia stata dimenticata (e per “fede” noi possiamo intendere un atteggiamento fideistico primitivo, e rimosso dalla coscienza, non già necessariamente un “credo” religioso) “non ha alcuna importanza. Essa sopravvive nelle profondità dell’inconscio, dove, appunto, si elaborano i processi che salvano…”.
Ma dobbiamo ora onestamente convenire che a questa esigenza, a questa “carica” emozionale che tende ad investire, anche se per lo più non coscientemente, la figura del terapeuta, la medicina moderna dà, sovente, ben scarso appagamento. Abbiamo esempi estremi di questa “spersonalizzazione” del rapporto medico-ammalato in certe cliniche d’oltre oceano dove il paziente è considerato poco più che come l’oggetto di una serie di esami di laboratorio, e riceve infine una scheda nitidamente stampata, con diagnosi, prognosi e prescrizioni. Spesso, come scrive un noto medico francese, il Dott. PIERRE WINTER, l’eccessiva specializzazione e meccanizzazione della terapia “isola l’uomo malato dal resto del cosmo, e un organo dal resto del corpo; lo si taglia per così dire in pezzi, con l’idea di poterlo, così, meglio studiare e curare”. Il bisogno inconscio di “proiettare” sulla persona del medico l’immagine del genitore onnipotente, del mago, del taumaturgo, rimane, così, totalmente insoddisfatto.
Esiste dunque una vasta zona, nei moderni rapporti fra medici e ammalati, di “carenza emozionale”, tanto più vasta e profonda, beninteso, quanto più è incolto e primitivo il pubblico dei pazienti, ma anche quanto più tende a farsi meccanico e gelido l’intervento curativo. In questa zona s’inseriscono, rispondendo spesse volte a una autentica, anche se non razionale, domanda dell’animo umano, i guaritori: i quali costituiscono in tal modo – come li ha definiti acutamente uno studioso francese, il COLINON – “gli odierni depositari dell’interpretazione mistica della malattia”.
Domandiamoci ancora a questo punto: possiamo noi escludere che il rapporto personale, emozionalmente “caricato”, fra paziente e terapeuta, abbia un’efficacia reale e concreta nei meccanismi che presiedono al processo di guarigione? A me sembra che non sia lecito accettare un’idea come valida, e poi accantonarla quando diventa scomoda; e che non sia lecito ammettere l’efficacia di una componente psichica, o comunque non organica, non materiale, nelle cure psicosomatiche, ipnosuggestive o spirituali di malattie anche organiche, e respingere a priori l’idea che un medicamento x, o un trattamento y, possa avere ben diversa efficacia se somministrato, anziché da un distributore automatico o da un robot, da una persona umana, o comunque in un clima di caldi rapporti interpersonali. tale da sollecitare e galvanizzare su piani profondi, le riposte energie psicobiologiche dell’uomo.
Due medici canadesi, autori di saggi di primo piano, i dottori OSMOND e SMYTHIES, non esitano a dichiarare che “vi è un’abissale differenza tra il fatto che un paziente sia curato da un medico che creda di aver dinnanzi a sé una personalità spirituale, con un destino trascendente da realizzare, o da un medico che creda che gli esseri umani sono involucri di automatismi fisico-chimici, e che il paziente è andato a consultarlo perché c’è in tali suoi automatismi un guasto di ordine meccanico…”.
Personalmente, io non ho alcun dubbio al riguardo, così come non lo hanno molti medici i quali, magari in camera caritatis, riconoscono di aver assistito a fenomeni di alleviamento o scomparsa di malattie organiche, non spiegabili se non con lo scatenamento di processi psicosomatici di ricupero, eccitati ben più da fattori psichici, che non dai rimedi farmacologici dati alcune volte semplicemente pro forma!
