Nuove vedute e controversie sul problema della femminilità
Conferenza tenuta all'”Associazione per il progresso degli studi morali e religiosi”, Roma, 25 luglio 1954
Annali di Neuropsichiatria e Psicoanalisi, Anno I° n°3 – Luglio- Settembre 1954
La recente pubblicazione di varie opere scientifiche o para-scientifiche, e il periodico apparire di spunti e notizie più o meno sensazionali nella stampa a grande tiratura, hanno fatto convergere nuova attenzione sul problema della femminilità. Si tratta, come tutti sanno, di un problema vecchio quanto il mondo ma per motivi che cercheremo di chiarire fra breve, si ha l’impressione che solo ai nostri tempi si sia veramente aperta la possibilità di investigarlo con un minimo di preconcetti e senza troppi invisibili ostacoli di ordine emozionale.
Le difficoltà che ci si presentano sembrano aumentare via via che ci allontaniamo dai fondamenti anatomici della differenziazione tra i sessi e cerchiamo di considerare che cosa caratterizzi la femminilità in sede biologica, fisiologica, endocrinologica, ed infine psicologica. E già l’anatomia ci lascia talvolta perplessi non tanto l’anatomia umana, o dei mammiferi superiori, presso i quali non si può a rigore parlare, anatomicamente, di stati intersessuali se non con riferimento a tratti e caratteri secondari, e dove sono estremamente rari i casi di apparente ermafroditismo che lascino sussistere dubbi nella mente degli specialisti: ma presso gli animali inferiori, dove, come è noto, il concetto di intersessualità anatomo-fisiologica, naturale o sperimentale, non solleva più alcuna meraviglia.
Anche nella specie umana, d’altronde, i rudimenti di una bisessualità anatomica sono stati riconosciuti sin dai primordi della storia dell’anatomia, ed è certo superfluo ricordarli. In sostanza, se è possibile, biologicamente, definire quasi sempre con sicurezza la maschilità o la femminilità umane, questa sicurezza si attenua o scompare se ci rivolgiamo a talune specie animali e si complica di innumerevoli «se» e «ma» se ci addentriamo nei labirinti dell’endocrinologia o se ci ricordiamo che l’uomo è un’unità psico-somatica se rivolgiamo cioè la nostra attenzione alla maschilità e alla femminilità in senso psicologico.
Il problema – dicevo – non comporta soltanto difficoltà obiettive. Tutti sappiamo ormai che nei più svariati settori dello scibile, la ricerca scientifica è stata molte volte ostacolata da barriere che non erano intrinseche alla materia studiata, ma interiori all’uomo – anche se l’uomo le proiettava fuori di sè in questo o quel «non devi» o «non puoi » di tipo ideologico: religioso, morale o altro. Le esplorazioni geografiche furono ritardate dal «non plus ultra» delle Colonne d’Ercole; gli studi di anatomia dall’idea che essi comportassero la profanazione dei cadaveri; quelli di astronomia dal preconcetto geocentrico; quelli di antropologia da un’interpretazione letterale del testo biblico; in psicologia, la difficoltà di ammettere che una buona parte dei processi psichici si svolge di regola fuori del campo della coscienza, costituisce ancor oggi, perchè sentita come lesiva dell’autorità dell’lo, un grave motivo di resistenza alla psicoanalisi. Nel settore che qui c’interessa, gli ostacoli sono stati dovuti a diversi fattori. In primo luogo, le indagini sulla femminilità, e quindi sulla sessualità femminile, sono state colpite dai «tabù» che sino a non molti anni fa investivano tutto il campo della sessuologia: «tabù» che, sebbene attenuati, sono tutt’altro che scomparsi anche in aree culturali che si definiscono « progredite». E se era tutt’altro che agevole, ancora pochi decenni or sono, discutere dei problemi della sessualità maschile, quelli che riguardavano la donna erano terreno doppiamente proibito.
Proibito, si noti, o soggetto a ogni sorta di limitazioni, non soltanto per gli uomini, ma anche, e più ancora, per le donne: il cui contributo agli studi che le riguardavano tanto direttamente è stato, così, per lungo tempo, poco meno che zero.
Che cosa si poteva sperare di apprendere, sulla femminilità, nel quadro di una società in cui la donna, per definizione, era tenuta largamente estranea all’indagine scientifica in genere, e a quella sessuologica in particolare? Si trattava, in sostanza, di una società in cui il problema della femminilità era considerato terreno scabroso; e su questo terreno osavano perciò avventurarsi pochi individui, i quali, oltre ad essere uomini (e perciò a priori limitati nelle loro possibilità di identificazione e di empatia), recavano con sé, a malgrado dei loro onesti sforzi nei senso dell’obbiettività, le coordinate di una civiltà e di una cultura prevalentemente «virilocratiche» . Non fa dunque meraviglia che le questioni di cui oggi ci occupiamo siano rimaste per tanto tempo in una situazione nebulare, irta di approssimazioni e di contraddizioni, e se soltanto in epoca molto recente si sia cominciato a far sui serio anche in questo settore.
