Psicanalisi e letteratura
Opera Aperta n°1 Gennaio 1965
Con il dibattito «Psicanalisi e Letteratura» si apre una serie di discussioni intorno ai problemi del nostro tempo di particolare interesse ed attualità. Interverranno i dibattiti personalità dell’arte, della cultura, della scienza e della politica che porteranno il loro particolare contributo, iniziando un dialogo libero e aperto che rispecchi quindi gli intenti e le finalità della Rivista.
In questo primo dibattito Giuseppe Berto, Libero Bigiaretti. Padre Grasso, Emilio Servadio e Giacinto Spagnoletti esaminano – ciascuno secondo il proprio punto di vista – l’influenza che ha la psicanalisi sulla produzione letteraria di oggi e la possibilità nel domani di un’analisi critica condotta anche in chiave psicanalitica.
SERVADIO. Vediamo qual’è effettivamente l’influenza della psicanalisi sulla letteratura.
BIGIARETTI. Secondo me questa influenza esiste ormai diffusa tanto da penetrare nell’inconscio dello scrittore; certi apporti della psicanalisi sono ormai così strumentalizzati dagli scrittori a parte naturalmente il caso Berto, per cui in fondo in tutta la letteratura contemporanea, da Proust in poi c’é sempre un quid di ordire psicanalitico; cioè quella che era la psicologia del romanziere ha acquisito strumenti più precisi, è andata più in fondo, ha avuto più coraggio perché sostenuta alle spalle da queste scoperte e da questa dottrina.
Mi pare cioè che in tutta la letteratura in genere, e in quella romanzesca in specie, che hanno delle ambizioni o delle intenzioni psicologiche, la psicanalisi è entrata, ed entra anche in scrittori che non hanno letto Freud ma lo hanno soltanto orecchiato. Ed entra perché evidentemente il comportamento degli scrittori nell’analizzare le passioni dei loro personaggi è certamente influenzato dalle cose che si sono dette da Freud in poi.
BERTO. Anche Proust. Lo scrittore certamente risente degli stimoli, degli studi e della tensione psicologica.
BIGIARETTI. Siamo perfettamente d’accordo. Queste nuove ricerche di ordine psicanalitico sono molto importanti, perché hanno aumentato la ricerca di verità da parte dello scrittore. Cioè, nella ricerca di verità – che è sempre il primo compito dello scrittore – la psicologia ha dato una spinta, ha dato più coraggio a scendere nel profondo. In passato ci si fermava di fronte a fatti, non dico di convenienza, ma a certi dati della letteratura classica che portavano la ricerca psichica fino a certi strati. Grazie alla psicanalisi, si è scavato più in fondo. Non si sono fatti passi da gigante, intendiamoci, perché evidentemente c’è da scavare ancora per millenni. Probabilmente l’anima dell’uomo – se così vogliamo chiamarla – è molto più profonda di quel che si possa immaginare. Però, indubbiamente, vi è stato questo notevole passo in avanti.
SPAGNOLETTI. Da parte mia ritengo invece che questo fatto è stato concomitante di tutto un processo che in fondo la modernità sta accelerando sempre di più verso il particolare. Mi spiego: non è che la psicanalisi sia servita come strumento allo scrittore, ma tra psicanalisi e letteratura ci sono state delle interferenze.
In generale l’una e l’altra possibilità, cioè quella di analizzare il paziente e quella di analizzarsi attraverso il romanzo, la letteratura ecc., sono cose direi inerenti all’anima moderna. sono fatti cioè che Eschilo non presupponeva: perché l’angoscia dei personaggi tragici greci è un angoscia che si ferma a certe parti dello spirito.
Questo è il mio punto di vista. Non registrerei un fatto di influenza decisiva da parte della psicanalisi sulla letteratura come aspetto generale; vale a dire io credo che luna e l’altra cosa sono aspetti concomitanti di uno scendere nell’abisso.