Ecco perché, come io stesso ho avuto occasione d’indicare in qualche scritto anche recente, il problema dei guaritori non si risolve semplicemente dando loro l’ostracismo, o processandoli per esercizio abusivo della medicina. Prima di addivenire a giudizi, campagne o provvedimenti, sarebbe necessario che medici, sociologi e legislatori affrontassero la questione con l’aiuto di psicologi e psicoanalisti bene informati. Ci si renderebbe conto, allora, che il primo quesito da risolvere – e non già superficialmente o sbrigativamente – è quello relativo al perché tante persone, anche delle classi elevate e colte, diventano clienti di guaritori. A tale domanda, lo abbiamo visto, non si può più rispondere né con definizioni di comodo – superstizione, entusiasmo irragionevole, ecc., che non spiegano un bel nulla, né accontentandosi di ammettere – ed è già per certuni una notevole ammissione – che il guaritore esercita sul proprio cliente un potere suggestivo, tale qualche volta da agire sul suo stato d’animo, o su sintomi lievi di disturbi non organici. Suggestione? Certamente, e largamente! Ma che cos’è la suggestione, se non la ricerca soprattutto inconscia, e l’accettazione, di qualche cosa o di qualcuno che agisca potentemente su un problema che è in noi, ma che è per noi stessi inaccessibile? E perché assegnare a tale azione – qualunque nome vogliamo darle – limiti precisi e a priori, dopo tutto ciò che abbiamo appreso e veduto negli Istituti di psicosomatica, o in qualche santuario famoso, o negli allucinanti abitacoli dei guaritori lucani? Perché, infine, la proiezione dell’immagine del genitore mago si esercita, a un certo punto, più sul guaritore che sul medico? Queste sono le domande a cui si dovrebbe innanzi tutto rispondere: e se le risposte sono quelle che abbiamo cercato d’indicare, la conclusione non può essere che una: il problema dei guaritori è il problema stesso della guarigione; e sintantoché nella moderna terapia non si sarà fatto maggiormente strada il principio secondo cui la guarigione non si può ridurre a un semplice processo materiale e biochimico, seguiterà ad esserci, accanto al medico – homo sapiens –, il guaritore, in cui la gente vuol vedere, ha bisogno di vedere l’homo divinans, il mago originario, l’incantatore della tribù. Spetta dunque secondo me in primo luogo al medico avvertito cercar di ricuperare in qualche modo, attraverso autentiche operazioni psichiche di riassorbimento, e non già con finzioni o messe in scena, qualche tratto dell’“uomo che guarisce” – figura altrettanto importante, per l’inconscio umano, quanto quella dell’uomo che diagnostica o che prescrive specialità farmaceutiche. Al limite, i guaritori si troverebbero soppiantati da individualità ben altrimenti integrate e preparate; giacché non dimentichiamolo: se è vero che la figura del guaritore s’inserisce con una sua funzione precisa in un contesto storico e psicologico che in qualche modo la spiega e la giustifica, non è meno vero che nella classe e nella pratica dei guaritori hanno, ahimè, sin troppo largo posto l’errore, la faciloneria, l’ignoranza, la teatralità, l’imprudenza terapeutica, spesso, come è ben noto, l’imbroglio e la truffa. In merito a questi lati, molto pratici e concreti, purtroppo, del problema, ben s’intende che non potrebb’esservi giudizio se non di aperta, severa condanna.
Ma più ancora che una differenza di ordine culturale, professionale e legale, giova sottolineare la differenza sostanziale, di ordine psicologico, e psicodinamico, che corre fra il guaritore e il terapeuta il quale abbia in qualche modo ricuperato e riassorbito in sé gli aspetti tradizionali e profondi del “medico integrale”. Il primo tende a mantenere il paziente a un livello magico, e a distoglierlo in permanenza dalla razionalità: il secondo mette in comunicazione e in osmosi livelli di personalità prima disgiunti, ma non esclusivi – come chi aprisse dei canali d’irrigazione ben sapendo che il risultato finale da raggiungere è la fertilizzazione del terreno, e non già il suo allagamento!
Dobbiamo ammettere, comunque, che lo studio approfondito, per linee psicologiche, psicodinamiche e psicosomatiche delle cosiddette cure non ortodosse è appena agli inizi. Ricercatori e gruppi di studiosi pieni di buone intenzioni, ma a mio avviso completamente fuorviati quanto a impostazione metodologica – hanno cercato di sottoporre i più svariati tipi di ammalati a questo o quel guaritore, e di verificare se e quanto il suo intervento avesse in realtà giovato. Secondo me, queste sono ricerche pressoché inutili, se non si accompagnano a uno studio alquanto in profondità della situazione e dei tipi psicologici dei pazienti in esperimento, e dei singoli rapporti binomiali guaritore-paziente che, si vengono via via determinando. Un primo tentativo in questo senso è stato fatto recentemente in Germania, sotto gli auspici del Policlinico dell’Università di Friburgo. Gli studiosi tedeschi non si sono accontentati di sottoporre a un noto guaritore ben 650 soggetti, in una investigazione durata 14 mesi; ma hanno introdotto nella ricerca una prima classifica di tipi, e di atteggiamenti psicologici, dei pazienti che si sono prestati all’esperienza. L’introduzione di questo criterio riveste, a mio avviso, importanza scientifica assai più grande che non la semplice conclusione statistica, secondo la quale, a chiusura dell’esperimento, il 52% dei pazienti hanno denunciato miglioramenti riconosciuti come soltanto soggettivi, mentre non si è avuta se non una piccola percentuale di miglioramenti obiettivi. Queste cifre, o altre, non provano e non potranno provare mai nulla, se non vengono messe in relazione con parametri psicologici sufficientemente accertati e precisi, relativi allo specifico rapporto interpersonale in giuoco.