Uno dei primi a «far sul seri » è stato indubbiamente. Freud, che sin dal 1905, nei suoi «Tre contributi alla teoria sessuale», cercò di dare una presentazione sistematica dello sviluppo psicosessuale sia maschile, sia femminile. Questo lavoro fu seguito da parecchi altri, più o meno decisamente volti a chiarire i problemi della femminilità — sino al quinto capitolo delle «Nuove, lezioni introduttive alla psicoanalisi», apparse nel 1932. Il pensiero di Freud sull’argomento ha largamente dominato in molte trattazioni, anche di donne analiste, ed è in sintesi il seguente. Secondo Freud, anzitutto, e come è largamente noto, la sessualità femminile, al pari di quella maschile, esiste sin dalla nascita, in forme dapprima non facilmente differenziabili nei due sessi. Ma mentre la sessualità maschile si caratterizza abbastanza presto, quella femminile si configura tardivamente, dopo una serie di complicati passaggi ed alternative. L’impulso sessuale (la libido) è, nel pensiero di Freud, . fondamentalmente maschile, ed anche la bambina, nelle sue prime manifestazioni sessuali, si modella su linee maschili.
In vari tempi successivi, essa smorza e cerca di compensare il fatto di non poter essere e come un maschietto a – fatto da lei sentito come un’inferiorità -, e accetta più di buon grado una situazione di passività valorizzando ciò che è stato chiamato il e masochismo essenziale a femminile. Dopo la pubertà, la donna trova infine nell’amore oblativo e nella maternità la piena integrazione della sua femminilità biologica. Le principali difficoltà nell’evoluzione psicosessuale della bambina sono, secondo Freud e la maggioranza degli psicoanalisti, dovute alla necessità che essa ha di cambiare il primo oggetto d’amore infantile (la madre) e di sostituirlo un altro (il padre); di spostare in sede propriamente anatomica i suoi interessi ed organi esecutivi, che da prevalentemente esterni debbono diventare interni; e di sostituire la sua posizione pseudo-mascolina, iniziale, con una più passiva e più femminile, finale.
Queste le vedute di Freud, che abbiamo riassunte in modo estremamente schematico. E’ opportuno aggiungere che sino all’ultimo, Freud onestamente considerò come assai oscuri e insoluti molti problemi della femminilità, la quale per lui rimase sempre il «continente nero» della psicosessuologia; e le ultime parole della lezione che abbiamo citato manifestano un certo scoraggiamento: «Se volete sapere di più intorno alla femminilità» – scrive Freud « consultate le vostre esperienze di vita, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa darvi informazioni più precise e più coerenti » .
Vogliamo provare per qualche istante a mettere in pratica il consiglio di Freud salvo a ritornare poi sul suo e sul nostro terreno più intrinsecamente psicologico, da quale non possiamo in alcun modo prescindere? Molte «esperienze di vita» dirette o indirette possono, crediamo, contribuire ad arricchire i dati su cui dobbiamo fondare le nostre deduzioni. Guardiamoci un po’ intorno, nel tempo e nello spazio. Se si dà un rapido sguardo al passato, o a certe situazioni ancor oggi immutate in alcune parti del mondo, si deve convenire che alla donna sono stati fatti, e tuttora in parte vengono arrecati, torti gravissimi e innumerevoli, tali da giustificare, nella donna stessa, l’idea di una equivalenza fra il termine «femminilità» e quelli di inferiorità, passività, rinunzia, comprensione, sofferenza. Non scopriamo certo nulla di nuovo ricordando che nella stessa Europa, il riconoscimento esplicito e ancor esso non molto più che a parole, – dei diritti della donna, non ha neppure due secoli, e ha avuto il suo primo e non molto efficace inizio soltanto con la Rivoluzione Francese. Ancora nel XVI secolo Flavio Antoniano scriveva che la ragazza – in Europa, ripetiamo, e non già in Arabia o nel Marocco – doveva stare chiusa in casa, senza leggere o studiare se non libri religiosi, e che il padre doveva «mostrarsi alla figlia con volto severo, senza giammai sorridere». E nel XVII secolo, il semplice fatto che una donna veneta, Elena Corner Piscopi, si addottorasse in filosofia all’Università di Padova, provocò l’ira aperta del Cardinale Gregorio Barbarigo, che condannò pubblicamente quella pretesa, da lui giudicata insana. Gli stessi inviti di spiriti più liberali, come il Tommaseo, a modificare la condizione della donna, e le leggi che alcuni
Stati emanarono al riguardo, furono spesso inoperanti, e urtarono contro una tradizione e un costume i quali ebbero la loro espressione più caratteristica nel periodo che prese nome dalla regina Vittoria d’Inghilterra. Il lato più paradossale di questa situazione – lato che ancor oggi conserva un certo rilievo è il contrasto fra l’anzidetta compressione della personalità femminile in ogni sua manifestazione (particolarmente in quelle degli impulsi affettivi e istintivi) e la pretesa, nella letteratura e in tanti discorsi, che ciò costituisse il migliore e il più desiderabile stato a cui una donna potesse aspirare. Il matrimonio, che date le premesse costituiva sovente per la donna un vero e proprio naufragio psicologico e affettivo, veniva invariabilmente presentato come il supremo coronamento della sua vita, dopo il quale non v’era che un perenne, indisturbato sereno. Molti romanzi dell’epoca vittoriana terminano con la frase: «…e da allora vissero sempre felici».