Padre GRASSO. Quindi la psicanalisi ha trovato una situazione di fatto ed ha cercato di spiegarla. Ma adesso si tratta anche di spiegare qual’è questa situazione: come si è arrivati a questa angoscia o a questo male oscuro che noi troviamo nella letteratura di oggi. Come spiegare questo fatto? Quindi il problema, secondo me, è più generale. Bisogna ricercare le cause di questo dato di fatto.
BIGIARETTI. Sì, ma la psicanalisi può essere uno strumento per cercare le cause di questo, ma non può essere la premessa del male oscuro, dell’angoscia non è che la psicanalisi determina l’angoscia, ma la psicanalisi analizza l’angoscia.
SERVADIO. Vorrei che si evitasse, possibilmente, quando si parla di psicanalisi, di rivolgersi sempre e necessariamente alla psicopatologia. Non dimentichiamo, infatti, che la psicanalisi è un’interpretazione della vita psichica. Il fatto che ad un certo punto sia apparsa la psicanalisi dipende dal fatto che proprio nella storia dell’uomo, ad un certo momento, si doveva rivelare quella dimensione. I tempi erano maturi per questo, Freud ci arrivò attraverso la clinica, ma lui stesso diceva che ci sarebbe potuto arrivare anche per altre vie. Quindi da questo punto di vista noi potremmo dire che le influenze reciproche di letteratura e di psicanalisi, fanno parte, sono esponenti, di un medesimo denominatore. Oltre a questo, però, ed in seconda istanza, ci sono delle influenze più precise, più strette. Freud è stato molto influenzato dalla letteratura e lui stesso dice che ad un certo punto aveva pensato di fare lo scrittore, il letterato, ed osserva che alcune delle sue storie cliniche sembrano quasi delle novelle. E naturalmente oggi un buon numero di letterati – oggi il letterato non possiamo considerano come l’uccellino o il fanciullino pascoliani – è imbevuto di cultura e di letteratura e quindi è quasi impossibile pensare ad un letterato consapevole che ignori il fenomeno della psicanalisi; ed anche se non ha letto tutte le opere di Freud, per lo meno ne conoscerà alcuni elementi fondamentali.
BIGIARETTI. Da qui possiamo partire chiedendo a Servadio proprio di operare una distinzione tra psicanalisi come strumento d’indagine critica rispetto alla letteratura, e cioè che cosa essa può dirci come strumento critico; e dall’altra parte la psicanalisi come ispiratrice o suggeritrice di movimenti letterari, di risultati letterari. Sulla prima parte, cioè sull’apporto della psicanalisi come strumento d’indagine critica, vorremmo che Servadio citasse alcuni esempi dai quali si rilevi come la psicanalisi sia diventata strumento di indagine critica di opere letterarie. Il che è tutto un altro discorso rispetto a quello che faremo dopo e cioè la psicanalisi vista invece alla base o dentro l’opera letteraria.
SERVADIO. Sui contributi della psicanalisi alla comprensione dell’opera letteraria, naturalmente, è stato scritto moltissimo. C’è una letteratura su questo. Freud ha dato i primi esempi: quando ha scritto su Dostoieyskij o sulla Gradiva di Jensen, un lavoro che è stato pubblicato anche in italiano. Tuttavia credo che i primi accenni della possibilità per la psicanalisi di dare un contributo all’interpretazione di un’opera letteraria siano nell’Interpretazione dei sogni di Freud, in una nota in cui Freud fa un’osservazione sull’Amleto di Shakespeare e cerca di spiegare psicanaliticamente il dramma di Amleto. Credo sia – inutile ripetere l’interpretazione di Freud perché tutti la conoscono: la ricorderò in poche parole. Secondo Freud, Amleto è diviso nei riguardi dello zio, del patrigno, da un conflitto di ambivalenza, perché da una pane lo odia per le ragioni che sappiamo e cioè perché ha usurpato il trono, gli ha ucciso il padre ecc., e dall’altra – sempre secondo Freud – c’è in lui una segreta, inconscia ammirazione per questo zio che ha fatto, in fondo, quello che lui, Amleto, non ha potuto fare; cioè, e qui abbiamo il complesso di Edipo, uccidere il padre e sposare la madre. Freud lo dice en passant nell’Interpretazione dei sogni, e poi Jones ha dedicato un lunghissimo, complesso studio sull’Amleto ed ha scritto anche altri studi su Shakespeare.
