Esiste uno sport femminile?
Atti del Congresso Internazionale di Psicologia dello sport
Ferruccio Antonelli 1966
Emilio Servadio (Italia)
Il titolo di questa comunicazione è in forma interrogativa: «Esiste uno sport femminile?». Enunciato in questo modo, il quesito potrà sembrare a molti addirittura cervellotico, e qualcuno potrà credere che chi ha avuto l’ingenuità di formularlo debba vivere in un mondo in cui di sport non si sa e non si capisce niente. Infatti è un interrogativo che a tutta prima suona piuttosto assurdo. Tutti sappiamo che infinite schiere di donne in tutto il mondo praticano lo sport. Questo è un fatto che sembra contraddire il titolo della comunicazione, o per meglio dire annullano, dando ad esso una risposta perentoriamente affermativa. Tuttavia qualche ulteriore riflessione potrà far vedere che la domanda che ci siamo posti è meno stramba di quanto in un primo momento poteva sembrare.
« Esiste uno sport femminile? ». Sottolineo la parola sport, perché quando si nomina lo sport si tende a dimenticare spesso che questa parola non è sinonimo di ginnastica o di educazione fisica, benché tutte queste attività nascano sullo stesso terreno. Comunque tutti sanno, ed è pacifico, e non mi dilungherò qui in proposito, che quando un uomo o una donna passeggiano, corrono o comunque esercitano i muscoli, non si può ancora parlare di sport. Quando è allora che se ne può parlare? A mio avviso lo sport comincia a differenziarsi dall’esercizio fisico quando l’esercizio fisico stesso viene valutato in termini di quantità e di numero, cioè quando si comincia a discorrere di punteggi, di classifiche, di chilometri orari, di distanze e di tempi. E soprattutto, vorrei insistere su questo punto, quando è possibile stabilire delle graduatorie. Un individuo che cammina, ovviamente non fa dello sport. Lo sport comincia quando i tempi del camminatore vengono misurati a cronometro, valutati in termini di precise lunghezze di percorso, ecc. Quindi numero, computo, quantità. Altro elemento essenziale è quello della gara, del certame, della competizione. Anch’esso caratterizza lo sport e lo differenzia dalla educazione fisica, dall’esercizio fisico. La gara può essere anche lontana, può essere non immediata, si può svolgere tra avversari distanti sia nel tempo, come avviene quando si cerca di abbassare un record stabilito anche parecchio tempo prima, sia nello spazio, visto che ci possono essere delle gare a grande distanza, in cui si cerca di emulare e superare un competitore che pratica lo stesso sport e che sta mille, duemila chilometri lontano. Comunque, l’idea prossima o remota della competizione è anche essa coessenziale allo sport.
Nessuno può contestare inoltre che le massime manifestazioni sportive abbiano lo scopo di stabilire dei primati. I primati sono assoluti o relativi, sono internazionali, nazionali o regionali, possono essere limitati a una singola competizione o riguardare il mondo intero. Ma ogni sportivo consapevole sa di trovarsi su un dato gradino di una data scala, gradino che può essere il primo o il secondo, come può essere l’ultimo. Comunque, questa scala ideale esiste, e non è lecito ignorarla; virtualmente ogni sportivo potrebbe esserne al vertice, anche se il più delle volte non c’è e non vi può seriamente aspirare.
Posta la questione nei termini in cui abbiamo cercato di circoscriverla, è chiaro che la scala dei valori sportivi assoluti è una scala maschile. Nella gara anche soltanto ideale per il raggiungimento del vertice in ogni singolo sport, la donna per la sua costituzione biologica, anatomica, anatomo-fisiologica, è svantaggiata e quindi, se vogliamo parlare rigorosamente, non vi partecipa. Non solo interi settori dello sport le sono preclusi (questo lo sanno tutti), non solo nessuna donna può aspirare a primati sportivi assoluti, ma, ed è questo che ci pare più significativo, la donna non ha e non può avere una attività sportiva che le sia propria. Non esiste cioè uno sport che la donna possa praticare escludendo l’uomo, così come non esiste uno sport in cui la donna possa sperare di superarlo in senso assoluto. Quindi a filo di logica non esiste uno sport femminile. Esistono degli sport (maschili) che anche le donne, limitatamente, possono praticare.