C’è da chiedersi che cosa, nell’intimo delle loro riflessioni, tante mogli pensassero di quella «felicità».
Sorvoliamo sulla condizione delle donne in Oriente: condizione che spesso potrebbe far loro guardare a quella or ora descritta come a un irraggiungibile paradiso! Ricordo l’impressione che ricevetti, pochi anni fa, nella città di Bombay, considerata come la più progredita dell’India, vedendo molte donne mussulmane aggirarsi per le vie sotto una cappa bianca che le ricopriva letteralmente dal sommo della testa sino a terra – cappa nella quale solo una piccola e fitta reticella, all’altezza degli occhi, consentiva alla perenne prigioniera di vedere press’a poco dove metteva i piedi. Nè si dica che l’Oriente non ci riguarda – in questo mondo divenuto tanto piccolo grazie ai mezzi di comunicazione sempre più rapidi, e alle vicende storico-politiche a tutti note!
Queste «coordinate culturali», tacitamente accettate per lungo tempo dall’uomo e dalla donna, hanno creato il preconcetto, tuttora largamente diffuso anche in individui di elevato sapere, della donna come appendice, come oggetto di conquista, come «costola di Adamo», come «sesso debole», come elemento accessorio di un mondo patriarcale in cui l’uomo è, per definizione, il «sesso dominante», e in cui la donna è necessariamente, e definitivamente, svantaggiata; e si è giunti così sino alla famosa definizione tedesca dei tre kappa Kuche, Kleider, Kinder (cucina, vestiti, bambini) – i quali termini racchiuderebbero e limiterebbero tuttora, secondo molti, gli interessi della donna, confermandoli naturalmente come secondari ed « ausiliari » rispetto a quelli maschili, i soli veramente produttivi, nobili cd importanti.
Ci troviamo, pare, di fronte a una colossale « petizione di principio », di ordine psicologico-sociale, che ha viziato da tempo immemorabile, e rischia di continuare a viziare, i nostri giudizi anche su un piano che vorrebbe essere obiettivo e scientifico. Di un essere tenuto in una situazione di dipendenza per secoli e millenni, è stato facile dire che la passività « coincide con la sua natura »! Della donna orientale o africana, o di certe aree meridionali d’Europa, spesso ancora oggi in una condizione di schiavitù appena larvata, è semplice affermare che essa è nata per servire l’uomo, suo signore e padrone, o che va considerata addirittura come una « cosa », secondo l’espressione di un paradossale filosofo nostrano…
Freud ci consiglia di rivolgerci ai poeti. Chi vogliamo citare? L’antico Codice di Minù che mette in guardia contro le arti di seduzione attiva – attiva, si noti – della donna? O Ovidio, che parla dell’estrema violenza delle passioni femminili (dieci volte più violente di quelle maschili, secondo l’autore dell’Arte di amare)? O il veggente Rimbaud, che scriveva: «Quando la smisurata schiavitù della donna sarà infranta, quando essa vivrà per sé e attraverso sé – perchè l’uomo l’avrà lasciata libera – anch’essa, anch’essa sarà poeta!»? ……
I poeti, si dirà (e lo avrebbe sicuramente ‘detto’ anche Freud), ci illuminano se mai, e a tratti, con le loro intuizioni, ma non ci possono dare certezze scientifiche. Ebbene, rivolgiamoci alla scienza postfreudiana alla zoologia, alla bio-endocrinologia, all’etnologia, e poi nuovamente alla psicologia del profondo. Possiamo noi fondare la concezione freudiana – di una libido essenzialmente maschile, di una dominanza virile, di una femminilità contrassegnata, com’egli scrive, da mète passive – sulla biologia animale? Non pare. In talune specie animali, la femmina è di gran lunga più attiva e aggressiva del maschio; in altre, i due sessi manifestano entrambi, sia nella vita erotica che fuori di essa, comportamenti attivi o passivi a seconda delle circostanze: la leonessa non è meno a attiva del leone, o la gatta del gatto.