A questo punto ci potremmo anche fermare a chiederci: questo ci aiuta forse a capire meglio perché l’Amleto è una grande opera d’arte? La mia opinione è no. Secondo me ci aiuta molto a capire certi problemi che si agitano in Shakespeare e per esempio il lavoro di Jones è estremamente acuto, perché Jones è andato a ricercare quel poco o tanto che si sa sulla vita di Shakespeare, in quale fase della sua vita si sia inserita la creazione dell’Amleto e via discorrendo, e tutto questo non c’è dubbio che utilissimo. Un lavoro analogo, per esempio, ha fatto la principessa Maria Bonaparte. Nel ’32-’33 quando ha scritto una monumentale opera su Edgar Allan Poe. Ricordo che Freud scrisse una breve prefazione all’opera di Maria Bonaparte in cui dice molto candidamente e chiaramente – pur nell’esprimere la sua ammirazione per questo studio – che la psicanalisi non può spiegare il genio dei creatori. In altre parole voleva dire questo: il lavoro di Maria Bonaparte ci aiuta moltissimo a capire meglio perché l’universo letterario di Poe si sia configurato in quel modo; per esempio perché le donne di Poe hanno quell’aspetto fantomatico che tutti sappiamo. Ma perché questo in Poe sia diventato opera d’arte mentre in un altro poteva diventare nevrosi, perversione o pazzia, questo naturalmente la psicanalisi non è in grado di appurarlo. Ed io credo che Freud avesse perfettamente ragione.
Naturalmente la mia è un’opinione che non è condivisa da tutti gli psicanalisti; per esempio Phyllis Greenacre ritiene che in fondo anche la particolare virtus creativa dello scrittore si potrà un giorno capire meglio al lume dell’indagine psicanalitica. Io su questo punto sono piuttosto scettico e credo che c’è ancora qualcosa che ci sfugge, di fronte al quale Freud stesso, in fondo, si arrestava.
La conclusione mia, a questo punto, vorrebbe essere questa: che la critica letteraria, ossia lo comprensione dell’opera letteraria, così come si vale di molti strumenti che non sono la critica letteraria, si può anche valere dello strumento della psicanalisi; perché non c’è dubbio: in critico informato e intelligente che voglia scrivere un saggio su Edgar Poe non può non aver letto il lavoro di Maria Bonaparte, perché se no veramente limita il proprio orizzonte ed ignora tutta una dimensione che invece gli deve essere nota.
BIGIARETTI. Adesso vorrei domandare a Spagnoletti, che è un critico letterario, se sembri a lui che nella critica contemporanea la cosiddetta critica psicologica e cito Giacomo De Benedetti tanto per fare un nome – che è quello che mi pare abbia dato più valore a questa critica psicologica – se questa critica psicologica è o si può chiamare addirittura psicanalitica e se in altri critici oltre il De Benedetti, questa coscienza dell’inconscio è presente ed è strumentalizzata al punto di chiarirci meglio, come ha fatto la Bonaparte per l’opera di Edgar Poe, certi risultati letterari.