Da tutto ciò che abbiamo visto e detto sinora, appare chiaro che nel considerare sia l’insorgenza, sia il processo di risanamento, di ogni e qualsiasi malattia, non è più possibile prescindere da una componente psicologica. L’uomo è nel suo assieme una “unità psicosomatica”, e un medico-sacerdote, l’illustre gesuita Padre ORAISON, ha scritto che “anima e corpo, se sono realtà molto diverse, non sono separati, e sono ancor meno separabili per uno studio obiettivo dell’uomo nella sua complessità”. Sulla sua stessa linea, diremo che la continuità dinamica nei rapporti psiche-soma (lasciamo pure da parte l’“anima” in senso teologico) fa si che l’essere umano reagisca molto più che non quello animale a ciò che non è né meccanico, né razionale, e che possiamo chiamare, a seconda dei casi, psichico, emozionale o spirituale. Ma ricordiamo sempre che quando diciamo “psichico” non intendiamo dire “cosciente”. Tutte le influenze, tutti i processi di cui abbiamo parlato sinora si svolgono per grandissima parte non già nella luce chiara dello psichismo descritta dalla psicologia classica, bensì nella zona oscura o in penombra dell’inconscio affettivo – quell’inconscio di cui FREUD fu il primo a intraprendere lo studio sistematico, quell’inconscio che non si può descrivere secondo le coordinate del pensiero cartesiano. Per poter modificare il suo atteggiamento essenziale di fronte alla malattia, occorre dunque che il moderno terapeuta faccia in primo luogo una discesa in se stesso, riesca a modificare almeno in parte l’atteggiamento spontaneo, aprioristicamente “cartesiano” e razionalistico, che suole prendere dinnanzi al paziente. Un esempio per tutti: ancora non molti anni fa, qualsiasi medico, di fronte a un’ulcera gastrica, avrebbe senz’altro prescritto medicamenti o, in certi casi, suggerito un intervento chirurgico. Oggi non è più tanto raro il caso in cui il medico internista, o lo specialista in malattie dell’apparato digerente, si preoccupi di approfondire in primo luogo, ricorrendo magari allo psicologo o allo psicoanalista, se e quali inconsapevoli ansietà, mantenute sia a causa di una mancata risoluzione di conflitti psichici di fanciullezza o di adolescenza, sia per una situazione esistenziale in atto, diano luogo alla malattia. L’alternativa, in tali casi, non si pone più soltanto fra specialità farmaceutica e bisturi, ma si articola nel senso di altri trattamenti come cure di sonno, psicoterapia semplice o psicoanalisi – con risultati spesso migliori, più solidi e permanenti.
Non si tratta dunque di avere un atteggiamento “umano” con gli ammalati, o di “dar prova di psicologia”, come si dice nei discorsi d’ogni giorno. È in causa – come dichiara anche il Padre ORAISON – “la stessa concezione della malattia”: della malattia come esponente di coordinate psicologiche individuali e collettive, e della guarigione come reinserimento dell’individuo totale nel sistema di coordinate che gli pertiene, attraverso un’opera che direttamente o indirettamente sarà sempre, in un modo o nell’altro, anche non fisica, non materiale e non razionale – ossia, in senso lato, psicoterapica.