Lo studio più esauriente, d’ordine teorico e sperimentale, sui correlati fra produzione ormonica e psicosessuaiutà femminile, è la recente opera «Psychosexual Functions in Women», della dottoressa americana Therese Benedek. E’ interessante notare che al termine di tin lavoro durato parecchi anni, questa abilissima indagatrice conclude che nella donna, vi è essenzialmente una tendenza sessuale attiva, in relazione con la produzione di ormoni estrogeni, ed una passiva-ricettiva, in rapporto con la produzione di progesterone. E’ sin troppo evidente che se si pone l’accento della sessualità femminile solo o prevalentemente sulle manifestazioni inerenti alla maternità come è stato fatto per secoli, e come lo stesso Freud è chiaramente incline a fare – si costringe inevitabilmente la bilancia pendere nel senso della passività, e si trascura o si ignora la vera e propria «posizione attiva » (attiva, ma non già pseudo-mascolina) del ciclo sessuale femminile.
Un illustre biologo, il francese Jean Rostand, ha scritto, riferendosi agli steroli maschili o femminili, che « la femminilità e la mascolinità sono cristallizzabili ». Davvero? In verità, la vita stessa non è cristallizzabile, e le esperienze di laboratorio producono risultati molto lontani dalle nostre aspettative teoriche. Se è vero che la somministrazione di testosterone a un cappone suscita in questo animale lo sviluppo della cresta, il canto e la bellicosità del gallo, non è meno vero che Goodale ha ottenuto identici risultati innestando ai capponi non già ormone maschile, ma tessuto ovarico! Lo stesso Rostand, d’altronde, afferma che il doppio innesto di sostanze ovariche e testicolari produce non già una neutralizzazione ma una somma di effetti. Beach, nel 1941; verificò che dei topi a cui venivano iniettate dosi massive di ormoni androgeni, avevano una condotta erotica maschile o femminile, a seconda degli stimoli ambientali. Parimenti bisessuali furono i comportamenti di lucertole femmine, a cui Noble e Greenberg avevano somministrato ormoni estrogeni. Tutto insomma sembra avvenire come se la somministrazione di ormoni (maschili o femminili) avesse un solo effetto; quello di stimolare l’impulso amoroso, indipendentemente dalla loro qualità; non già quello di indurre o provocare un’attività differenziata secondo la qualità maschile o femminile dell’ormone. Tende a verificarsi cioè sperimentalmente la conclusione già indicata dall’italiano Canella : che cioè « la femminilità e la maschilità sono espressioni di un’unica funzione, sono due episodi del medesimo processo generale della sessualità ». Lo stesso Maranon, che pure assegnava alla maschilità il ruolo di «forma terminale » dell’evoluzione organica, è tuttavia del parere che «l’influenza sessuale degli ormoni è secondaria… ».
Sembra quindi confermata la tesi di Soulairac, secondo cui, nella massima parte dei vertebrati, i maschi e le femmine sono posti dalla natura in grado di svolgere la maggior parte delle funzioni amorose degli individui del sesso opposto.
La natura appare assai meno intransigente delle nostre istituzioni!
Ma possiamo noi parlare di «istituzioni» in un senso universale? No certo.
La famosa etnologa e antropologa americana Margaret Mead ci informa che certe popolazioni primitive sono aggressive o remissive, e potremmo dire attive o passive, in toto, ossia senza che tali qualifiche possano applicarsi più ad un sesso che all’altro. Presso i Ciambùli della Nuova Guinea, le donne hanno un comportamento che secondo i nostri criteri tradizionali dovremmo definire mascolino: sono esse che lavorano per la coppia matrimoniale e che chiedono di sposare i rispettivi uomini! Questi fanno lavori « donneschi » e dovremmo allora definir- li «effeminati»…
Questa rapida rassegna, che abbiamo effettuata seguendo le indicazioni freudiane, in campi diversi ma tutti attinenti al problema che qui ci occupa, sembra dunque smentire la tesi di un mondo, animale ed umano, contrassegnato ab aeterno da una dominanza del sesso maschile – di una cultura «fallocratica», come l’ha definita Maryse Choisy. E se ora torniamo sul terreno della psicologia genetica e della psicoanalisi, altre sorprese ci attendono.