SPAGNOLETTI. Per quanto riguarda la nostra letteratura si può dire che questo tipo di indagine sia ancora da affrontare e può anche darsi che noi con la nostra indole, con la nostra sensibilità, lo vogliamo già scartare come non necessario, come non definitivo nei confronti dell’individuazione del fatto artistico, del fatto letterario. Ma, per esempio, c’è stato nel tempo qualcosa di non propriamente letterario, bensì di critica applicata alla letteratura per esempio c’è stato il movimento triestino di Weiss se non baglio, del quale anche Svevo, a quanto io so, ebbe sentore. Poi qualche altro contributo. ma sempre e soltanto di specialisti…
BIGIARETTI. Io ho fatto il nome di De Benedetti per parlare di critica letteraria.
SPAGNOLETTI. Purtroppo io non posso dire che esista una corrente di critica psicanalitica come si può dire degli Stati Uniti o della stessa Francia ecc. Manca, vale a dire, un training italiano. Il nome di De Benedetti serve invece molto a stabilire quelle che sono in fondo le frontiere a cui siamo giunti finora su questo terreno. De Benedetti che ha poi studiato Svevo, ha studiato anche Saba ed anche Proust, indi tutti esempi clamorosi su questo piano, però non con quella mentalità, con quella mens psicanalitica, né con l’intenzione di giungervi. Psicanaliticamente lo stesso De Benedetti forse si troverebbe di fronte anche lui ad un imbarazzo nel riconoscersi di aver adoperato strumenti di osservazione psicanalitica.
SERVADIO. A questo punto vorrei chiedere proprio a voi letterati la risposta ad un quesito di fronte al quale io mi sento impotente. Mi spiego: in un lavoretto su « Critica e Psicanalisi », pubblicato a suo tempo, ho detto questo, che vorrei sottoporre al vostro giudizio. Ho detto: l’analisi più accurata dei complessi di Amleto non spiega perché l’Amleto sia un capolavoro; l’uso più rigoroso e pertinente dello strumento analitico non può farci capire perché un’opera come i Fratelli Karamazov sia, oltreché ricca di felicissime e profonde costruzioni psicologiche, un grandissimo romanzo, mentre La Gradiva, in cui Freud giustamente ravvisa intuizioni eccezionali, degne di una storia clinica, sia un racconto letterariamente così mediocre.
BIGIARETTI. Qui andiamo addirittura alla ricerca delle ragioni dell’arte e non so se lei, padre Grasso, ci vuole dire qualcosa su questo.
Padre GRASSO. Vorrei per un momento allargare il problema psicanalisi e letteratura e arrivare alla situazione attuale dell’uomo. Io penso che la psicanalisi non possa spiegare certi atteggiamenti nell’uomo di oggi o nel letterato di oggi, ma per me la spiegazione ultima di questi atteggiamenti, di questo male oscuro, di questo disagio, di questa noia di cui parla Moravia mi sembra essere di carattere metafisico.
Vale a dire l’uomo di oggi é un uomo staccato da una prospettiva, dall’unica prospettiva nella quale egli può capire se stesso. L’uomo è un essere fatto da un altro, non si è fatto da sé, nulla è più evidente di questo; ognuno di noi nasce e muore, e se non si è fatto da sé, non ha in sé stesso il proprio fine. Se è fatto da un altro ha il suo fine in Colui che lo ha fatto. L’automobile è un oggetto fatto da un altro ed il fine dell’automobile è fuori di esso, cioè è nell’uomo a cui deve servire.
Ora a me sembra che l’uomo di oggi ha dimenticato questa prospettiva nella quale soltanto si può inserire. In un primo tempo ha dimenticato di essere un essere contingente fatto da un altro, e specialmente di essere un essere relativo cioè fatto per un altro, fatto in vista di un altro. Si è pensato come un essere a sé stante, si è chiesto: Chi sono io? Ha cercato di analizzare se stesso, le sue tendenze, la tendenza alla felicità, la tendenza alla verità, la tendenza alla bellezza, la tendenza alla bontà, cioè a valori che danno un senso alla vita. L’uomo li ha cercati prima in se stesso, e non li ha trovati; poi li ha cercati nel mondo al di fuori, e non li ha trovati; allora ha cominciato a chiedersi: ma io chi sono? Si è accorto che veramente è un essere fatto da un altro, un essere contingente.