Come si vede, un po’ di ragionevole buon senso fa apparire le cose in modi che a tutta prima potevano sembrare inconcepibili. Ma credo che a questo punto io debba fare una precisazione. Qualcuno potrebbe credere che quanto ho detto sino a questo momento implichi una svalutatazione, una menomazione della donna. Questo non è affatto vero. Io stesso ho avuto più volte occasione in passato di pronunciarmi a favore di una pariteticità dell’uomo e della donna in infiniti campi, schierandomi persino in senso critico nei riguardi di quelle correnti di psicoanalisi, le quali postulano come inevitabile, nella evoluzione della psiche femminile, in una certa fase, un’invidia della situazione maschile, dell’anatomia maschile, un tentativo di identificarsi al maschio, tentativo che naturalmente sarebbe destinato all’insuccesso, e dopo il quale avverrebbe, come per una specie di ripiegamento, l’accettazione della condizione femminile. Io a questa concezione della femminilità mi sono più volte opposto e mi oppongo ancora. Ma così come non diminuisce affatto l’uomo il riconoscere ad esempio che in certi settori dell’artigianato, nelle cure dell’infanzia, o nell’economia domestica il maschio non può pretendere di eguagliare e tanto meno di superare la donna, così non è una offesa al sesso femminile il dire che i primati assoluti in tutti gli sport non possono essere che maschili; e che data questa graduatoria ideale che è alla base, che è implicita in ogni prestazione sportiva, lo sport si configura come maschile.
Ma allora qual’è, in questo mondo sportivo, che per le ragioni predette, inevitabili, incontestabili, è essenzialmente maschile, qual’è, diciamo, la situazione della donna?
A questo punto bisogna fare una larga parentesi. Bisogna cioè ricordare che esistono donne che hanno accettato la loro femminilità e che talvolta non l’hanno mai, neanche per un momento, posta in discussione, che sono state sempre femminili, dal primo giorno della loro vita, e donne che non hanno accettato se stesse, perché per loro, a livelli inconsci, la femminilità è sinonimo di inferiorità, di menomazione, di mutilazione e via discorrendo. In termini psicoanalitici, questa seconda categoria di donne soffre di quella che nel nostro gergo si chiama « ansia di castrazione », « invidia del membro maschile », e via discorrendo. Questa fondamentale distinzione fra donna che ha accettato, o a cui non è balenato neanche per un momento di non accettare, la posizione femminile, e quella che invece non l’ha accettata – questa distinzione, dicevo, si riflette anche sulle donne sportive. E la donna sportiva ci appare completamente diversa a seconda che abbia o no integrato, in primo luogo coscientemente, ma anche inconsciamente, la sua posizione femminile, con tutte le sue prerogative, ma anche con tutte le sue intrinseche ed inevitabili limitazioni. Nel primo caso, troviamo donne che praticano, magari con entusiasmo, questo o quello sport, intendendolo come un utile mezzo, non solo per divagarsi (conformemente al significato originario della parola sport, che come tutti sanno un tempo voleva dire «diporto»), ma anche per sanamente competere, per potenziare il loro organismo, la loro salute, la loro bellezza, il loro rendimento in ogni ulteriore attività femminile. Nell’altro caso, la donna, pur sapendo benissimo, coscientemente, di non poter diventare campione mondiale assoluto di salto, o di non poter vincere alle Olimpiadi nel lancio del disco, si comporta come se non avesse del tutto deposto simili speranze. In questo caso abbiamo le donne sportive di tipo virile, quelle che palesemente, anche se inconsapevolmente, si identificano con modelli maschili, quelle donne che gli uomini negli stadi considerano con meraviglia e magari applaudendo, ma che fuori degli stadi di solito evitano, perché qualcosa dice loro che quelle donne non sono vere donne, che cioè non sono esseri veramente ed intrinsecamente femminili.