Non é, anzitutto, fuori luogo ricordare che anche sul puro piano dello sviluppo dell’intelligenza, la bambina non solo non è, all’inizio, «indietro» rispetto al bambino maschio, ma gli è spesso addirittura superiore. Basterà qui riferirsi al lavoro paziente e notevole, ancorchè effettuato solo su quanto si riferisce al comportamento, degli psicologi americani guidati dal professor Gesell. Ecco qualche esempio, ricavato da tali indagini differenziali: a 18 mesi i maschi allineano due cubi, le femmine 4; a 2 anni, i maschi costruiscono una torre di 4 cubi, le femmine una di 8. A 18 mesi, il 71 % delle femmine sa togliere i cubi da un recipiente; per i maschi la percentuale à del 53 % . Nel contare, le femmine sino a 5 anni contano più alto e sbagliano meno. E durante i primi due o tre anni di vita il linguaggio della bambina è più esteso di quello del maschio…
Nella già citata lezione sulla femminilità, che esprime il suo pensiero più maturo sull’argomento, Freud sottolinea l’importanza dei contributi recati da donne analiste alla vexata quaestio dei primi sviluppi della sessualità femminile; e accenna, in particolare, a quelli di tre indagatrici appartenenti alla « scuola viennese » di psicoanalisi: Jeanne Lampl de Groot, Ruth Mack Brunswick ed Helene Deutsch. Ma anche senza uscire dall’orbita della psicoanalisi freudiana – orbita che chi vi parla ha l’onore di percorrere da quasi 25 anni – non è fuori luogo ricordare che non tutte le donne analiste hanno, come le tre nominate, confermato o ampliato le tesi di Freud sulla femminilità. E’ stato sollevato da qualcuno il dubbio che anche nel caso di certe donne analiste si sia ripetuto il fenomeno, già descritto, per cui molte donne, in passato ed anche attualmente, hanno accettato od accettano, non rendendosene conto, gli orientamenti di una cultura e di una civiltà prevalentemente patriarcali, senza poter neanche pensare che tali orientamenti siano suscettibili di discussione. E’ lecito, per lo meno, il dubbio che le anzidette colleghe abbiano in buona parte proiettato, nelle loro indagini, le loro stesse posizioni femminili inconscie, di figlie troppo ligie al loro illustre padre spirituale. Altre figlie, invece, pur non abbandonando le salde fondamenta dell’edificio freudiano, hanno mostrato maggiore indipendenza. Alludo qui alla cosiddetta « scuola inglese » di psicoanalisi, che si onora del nome di Melanie Klein, e a cui appartiene anche il più celebre tra gli psicoanalisti viventi, Ernest Jones. Senza addentrarmi nelle presentazioni teoriche di questi studiosi – poiché ciò potrebbe farsi solo adoperando un linguaggio altamente tecnico – ricorderò che per essi, l’atteggiamento psicosessuale iniziale della bambina non è affatto mascolino, e che se essa passa attraverso fasi di pseudo-mascolinità, ciò è secondario, e dovuto a ricorrenti frustrazioni di una sua femminilità biologica originaria, caratterizzata non già dalla « passività », ma piuttosto da un atteggiamento, ricettivo e acquisitivo. Tali vedute, d’altronde, erano state anticipate sin dal 1924 da un’altra donna analista, Karen Honey, i cui ulteriori sviluppi di pensiero non hanno trovato consenzienti gli analisti freudiani, ma che già allora aveva molto acutamente rilevato come le posizioni « mascolinizzanti » della bambina e della donna fossero manifestazioni difensive nei riguardi di una femminilità orginaria, irrazionalmente sentita come pericolosa, e non già fissazioni a una « mascolinità indifferenziata » di partenza. Altri celebri psicoanalisiti contemporanei, come René Laforgue o Gregory Zilboorg, si sono anch’essi dichiarati convinti che i sentimenti d’inferiorità e le « proteste virili » di molte donne sono dovuti assai più alle influenze ambientali e culturali che non ad una inaccettazione, di per sé nevrotica, di quella che secondo alcuni sarebbe la «posizione femminile» normale. Queste donne, in altre parole, sembrano voler dire: «potete voi chiamarci anormali solo perchè ci è difficile o impossibile accettare i vostri criteri di normalità? Al limite, dovreste definire anormale chi non si rassegni alla prigionia o alla schiavitù, o che si ammali a causa di questa schiavitù o di questa prigionia… » .