Specialmente Heidegger nella sua filosofia ha addirittura esasperato questo aspetto dell’uomo: l’uomo è fatto, l’uomo non è se stesso, l’uomo è in bilico tra l’essere e il nulla.
E allora di fronte a questa constatazione, cioè all’impossibilità di ritrovare se stesso, di dare un senso alla vita, l’uomo prima è rimasto sorpreso; dopo si è lamentato di questo stato di fatto e finalmente, quando ha avuto il coraggio, ha protestato; ma ha protestato contro che cosa, contro chi? Contro qualcuno che egli stesso non sa chi sia.
Quando noi leggiamo Camus, per esempio, noi troviamo magnificamente descritto questo stato d’animo. L’uomo protesta, l’uomo si rivolta: ma se gli domandiamo contro chi protesta, non lo sa dire; dovrebbe protestare contro Dio, ma in Dio non ci crede; e allora contro chi protesta? L’uomo è fatto male. Chi l’ha fatto quest’uomo? Lui non lo sa.
Insomma il fatto che l’uomo di oggi si sente un enigma, un mistero, dipende appunto dalla circostanza che l’uomo non riconosce la sua natura, quello che è. Se noi prendiamo una rotella d’orologio e non sappiamo che appartiene ad un orologio che è fatto per misurare il tempo, questa rotella è un mistero per noi: perché è tonda? Perché è fatta di questo metallo? Perché ha i denti? Perché i denti sono orientati in questo determinato modo? Non sappiamo rispondere; nessuno lo sa. Ma appena noi mettiamo quella rotella nell’orologio, allora il mistero scompare: noi capiamo benissimo che quella rotella è fatta per misurare il tempo, è fatta per essere parte di un ingranaggio che deve misurare il tempo, ed allora ci spieghiamo tutto.
L’uomo di oggi si trova appunto in questo stato e non ha il coraggio di dire a se stesso: sono un essere fatto da un altro, ho fuori di me il mio fine. E’ un caso di psicanalisi. L’uomo sa di non essere un assoluto, ma neppure un relativo: e che cosa è allora? Lui stesso non lo sa. Dice uno scrittore di oggi, di cui non ricordo il nome, che l’uomo dopo essersi creduto Dio, cioè l’assoluto, ricorre agli psicanalisti per sapere perché è un povero diavolo. Io non so se l’espressione è esatta ma ad ogni modo qualcosa di vero c’è. L’uomo non si capisce più. Qual’è il rimedio contro questa situazione? Io penso che il rimedio, stia nel fare un atto di coraggio e riconoscere la verità, di essere cioè fatti da un altro e per un altro. Perché l’uomo di oggi non ha questo coraggio? Lo domando a voi che siete o psicanalisti o letterati o appartenenti ad altri rami dello scibile. Perché l’uomo dopo aver constatato questo fallimento che egli ha fatto sul piano umano non ha il coraggio di riconoscere la verità, di guardarla in faccia e di tornare sopra se stesso? Io sono certo che un giorno o l’altro ci tornerà, perché la malattia non è la condizione normale dell’uomo; l’uomo è fatto per essere sano, per stare bene, per vivere.
BIGIARETTI. Di fatto mi pare che l’uomo abbia alternato a questi momenti di protesta e di malattia altri di esaltazione, di interpretazione. Anche ammettendo questo principio finalistico, questo destino gregario dell’uomo che è fatto soltanto per servire contingentemente ad un disegno che lui non conosce, sta di fatto però che l’uomo anche dentro questa misura così limitata, ha avuto momenti in cui non sentiva la sofferenza di vivere o, e anche la sentiva, non gli pesava, come è nella crisi di oggi.
Mi pare che insomma la sua tesi non basti a spiegare il momento.