Abbiamo accennato a coordinate psicologiche collettive – ossia culturali. Non si può infatti prescindere, una volta riconosciuta la componente psicologico-emozionale, soprattutto inconscia, nella struttura della malattia, e una volta ammesso che la guarigione consiste in un “ridimensionamento” di tutta la personalità, con inclusione obbligatoria anche di tale componente – non si può, dicevo, ignorare che la personalità dell’individuo singolo è in parte almeno il portato e il prodotto dell’area di cultura in cui è nato e vissuto. Se il significato profondo di ciò che è malattia, di ciò che è guarigione, varia a seconda dei singoli tipi umani, si hanno varianti altrettanto cospicue da zona a zona, da latitudine a latitudine, da continente a continente. La cosa, in se stessa, non riveste carattere di scoperta, perché chiunque sa che l’incidenza e la percentuale di certe malattie varia enormemente a seconda che si consideri, ad esempio, l’Europa o l’India, l’America o la Cina. Il fatto è che in genere, coloro che si occupano dei problemi della sanità mondiale, e delle diverse malattie nei diversi Paesi, tendono – al solito – a considerarli esclusivamente in termini d’igiene, di profilassi, di alimentazione e di epidemiologia. La semplice idea che forse fattori diversi da quelli igienico-sanitari o epidemiologici possano anch’essi influire sul prevalere delle malattie infettive nei Paesi orientali, o dei disturbi da stress, psicosomatici e neuropsichici nel mondo occidentale, è tale da sollevare reazioni di incredulità e quasi di sdegno in vari ambienti responsabili. C’è voluto il coraggioso libro di un illustre terapeuta inglese, il Dott. ARTHUR GUIRDHAM, per richiamare l’attenzione di parecchi medici, igienisti, psicologi e sociologi su questo affascinante aspetto del nostro tema: la malattia, e la guarigione, considerati dal punto di vista del loro condizionamento culturale, filosofico e religioso.
Il GUIRDHAM parte, in sostanza, dal punto in cui noi stessi siamo arrivati in questo nostro excursus: cioè da una tesi secondo cui è ormai indispensabile in una considerazione moderna della malattia, tener conto dei parametri psicologici della personalità totale. È chiaro perciò che la configurazione finale della struttura patologica varierà a seconda dell’atteggiamento psicologico conscio ed inconscio dell’individuo nei riguardi di se stesso, del suo corpo, della sua vita di relazione e della sua posizione esistenziale. Secondo il GUIRDHAM, quanto più l’individuo è occupato e preoccupato di sé, ossia “consapevole” – non già in un senso filosofico e superiore, ma nel senso di un frequente ed ansioso “guardarsi vivere”, autosorvegliarsi, – tanto più esso si predispone alle tipiche malattie dell’“uomo moderno”: quelle nervose e mentali e quelle psicosomatiche. Queste sarebbero in sostanza, malattie “innaturali”, dovute a una speciale conformazione della personalità umana, che è dotata di coscienza speculare, e in cui il curvarsi dell’uomo su se stesso può assumere forme distorte e ipertrofiche. Più “naturali” sarebbero invece le malattie infettive e quelle cosiddette “terminali”, in quanto proprie di tutto ciò che è, al tempo, stesso, vivo e perituro. Ciò premesso, è abbastanza ovvio constatare che la posizione globale che l’individuo assume verso se stesso si può definire e classificare, assai meglio che nell’ambito di una stessa cultura, confrontando grandi e diverse aree umane, e ponendo mente ai relativi atteggiamenti, soprattutto spontanei, d’ordine religioso o genericamente filosofico. Vediamo così, sia pure per grandissime linee, cospicue differenze, nella posizione globale verso se stessi e verso la vita, degli indù, ad esempio, rispetto ai cristiani, o di questi rispetto ai buddisti. Non v’è dubbio che in vaste zone dell’oriente il grado e il tipo della “consapevolezza di sé”, nel senso indicato, siano infinitamente minori che non in occidente; e di ciò va tenuto conto in una valutazione non puramente materialistica dell’incidenza delle rispettive malattie dominanti. A rischio di generalizzare, ma per amor di verità, si potrebbe dire che nell’orientale, la comunicazione, la “comunicazione” con le forze elementari del bios è più immediata e diretta: il che lo espone di più, a tempo e luogo, alle forme più semplici di “anti-bios”, come le malattie infettive – ma lo preserva per contro maggiormente nei riguardi dei disturbi da stress, neuropsichici e psicosomatici, e in genere da quelle malattie anche organiche nelle quali è più saliente la parte eziopatogenetica svolta dall’apparato psichico e dal sistema nervoso. Non è certo per caso – vien fatto di osservare col GUIRDHAM – che per la medicina occidentale, ormai, siano le sole infezioni che riguardano il sistema nervoso a costituire un grave problema. Le altre malattie infettive ci preoccupano molto meno: ma non possiamo dire altrettanto, ahimè, di tante forme neurologiche a carico della personalità psicofisica, contro le quali l’uomo moderno va combattendo in modi non sempre, adeguati, e spesso, come abbiamo visto, unilaterali e monchi. È un fatto che se prendiamo in esame alcuni stati o condizioni, in cui per un motivo o per l’altro appare tipica l’assenza di quell’auto-consapevolezza, di quella preoccupazione di sé cui abbiamo accennato, troviamo che a tali stati ben raramente si accompagna una situazione di malattia. Nel periodo prenatale, il nascituro vive in strettissima simbiosi con la madre, ne condivide il sangue, e la temperatura – ma non ne condivide in alcun modo la consapevolezza, il “senso del sé”. Non è suggestivo pensare che proprio in relazione a, questo fattore siano relativamente assai rari i casi di morte del feto nell’utero se non in seguito a traumi, e altrettanto rari quelli di bambini i quali, alla nascita, presentino segni pregressi di malattie intra-uterine? All’altro estremo della vita troviamo – ed è un’ulteriore acuta osservazione del GUIRDHAM – una notevole “semplificazione” delle cause di malattia – fatto che l’illustre medico britannico mette in rapporto con la diminuita potenzialità di auto-osservazione, la maggior rassegnazione, e spesso un graduale armonizzarsi con idee di estinzione e di immobilità. I vecchi sono largamente immuni da parecchie malattie – a meno che non le abbiano contratte in età precedenti; e una loro frequente, dolce malinconia è ben altra cosa della psicosi melancolica dell’uomo di età ancor giovanile, torturato dalle auto-accuse, e dal senso del proprio totale fallimento. Infine, consideriamo alcuni stati eccezionali – spirituali, ascetici, mistici. È stato osservato da molti che in periodi in cui è particolarmente necessaria la loro presenza, i medici animati dal senso profondo della propria missione, obliosi di sé, tutti volti a soccorrere i loro simili, ben raramente vengono colpiti dalle stesse infezioni epidemiche contro le quali continuamente combattono, e alle quali sono esposti per molte ore della giornata! E che dire della condizione – così come ci viene descritta – di taluni estatici o mistici, la cui persona appare inattaccabile rispetto a qualsiasi forma di “male”, in quanto tutta rivolta e perduta in qualche cosa che la trascende, e per cui virtualmente essa si annulla?
Come quasi sempre avviene, l’introduzione e l’applicazione in terapia di alcune delle idee che siamo andati svolgendo è in parte già in atto, e in guisa perfettamente cosciente; in parte si esplica in forme indirette e inconsapevoli, ma assai suggestive per chi sappia adeguatamente valutarle. Interessanti sembrano, in particolare, due fattori: il graduale allontanarsi dei medicamenti dalla qualifica, un tempo ricercata ed ambita, di “specifici” – per cui oggigiorno, ad esempio, si prescrive lo stesso antibiotico per malattie diversissime; e l’uso sempre maggiore dei tranquillanti – non soltanto, come è ovvio, negli stati di ansia o di tensione psichica, ma per l’emicrania, il morbo di MENIÈRE le varie dispepsie, l’asma, certe dermatosi o la fibrosite. Non sono, questi, segni indicatori del fatto che magari senza rendersene ben conto, una parte della medicina attiva comincia a orientarsi nel senso di far leva, per eccitare meccanismi di ricupero e di guarigione, molto più sui fulcri neuropsichici della personalità di quanto si sarebbe fatto, poniamo, venti o trent’anni or sono?