Dobbiamo tuttavia convenire che le vedute sin qui esposte sono ancora largamente contro corrente, e hanno solo in minima parte influenzato gli atteggiamenti, rispetto al problema della femminilità, non solo degli uomini e delle donne in generale, ma, e rincresce dirlo, degli stessi studiosi. E’ di pochi mesi fa la pubblicazione del secondo Rapporto Kinsey, «Il comportamento sessuale della femmina umana ». Se di questo lavoro possiamo ammirare l’onestà intellettuale, la spregiudicatezza e la pazienza, -non è possibile ammetterne l’impostazione generale e le conclusioni. Le critiche metodologiche a Kinsey sono state già pubblicate in non pochi libri e riviste. Basterà ricordare che la sua inchiesta sulla « femmina umana » si basa su un questionario rivolto a 5.940 donne – né una più né una meno – tutte americane (e neppure appartenenti a tutti gli Stati della Federazione), in un limitato periodo storico (dal 1937 al 1952), senza alcuna considerazione di tipo, salute o conformazione somatica, e isolando arbitrariamente le loro esperienze sessuali dal loro ciclo riproduttivo. E le conclusioni di tale inchiesta, viziata all’origine quanto a metodo, non solo non costituiscono un superamento di certe angustiae freudiane, ma ci riportano addirittura su posizioni pre-psicoanalitiche! Per Kinsey, ad esempio, il problema della frigidità femminile vaginale semplicemente non esiste, perchè la sensibilità e la piena soddisfazione relative sono, a suo avviso, «una impossibilità fisica e fisiologica per quasi tutte le donne » (si noti il paradosso di una impossibilità fisica e fisiologica che è suscettibile di eccezioni!). In tal modo, evidentemente, si attribuisce un crisma di normalità a una condizione psico-sessuale non adulta, evolutivamente in ritardo, abnorme, e si ammette che per certi nevrotici, il fatto che essi siano in un’alta percentuale possa costituire una smentita della loro nevrosi. Si potrebbe allora analogamente, su base statistica, chiamare «anormali» coloro elle nel Villaggio sanatoriale di Sondalo non sono affetti da tubercolosi!…
In tutto il Rapporto Kinsey la tesi superficiale della parità dei sessi è contraddetta dalla teoria secondo cui la donna deve adattarsi a ciò che Kinsey considera «normale» – la rapidità dell’atto sessuale da parte dell’uomo e la mancanza di quella piena soddisfazione autenticamente femminile che tutti i sessuologi analiticamente orientati assumono come vera e sola «normalità». La «femmina umana» è così servita!
Ma c’è chi va più oltre. Uno scritto del sessuologo inglese Edward Elkan, ristampato in un volume uscito appena l’anno scorso, contiene, fra l’altro, le seguenti affermazioni : «…Se una donna ama abbastanza un uomo per accettare di diventare la madre dei suoi figli; se, avendo avuto il tempo di adattarsi agli strani procedimenti della vita sessuale coniugale giunge persino a trarre da ciò un certo po’ di sensazioni gradevoli, dev’essere considerata fortunata, normalissima, e gli psicologi non debbono occuparsi di lei. Se prova più di tanto, se, in qualche occasione, giunge ad ottenere una piena soddisfazione, è una delle pochissime fortunate, ma è un delitto dirle che la natura le deve un simile straordinario regalo. La natura – se possiamo personificarla in questo senso – si preoccupa della sopravvivenza della specie, non dei nostri fantasiosi desideri, e questa sopravvivenza può essere assicurata altrettanto bene da un atto sessuale di 30 secondi».
Se queste sono le opinioni di scienziati largamente citati e considerati autorevoli, possiamo noi meravigliarci che nel suo assieme, il problema della femminilità non solo non venga risolto, ma rischi di consolidarsi secondo linee che ripetono, con scarse varianti, le vedute dell’epoca vittoriana?
Prima di proporci l’appassionante quesito: «come» e « perchè» sia sorto quello che poco a poco si delinea ai nostri occhi come uno dei più gravi equivoci nella storia della specie umana un equivoco in cui, come abbiamo visto, sono incappati senza volerlo, in grado maggiore o minore, anche illustri studiosi vediamo quale è stata, in proposito, la reazione femminile. Dobbiamo qui ammettere che, se si eccettuano pochissimi casi, tale reazione è stata in grilli parte nulla, e per il resto inadeguata. E’ stata nulla nelle donne che hanno automaticamente assorbito e fatto propri i criteri di una società umana virilocratica. Queste donne – e sono tuttora la maggioranza – sembrano aver accettato il principio ribadito in un’antica preghiera ebraica, in cui, a un certo punto, l’uomo ringrazia il Signore di averlo fatto maschio e la donna lo ringrazia di averla fatta « secondo la sua superiore volontà ». Nelle altre, le reazioni hanno in parte investito i costumi e le strutture sociali, e in parte hanno dato luogo a sindromi nevrotiche ben note, prevalentemente difensive come le varie forme di isterismo. o pseudo-compensative come le diverse manifestazioni del cosiddetto «complesso di virilità». In tutti questi casi vediamo, o nel negativo del sintomo nevrotico, o nel rilievo delle manifestazioni rivendicative di ordine sociale, le donne non tanto aspirare verso un’affermazione di autentici valori femminili, quanto desiderare di «gareggiare» con gli uomini, o esprimere in sintomi di nevrosi tale desiderio e i relativi conflitti d’inappagamento. Qualche decennio fa, le suffragette si battevano per il diritto al voto politico o ai calzoni. E perché no?
Oggi votano, o indossano i calzoni, milioni di donne, senza che ciò abbia minimamente cambiato, i profondità, l’orientamento psicologico degli uomini nei loro riguardi, o il loro stesso atteggiamento emozionale rispetto ai loro intrinseci problemi.