Padre GRASSO. Io penso che in un primo momento realmente l’uomo ha avuto la sensazione di farcela da solo, ed è stato appunto nel secolo scorso con Hegel.
BIGIARETTI. Ma sono momenti troppo brevi…
Padre GRASSO. Poi quando l’uomo si è specchiato negli orrori delle due guerre mondiali ha perduto ogni fiducia in se stesso ed e caduto nello stato d’animo che ho descritto.
BIGIARETTI. Guardi, anche le guerre mondiali con tutto il loro orrore e le loro tragedie forse sono una dimensione ancora piccola rispetto a quello che deve essere. E poi non è questo il punto da discutere. Noi ci stiamo allontanando dal tema effettivo del dibattito.
SERVADIO. Vorrei dire qualcosa, anche per riportare la discussione sul tema, a proposito della psicanalisi conte strumento di conoscenza. Molte volte si fa alla psicanalisi una critica che forse la psicanalisi non merita, perché le si attribuisce la pretesa d essere un’interpretazione della vita, una chiave che apre tutte le porte: questo non è vero affatto. Noi psicanalisi – gli psicanalisti seri – non parliamo mai di « anima »; tutt’al più parliamo di psiche, o meglio ancora di apparato psichico, noi siamo dei tecnici, cerchiamo di interpretare dei processi psichici e di farli funzionare. Per cui, ad esempio, nessun psicanalista si arrogherà il diritto, se domani analizza un letterato, di dirgli, di indicargli quale via deve seguire: questo è affar suo. Noi cerchiamo di metterlo nella situazione migliore per poter creare secondo le sue possibilità; allo stesso modo uno psicanalista non darà mai una Weltanschaung, non darà mai un’interpretazione del mondo, in assoluto; ognuno se la deve cercare per conto proprio. Quindi la psicanalisi, contrariamente a quanto si crede, è molto rispettosa dei valori religiosi; salvo che certi presupposti o certi slogans o certi atteggiamenti di tipo religioso non siano messi al servizio della nevrosi, perché allora – noi abbiamo il dovere di affrontare anche questi problemi.
Padre GRASSO. Mi sembra molto giusto.
SERVADIO. Così ha scritto recentemente il Padre Snoeck, belga in Confessione e Psicanalisi, mettendo chiaramente in luce i limiti dell’una e dell’altra ed il rispetto reciproco. Quindi la psicanalisi deve essere un sussidio, un aiuto all’uomo per superare alcune delle sue difficoltà, ma mai e poi mai dovrà invadere il campo della metafisica.
BIGIARETTI. Ora vorrei sentire Berto se è d’accordo su questo ridimensionamento che ha fatto Servadio, che a me sembra giustissimo, della psicanalisi.
BERTO. Se l’ha fatto Servadio io non posso che essere d’accordo.
Ma il problema è un altro: Padre Grasso andava a cercare le cause di questa diffusione della nevrosi : allora le cause sono moltissime e ci può essere anche questo smarrimento del senso di Dio, che senza dubbio ha contribuito. E’ molto più difficile che cada nella nevrosi uno che può appigliarsi a questa fede; tuttavia esistono anche altri casi. In questo periodo ricevo molte lettere di nevrotici e alcuni sono religiosi, credono in Dio, nel Dio vero, e sono nevrotici. Quindi la fede può aiutare, ma in certi casi non aiuta neanche quella, né la fede può risolvere delle cose che vanno risolte con la psicanalisi, con altri sistemi di cura. Ma tornando al tema specifico del dibattito, anche dietro l’invito di Servadio, devo premettere che io – scrittore – ho affrontato la psicanalisi e l’ho affrontata come atto di disperazione; qualsiasi cosa mi avesse dato un minimo di speranza l’avrei accettata. Ma avevo paura. Perché? Avevo paura che la psicanalisi potesse modificare talmente la mia personalità da fare un altro me stesso.