Sia come sia, le vie della guarigione intanto ci appaiono “oscure”, in quanto implicano in ogni caso – si tratti di nevrosi o disturbi funzionali, di un semplice raffreddore come di una cardiopatia – un ridimensionamento della personalità totale a tutti i livelli: il che vuol dire che l’inconscio è sempre, in causa, con le sue infinite possibilità negative o positive d’essere influenzato e di influenzare, e di venire in certi casi dinamizzato, quasi oltre il concepibile, da energie e interventi niente affatto materiali. Quando noi psicoanalisti diciamo che un numero considerevole di disturbi della personalità può essere risolto attraverso un lavoro d’integrazione e di auto-realizzazione, non intendiamo affatto significare che al termine del lavoro psicoanalitico, l’individuo sia in un atteggiamento di maggior sorveglianza cosciente, rispetto a se stesso, ai suoi atti psichici, e alle sue esperienze di relazione. Al contrario! La persona che è uscita con successo da una psicoanalisi ha, in un certo senso, minore consapevolezza di sé, procede più fusa e sintonizzata nel senso stesso della vita, si lascia permeare e portare da forze e moti rispetto ai quali aveva, prima, eccessivi sospetti, ansie e irrigidimenti… È verso questo tipo di armonizzazione vitale che tende, in sostanza, tutto ciò che milita nel senso della guarigione – il cui processo, in ultima analisi, si potrebbe definire come un “ritrovarsi” nell’atto stesso e per il fatto stesso che ci si perde.
Saremmo alquanto ottusi e dogmatici se non ammettessimo che questa esperienza essenziale, che consiste nella rinunzia a certi valori correnti della personalità, in favore di ciò che il GUIRDHAM chiama “il Voi che è Non-Voi”, possa svolgersi soltanto nei limiti e nelle coordinate della psicoanalisi freudiana. L’esperienza umana trascende e ricomprende ogni formula: e perciò dobbiamo ritenere opportuno, anche per chi sia convinto della fondamentale validità della psicodinamica analitica, rendersi conto delle molte forme che può assumere l’allentarsi di certe strutture, la presa di contatto con dimensioni profonde dell’essere, e i valori rispettivi di tali varietà d’esperienza in sede terapeutica e nei processi di guarigione. Il GUIRDHAM, ad esempio, non ha alcun dubbio sul fatto che a certi livelli psichici in cui lo stesso concetto di individualità separate sembra dissolversi, possono avvenire quei fenomeni di comunicazione interpersonale di contenuti psichici, più noti sotto il nome di accadimenti telepatici o di percezioni extra sensoriali. Concetto, questo, che chi vi parla ha sottolineato in tutta una serie di lavori già da molti anni, e che qui richiamiamo soltanto perché esso dovrà forse esser preso in maggior considerazione in avvenire non soltanto in sede psicoterapica – come già si è cominciato a fare – ma per quanto riguarda quella famosa teoria integrale della guarigione che qualcuno, un giorno, dovrà pure decidersi a formulare ed a scrivere! Nel 1954 ebbi l’onore di aprire, quale presidente, una Conferenza internazionale sulle cosiddette cure non ortodosse; e in quella occasione manifestai il parere che se la psicoanalisi e la medicina psicosomatica avevano indicato che la malattia è il prodotto di molteplici fattori, inerenti anche allo psichismo conscio ed inconscio dei pazienti, non potevamo dimenticare che nei processi di guarigione intervenivano rapporti interpersonali, oppure tra persona ed ambiente, che in simili rapporti e quadri il cosiddetto “elemento psi” – ossia l’emergenza di percezioni extra sensoriali – non poteva a priori essere escluso. Nel quadro della psicoterapia analitica, già parecchi specialisti hanno indicato, commentato e cercato d’interpretare eventi del genere. Per quanto riguarda le “oscure vie della guarigione”, si tratta di una possibilità ulteriore, di un altro spiraglio su un mondo che ci appare, da un lato, sempre più complesso, ma che dall’altro siamo oggi in grado di meglio apprezzare, data la graduale revisione in atto dei nostri stessi strumenti di misura valutativa, di comprensione intima e di giudizio. Appare oggi, con crescente evidenza, che gli stessi fenomeni parapsicologici fanno parte di quel serbatoio collettivo di energie ancestrali, cui l’individuo, in vari modi e misure, sembra attingere allorché “vive” l’esperienza del proprio risanamento.
Signore, e signori, ho finito. L’annunzio e l’auspicio che mi sembra si possano ricavare da quanto noi siamo andati esaminando sono quelli di un lento spostamento, già in atto, del nostro stesso modo di sperimentare le categorie del male e della guarigione. Se ciò che in parte vediamo, e in parte anticipiamo, è vero, assisteremo a una progressiva “reintegrazione a largo raggio” di dimensioni psicologiche e spirituali nell’opera terapeutica, e ci riaccosteremo, con altra mentalità e altre conoscenze, alla concezione che indicava S. Agostino, allorché diceva che infine, star male significa “essere incompleti”, e che la guarigione suprema consiste, in fondo, nel riacquistare la perfetta unità.
Emilio Servadio