La « Sottocommissione dell’ONU sullo stato della donna », già nel 1946, ha riassunto nei seguenti termini i « dieci punti » per l’affrancamento della donna dal suo antico stato d’inferiorità: 1) suffragio universale; 2) elettorato passivo; 3) partecipazione su piede di parità a tutte le pubbliche funzioni; 4) abolizione delle differenze nelle condizioni sociali e nel costume; 5) eguaglianza di retribuzioni; 6) eguaglianza nel matrimonio (libertà di scegliere il marito, monogamia, pari diritto di ottenere scioglimenti e separazioni); 7) comune esercizio della patria potestà; 8) diritto di conservare la propria cittadinanza, e diritto dei figli di scegliere la cittadinanza materna; 9) diritto all’indipendenza economica, con facoltà di possedere beni autonomi, amministrare, ereditare; 10) abolizione della prostituzione.
Ottimamente: benché sia appena il caso di osservare che neanche uno degli anzi detti dieci punti è stato uniformemente e universalmente tradotto in pratica nel mondo attuale. Ma anche se tutti e dieci i punti della Sottocommissione dell’ONU costituissero non già aspirazioni, bensì conquiste già scontate, rimarrebbe sempre il divario fra realizzazioni di carattere sociale ed orientamenti psicologici. Persino una intelligentissima scrittrice sull’argomento che ci interessa, Simone de Beauvoir, nella sua famosa opera Le deuxièime sexe, sembra vedere la soluzione del problema della femminilità in ulteriori cadute di barriere esterne: sociali, economiche, materiali. Ma queste barriere, per quello che sono state e che tuttora sono, costituiscono solo l’aspetto superficiale di una situazione d’inadeguatezza la quale è, fondamentalmente, non materiale, non esterna, bensì psicologica e psicosessuale. Nella pratica psicoanalitica troviamo di continuo donne laureate, professioniste, economicamente indipendenti, attanagliate da conflitti inerenti alla loro femminilità non integrata; mentre indagini psicoanalitiche recenti su donne perfettamente normali hanno mostrato che in tali donne, la « posizione femminile » descritta da Jones e da Melanie Klein si era sviluppata armoniosamente, senza sensibili arresti su fasi pseudo mascoline, sino al raggiungimento di una situazione psicosessuale adulta, tanto felice, quanto diversa dal « modello statistico » propostoci da Kinsey.
L’ottimismo di molti uomini e di molte donne che oggi considerano in buona parte raggiunta, o ben presto raggiungibile, una parificazione dei sessi, si basa su una triplice serie di errori. Il primo errore consiste, come abbiamo visto, in una concezione non aggiornata, anche cosciente, della femminilità. Il secondo errore è quello di trasporre tutta la questione dal piano psicologico a quello sociale, e di ritenere che il problema della femminilità si risolva dando alla donna una parità esteriore di diritti e di azioni. Il terzo errore, e forse il più grave, è quello che consiste nel ritenere che a un diverso atteggiamento cosciente debba necessariamente corrispondere un mutamento nelle nostre inconsce disposizioni e nei nostri orientamenti profondi. Piccole manifestazioni di questa discrepanza si rilevano anche nella nostra vita quotidiana. L’uomo che dichiara in buona fede di riconoscere la parità della donna in ogni campo, corruga la fronte se una donna mostra franchezza e indipendenza di giudizio nelle proprie scelte sessuali; e la frase «dopo tutto, è una donna» – con tutte le possibili sfumature che vanno dalla benevola protezione all’aperto disdegno – suona di frequente anche in riunioni di uomini che, a parole, si battono perchè la donna possa diventare, se può e se crede, rettore d’università o presidente della repubblica.
Ma anche per costoro e sono in fondo i meglio intenzionati – i contraddittori hanno in serbo un argomento che a tutta prima sembra inoppugnabile.
Ammettiamo – essi dicono – che per un lunghissimo periodo lo stato di soggezione in cui è stata tenuta la donna abbia, in genere, praticamente precluso al sesso femminile la via del genio, o anche la possibilità di altre affermazioni intellettuali in parità numerica con gli uomini (per una poetessa abbiamo avuto decine di poeti, e non si conoscono donne paragonabili a un Michelangelo, a un Beethoven, a un Newton). Perchè questa enorme disparità continua a sussistere, o è diminuita di ben poco, oggi che tante donne possono, in piena libertà, studiare, comporre, dipingere, e arrivare senza ostacolo sin dove le loro energie intellettuali possono portarle? Perchè i geni-femmine sono tuttora in grande minoranza? Perchè non abbiamo avuto, e non abbiamo un Gandhi, un Einstein, un Freud in gonnella? La conclusione – essi dicono non può essere che una: qualsiasi cosa si faccia, qualsiasi libertà le si conceda, la donna rimane, fisicamente e intellettualmente, inferiore all’uomo.