Il che è sbagliato assolutamente. Essa può solo chiarirmi, può sviluppare certe tendenze che sono in me, ma quella che è la mia personalità e la mia capacità di scrittore, non può cambiarla nessuno; può darmi del coraggio di esprimermi, può darmi delle forze che sono in me e che io non riesco a tirar fuori, ma non può cambiarmi, come non può cambiare – e questo per tranquillizzare padre Grasso – il senso religioso di una persona.
BIGIARETTI. Né può dare la chiave, appunto, per capire i fenomeni religiosi…
BERTO. Né può suggerire il sistema di scrivere un libro.
SERVADIO. Vorrei fare un’osservazione, in proposito, che mi sembra abbastanza utile, in alcuni casi si è visto che degli scrittori analizzati hanno modificato in meglio le loro possibilità di espressione. Vi è stato un caso molto interessante, pubblicato alcuni anni fa, che interesserebbe molto voi letterati, di uno scrittore francese, un poeta: in uno studio sulla storia clinica di questa persona, avuto il consenso dell’autore, sono state pubblicate le poesie che egli scriveva prima dell’esperienza psicanalitica e le poesie che scriveva dopo. Ora io non sono un critico letterario, ma francamente c’è un tale respiro, una tale potenza, insomma, in quello che scriveva dopo, da dover ammettere che la cura psicanalitica ha raggiunto effetti sorprendenti.
BERTO. In fondo la psicanalisi è una cura e come cura è un mezzo di istruzione cioè di rapire meglio come siamo fatti, il nostro spirito, il nostro modo di pensare, di capire, di agire.
SERVADIO. Io ho avuto soltanto uno scrittore in analisi, un americano, il quale è venuto da me per la solita ragione per cui gli scrittori vanno in analisi, e cioè perché non poteva più scrivere. Erano tre anni che, dopo aver pubblicato un romanzo che aveva avuto un notevole successo, non riusciva più a comporre un libro. Ed il risultato è stato che ha pubblicato poi, dopo l’analisi, un altro romanzo che ha avuto molto più successo del primo e che è stato tradotto in 5 lingue. Naturalmente io non sono in grado di dire se il suo stile rispetto a prima fosse migliorato o peggiorato; ad ogni modo, questo per confermare che effettivamente ci sono di questi sblocchi.
BIGIARETTI. Ecco, se permettete, a proposito di sblocchi o di blocchi nello scrittore, vi è un caso flagrante, un caso molto singolare, e cioè quello della Cognizione del dolore di Gadda. Gadda non si è mai analizzato, almeno che io sappia, e voi pensate che il metodo diciamo angoscioso che ha portato Gadda (il metodo mentale) a riepilogare la storia propria con la madre ed a proiettarla su quello sfondo anche direi troppo riconoscibile di Lombardia, di ambienti particolari, ecc., voi pensate che questo metodo avrebbe avuto un aiuto da una cura psicanalitica?
SPAGNOLETTI. Il problema di Gadda nevroticamente credo che sia abbastanza grave; cioè il blocco ce l’ha anche lui e lo si vede chiaramente nel Pasticciaccio e nella Cognizione del dolore, che sono romanzi impostati con dei fatti grossi dentro.
Nel Pasticciaccio c’è un delitto, e La cognizione del dolore prevede un delitto che poi non c’è: sono degli inizi, delle ipotesi-romanzo che partono con una rigorosa impostazione, controllata, precisa, che poi si perdono e Gadda non riesce a portarli a termine. Credo che stia lavorando da anni sulla continuazione del Pasticciaccio e non ce la fa. E questo è un fenomeno nevrotico: Gadda è ammalato. Che poi questo inizio di romanzo che è la Cognizione del dolore, sia un meraviglioso ritratto nevrotico, questo è indiscutibile. Né possiamo dire che con la psicanalisi Gadda avrebbe raggiunto il suo scopo. Non lo può dire nessuno, perché rientra nel famoso mistero dell’arte che Freud diceva che non si può spiegare psicanaliticamente. Però per la comprensione di questo libro potrebbe essere molto utile la psicanalisi.