Potrà a questo punto essere interessante, ad illustrazione e corredo di quanto sono andato via via esponendo, ricordare alcuni sogni di una mia cliente in analisi. Si tratta di una donna sui ventisei anni, piuttosto bella, il cui problema fondamentale è, come avviene in molti casi di analisi di donne nevrotiche, una fondamentale inaccettazione della posizione femminile. Non è però, naturalmente, una storia clinica che io intendo qui presentare. Vorrei semplicemente menzionare, e commentare eventualmente qua e là, alcuni sogni o fantasie di questa donna, nei quali compaiono cinque o sei sport differenti! Dal contenuto di questi sogni, e dai pochi commenti che potrò fare al riguardo, voi vi renderete conto di quale sia intrinsecamente, in profondità, la posizione di certe donne più o meno nevrotiche nei riguardi dell’attività sportiva.
Il primo sogno di questa breve serie riguarda il tennis. La sognatrice vede un campo di tennis e ha vicino il proprio padre. Si sta svolgendo una partita amichevole tra l’attrice Sandra Milo da un lato, e dall’altra parte un uomo, che la sognatrice non riesce a individuare. L’attrice giocatrice Sandra Milo si lamenta perché il costume da tennis, che le è stato prestato, le sta stretto. Apre la sua chiusura lampo, e sotto appare in bikini. Comunque giuoca malissimo, tantoché l’avversario le brucia ogni palla.
Si vede abbastanza chiaramente in questo sogno come nell’attività sportiva la sognatrice, che si identifica ovviamente con l’attrice Sandra Milo, e che in passato aveva anche tentato di fare l’attrice, non veda la possibilità di competere seriamente con un uomo. Il costume che la giocatrice indossa non è il suo e le sta stretto. Il costume è dunque un atteggiamento esteriore, pseudo-mascolino, in cui la sognatrice non si trova a suo agio. Allora essa cerca di rompere questa corazza esterna, e si rivela nella sua femminilità sottogiacente. Sappiamo che Sandra Milo e un’attrice piuttosto prosperosa, e nel sogno essa appare in bikini. Appare, cioè, la femminilità scoperta, non più protetta, della protagonista. Neanche ciò le giova, perché con questa femminilità nuda e vulnerabile – essa sembra voler dire – non si fa dello sport. Perciò essa cosicché l’avversario, l’uomo, vince facilmente.
Vediamo qui dunque una sua situazione di rivalità e sportiva nei riguardi di un uomo, rivalità che non riesce a portare alla vittoria né attraverso l’assunzione di una posizione pseudo-mascolina, né mediante l’ammissione e lo « scoprimento »della femminilità.
Quanto ora segue non è stato sognato, ma ha costituito un episodio reale nella vita della protagonista. Questa mi raccontò durante una seduta di essere stata con il marito in una villa a trovare degli amici, dove dei distinti signori si esercitavano nel tiro all’arco. La paziente, mentre costoro svolgevano questo esercizio, era stata colta da un’angoscia acuta che non aveva saputo spiegarsi. Nel seguito della seduta, essa mi rivelò inoltre di avere una grande gelosia, e una notevole invidia mista a rabbia per le «armi» che il marito possedeva. Ora è chiaro che tanto il tiro all’arco quanto le « armi » del marito costituiscono altrettanti simboli sessuali, o funzioni, maschili, di fronte ai quali questa donna si era sentita menomata e in un certo senso, potremmo dire, mutilata. Da ciò la sua rabbia, da ciò la sua angoscia. « Io non potrò mai tirare con l’arco » – sembra dire la protagonista – « io non potrò mai adoperare le armi in questo modo, in questa forma, perché queste (con mio grande dolore ed invidia) sono prerogative “maschili”».