Questa è la forma in cui il quesito viene in genere formulato: ma è una forma fallace. Anzitutto, a me sembra che ci si debba meravigliare non già dello scarso numero di grandi personalità femminili nei secoli passati, ma del fatto che malgrado tutto, siano stati possibili lo sboccio e le affermazioni di una Saffo, di una Madame de Staèl o di una Maria Curie. In secondo luogo, vediamo che in pochi decenni, anche in seguito al semplice allentarsi o sparire di certi ostacoli puramente esteriori, le donne hanno recato contributi cospicui in ogni ramo dello scibile – letteratura, arte, scienze fisico-matematiche, medicina, giurisprudenza.
Ma in terzo ed ultimo luogo, non dimentichiamo che le conquiste intellettuali degli uomini sono state dovute nei secoli non tanto alla loro maggiore libertà esteriore, quanto alla possibilità loro concessa di liberare costruttivamente una parte infinitamente maggiore di energie psichiche originariamente legate alla vita istintiva. Ciò che ha impedito alla donna di affermarsi nell’intelletto o nel genio è stato non tanto l’averla esclusa dalle università o dalle arti liberali, quanto il fatto che le sue energie psicosessuali sono state mantenute a livelli chiusi, narcisistici, masochistici, scarsamente suscettibili di sublimazione, e che esse stesse hanno, come si è visto, largamente accettato questo stato di cose, assumendolo come «naturale». Non siamo neanche lontanamente in grado di prevedere che cosa la donna potrà fare in un tempo avvenire, in cui le sia possibile riconoscere e sviluppare una femminilità sentita non più come una copia imperfetta di valori maschili, ma come avente una sua pari essenzialità, ed uguali chances di sviluppo psicodinamico.
Se le vedute che abbiamo prospettate sono vere; se, cioè, le gravi difficoltà relative a una esatta valutazione dei problemi femminili sono dovute a quello che abbiamo chiamato un portentoso equivoco psicologico e storico, quali possono esserne state le motivazioni originarie? Qui ci muoviamo, com’è ovvio, sul terreno delle ipotesi. Le mie ipotesi, che ora esporrò brevemente, sono le seguenti.
Sin dalle più remote origini dell’umanità, l’uomo, il maschio, si è dibattuto fra i due poli di una situazione contradittoria: un polo è la considerazione svalutativa, deprezzativa, di certi aspetti della femminilità; l’altro è la sua dipendenza, sia infantile, sia nell’età adulta, dalla donna. Dipendenza infantile – perchè è la donna che nell’infanzia di ogni uomo, rappresenta la dominatrice, la fonte imprescindibile dei nutrimento materiale ed affettivo; dipendenza adulta, inerente alla vita sessuale e alla conservazione della specie. La donna è dunque apparsa all’uomo, volta a volta, come diversa e inferiore rispetto a lui – perchè più debole fisicamente, perchè protagonista di misteriose ricorrenze implicanti spargimento di sangue, perchè soggetta alle pene della gravidanza e del parto, – e come sorgente suprema e ineliminabile di vita, di alimento e di piacere. Da questa contraddizione è scaturita una serie di atteggiamenti diversi, ma comunque miranti a una neutralizzazione dell’allarme e dell’angoscia maschili. La donna è stata, e talora è ancor oggi, schiava, concubina, bestia da soma, oggetto di puro e semplice interesse fisico; ma è stata altresì vezzeggiata, coperta di ornamenti, ostentata come un oggetto di lusso – in parte, forse, per compensazione alle offese materiali e morali a lei inflitte, ma soprattutto perchè questa tesaurizzazione, in sostanza, non implicava affatto un riconoscimento di dignità. Ancora oggi, il principotto orientale vanta alla stessa stregua il proprio harem e i suoi cavalli da corsa.
Molti aspetti di questa impostazione si sono attenuati o sono scomparsi nelle nostre società occidentali; ma, ripetiamo, più al livello della coscienza e nelle forme esteriori, che non nell’inconscio e nella sostanza. Nella accennata contraddizione – dalla quale è stata inconsapevolmente trascinata e deviata la stessa personalità femminile – è forse da ravvisare il «perchè» occulto del tradizionale «enigma » della donna negli abissi secolari della cui psiche solo molto recentemente si è incominciato ad intravedere una femminilità originaria e non subordinata, un’Eva non più derivata dalla costola di Adamo, ma con una pari dignità e autenticità psicologica e psicosessuale.
Ma il pieno riconoscimento di questa Eva è ancora da venire. Giova sperare che, a parte qualsiasi opinione o credo religioso, si possa considerare come altamente significativa e benaugurante la proclamazione dell’ultimo dogma, e che l’Assunzione della Vergine-madre nei cieli possa simboleggiare e preludere a un futuro riconoscimento di co-eguaglianza della donna rispetto al padre ed il figlio, nel firmamento umano.