In un altro sogno troviamo l’equitazione. E’ un sogno molto lui di cui riferirò gli elementi essenziali. La protagonista sogna di desiderai di andare dal parrucchiere, ma vorrebbe andarci a cavallo. Qui seguono molti altri episodi irrilevanti per i nostri scopi, e il sogno termina in questo modo: la sognatrice vede la madre venire verso di lei a cavallo e con un buffissimo cappello in testa. La madre le dice: « Sono stata dal parrucchiere ». L’interpretazione di questo sogno è abbastanza ovvia. II parrucchiere è lo psicoanalista che dovrebbe mettere ordine nella testa della sognatrice e acconciarla secondo un modello femminile: ma che cosa vuole la protagonista? Vorrebbe due cose: vorrebbe andare dall’analista per rimettersi psichicamente in ordine e per apparire femminilmente atteggiata, ma vorrebbe andarci a cavallo, ossia mantenendo una posizione mascolina! A un certo punto non è lei che ci va, è la madre, che la sognatrice sembra proporsi come modello. La madre – pare – ha in qualche modo composto le due esigenze: è stata dal parrucchiere, ed è a cavallo. Ma che cosa ne risulta? Ne risulta un essere strambo e contradditorio; e il copricapo – ossia l’acconciatura – non è né maschile né femminile, e risulta perciò buffissimo. La conclusione è questa: evidentemente non si possono tenere, è proprio il caso di dirlo, i piedi in due staffe, in altre parole non è possibile mettere psicologicamente ordine nella propria testa integrando la propria femminilità, e rimanere a cavallo, ossia conservare una posizione pseudo-mascolina!
In un sogno successivo abbiamo l’attività sciistica. La protagonista sogna di essere in montagna con un gruppo di persone, e intende salire in alto per poi scendere con gli sci. Un primo pezzo viene fatto con uno ski-lift, poi bisognerebbe prendere una teleferica. C’è una fila per acquistare i biglietti. Si avvicina una donna che sembra una specie di maestra di sci e chiede alla sognatrice: « Lei ha la carta verde? ». E la sognatrice risponde: «Che cosa vuoi dire? ». E l’altra replica: «Se lei non ha la carta verde non può salire ». Questo sogno è un poco più complicato di quelli precedenti, ma si spiega abbastanza facilmente. Alla carta verde del sogno la sognatrice associa, nell’analisi, un episodio recente avvenuto in montagna, quando l’istruttore aveva detto: «Tirate fuori le carte della scuola di sci ». Aggiunge che il verde è il colore preferito del padre. Anche in questo sogno, dunque, la sognatrice vorrebbe esercitare una certa attività sportiva in una forma e secondo una modalità di tipo maschile e paterno. Senonché c’è un ostacolo, non ha la carta verde, cioè non ha certe prerogative e certi attributi che sono propri del maestro di sci, che sono propri del padre. L’allusione vuol dire, elementarmente, non avere le carte in regola, ma nello stesso tempo non avere qualifiche che non le appartengono. Ecco perché la protagonista non può esercitare quell’attività: ancora e sempre perché evidentemente essa, per la sognatrice, è un’attività di tipo mascolino.
Ed infine (infine per modo di dire, perché si potrebbero citare molti esempi), un sogno di ciclismo. La sognatrice si trova in bicicletta, sta pedalando, e viene fermata da un poliziotto, il quale guarda la targa della bicicletta e le fa una contravvenzione perché dice che la targa è scaduta (è da notare che la paziente è svizzera e in Svizzera, così mi apprende, le biciclette hanno targhe semestrali o annuali). Ma la cosa curiosa è che sulla targa c’è scritto « Junior » e la sognatrice teme inoltre che si scopra che la bicicletta è stata da lei rubata. « Allora – seguita il sogno – dico al poliziotto: “Mi mandi la contravvenzione” e continuo a pedalare ». In questo caso si direbbe che la sognatrice riesca bensì a superare un ostacolo, ma anche qui c’è un’obiezione, un’autorità che le dice che la targa è scaduta, che le sue carte, ancora una volta, non sono in regola. Sulla targa inoltre c’è scritto « Junior », e ciò allude a un atteggiamento non maturo, quello precisamente che la induce a pedalare, a usare un mezzo di locomozione che nuovamente è sentito come più maschile che femminile, e che la sognatrice – cosa assai significativa ritiene di avere in qualche modo «usurpato » (la bicicletta così le sembra – non è sua, è stata rubata).
Mi sembra che il materiale clinico, sebbene molto limitato, che ho riportato, dimostri come nell’inconscio di certe donne nevrotiche lo sport sia sentito non soltanto come un’attività maschile, ma come un aspetto particolare della loro problematica (« complesso di virilità »), e perciò tale da porle in serie difficoltà. Da una parte – esse sembrano pensare per fare dello sport occorrerebbe possedere attributi maschili, dall’altra questa stessa « condizione » è insostenibile, per cui il conflitto si presenta senza vie d’uscita. I tentativi d’identificarsi con modelli sportivi maschili urtano contro difficoltà interne o esterne, e le provvisorie rinuncie a essi – ossia l’accettazione « di prova » della posizione femminile – non consentono di fare dello sport (v. il sogno di « Sandra Milo » e del tennis).
Mi pare che tutto ciò conforti notevolmente la tesi principale di questa comunicazione. Da parte della donna vi sono due modi, abbiamo detto, di intendere lo sport, e questi due modi non sono se non aspetti del problema più generale della femminilità.
In proposito vorrei ricordare, tanto per finire con un aneddoto, un episodio che occorse parecchi anni fa proprio qui a Roma. Si svolgeva un incontro di pallacanestro tra due squadre femminili. Una era una squadra locale, l’altra apparteneva a un’altra Nazione. La squadra locale era composta di graziose ragazze desiderose di sgranchirsi i muscoli e di divertirsi, l’altra era formata di donne alte e robuste come granatieri, disciplinate e serissime. Naturalmente il risultato fu una schiacciante vittoria di queste ultime, ma debbo aggiungere che l’ammirazione del pubblico, che per tre quarti era un pubblico maschile, andò incondizionatamente alle prime, e non soltanto per motivi di campanilismo cittadino!
La conclusione di questa breve nota è la seguente. Le giovani doni che fanno dello sport sono in genere sane di mente e di corpo, e sono coerenti alle premesse della loro femminilità totale. La donna sportiva che invece implicitamente vorrebbe porsi sulla scala dei valori sportivi mascolini è una donna con problemi psicologici rimasti insoluti, problemi che essa crede di poter superare assumendo atteggiamenti polemici, quali contraddicono la sua stessa natura.
Lo sport, abbiamo detto, per sua essenza è maschile, quindi le donne che vogliono praticano equiparandosi virtualmente, idealmente, fantasticamente all’uomo non fanno altro che « agire », come noi diciamo in psicoanalisi, certe loro fantasie nevrotiche; mentre le altre, che accettano la condizione femminile, e che praticano lo sport per tempera, il fisico, per gareggiare tra loro in modo salutare, per essere donne più sane, più robuste e anche più belle, queste sono le vere donne sportive: donne e sportive. A queste va naturalmente il nostro consenso di psicologi e psicoanalisti e, come sappiamo, va la schietta ammirazione del mondo maschile; le seconde possono eventualmente offrirci materia di studio, e potrebbero in sede di psicologia clinica e di psicoanalisi avere n orientamento e più avveduto consiglio.
Naturalmente non ignoriamo che certe donne possono trovare intensa attività sportiva una specie di soluzione non troppo nevrotica di certi loro problemi e conflitti non risolti. Mentre molte donne, oppresse dalla loro disperata fantasia di competere con gli uomini, diventano donne più o meno gravemente nevrotiche e nulla più, quelle che canalizzano la loro nevrosi in una assidua attività sportiva possono essere per lo meno in parte esenti dalle sofferenze, talvolta molto acute, che nevrosi procura. Non oseremo dire, comunque, che si tratta di donne sane, anche se la «soluzione» a cui sono addivenute è migliore di quella della vera e propria nevrosi clinica. Il fatto che vi siano di queste parziali riuscite non sembra dunque contraddire la tesi principale che abbiamo cercato d’illustrare.
Emilio Servadio