SERVADIO. Confesso che non l’ho letto per cui non mi posso pronunziare.
BIGIARETTI. Il più bel ritratto li nevrotico che si posa immaginare, proprio stupendo, è la Cognizione del dolore. E’ l’inizio di un romanzo che avrebbe potuto essere di 10 mila pagine, secondo me; c’è tutto dei temi freudiani e non credo che Gadda ne fosse consapevole, ma di certo se li portava dentro.
SPAGNOLETTI. E che cosa diresti, Berto – qui abbiamo parlato del fatto positivo della psicanalisi come possibilità di aiuto – ad esempio del caso negativo? Di uno che come Zeno, il personaggio della Coscienza di Zeno, ride continuamente della psicanalisi? Cosa diresti tu che hai fatto un’esperienza in tal senso?
BERTO. Va bene, arriviamo alla forma dell’humor, cioè Zeno. E’ chiaro che Svevo ha verso la psicanalisi un atteggiamento ambivalente di fiducia e fiducia, di dedizione e di paura. Ma questo secondo me è logico: cioè un nevrotico non può venire a contatto con la realtà se non attraverso un senso dell’humor che si riscontra in Svevo e si riscontra in Gadda…
SPAGNOLETTI. Ed anche in te, in molti casi.
BERTO. Sì, e lo spero.
SPAGNOLETTI. Nel tuo libro è molto evidente.
BERTO. Ma io credo che per un nevrotico non c’è assolutamente nessuna situazione all’infuori di quell’umorismo, perché se la dovesse affrontare così, di petto, credo che o non scriverebbe, oppure crollerebbe.
SPAGNOLETTI. I pessimi romanzi americani sono fatti credendo sul serio in queste cose.
BERTO. La psicanalisi non può dare a nessuno i mezzi per scrivere un libro; non può fare di nessuno un artista.
SERVADIO. Io vedrei l’umorismo un po’ più dal punto di vista psicanalitico.
Tutti sapete che uno dei libri. Secondo me tra i più interessanti, più affascinanti, di Freud è intitolato « Il motto di spirito ed i suoi rapporti con l’inconscio ». E come è nato questo libro? Freud si accorse, ad un certo punto, che certi enunciati psicanalitici facevano sorridere o ridere, e si domandò il perché. E si propose quindi tutto il problema dell’umorismo, della comicità e via discorrendo. Naturalmente anche questo dell’umorismo e del comico è un tema infinito, ma mi pare che Berto ha toccato un punto molto giusto nel senso che l’humor è un meccanismo di difesa è un filtro attraverso il quale noi possiamo entrare in contatto, per vie un po’ traverse, con l’inconscio, il quale inconscio è una gran brutta bestia e non si può affrontare di petto. Difatti l’analista esperto che cosa fa? Le interpretazioni le gradua, le da tempestivamente, al momento giusto, perché altrimenti non dà al paziente quei senso di illuminazione che si accompagna sempre, notate bene, con un sorriso – vero Berto? – quando è toccata con mano una realtà; ma questa deve essere presentata con la forma giusta perché altrimenti la reazione non è quella del sorriso o del riso, ma è una reazione di terrore, di angoscia. Perché non si può affrontare l’inconscio in presa diretta, tant’è vero che quei sogni in cui l’inconscio si presenta troppo scopertamente ci fanno svegliare coperti di sudore, in angoscia. Questa è la funzione dell’umorismo. Quindi mi pare molto importante quello che ha detto Berto della virtus filtrante e quindi letterariamente valida dell’umorismo, perché la realtà reinterpretata dallo scrittore deve sempre avere una leggera, anche lontana, vena di distacco e quindi, in un certo senso, colorarsi di lieve ironia.
BIGIARETTI. Il caso di Berto è un caso un po’ particolare: noi siamo tutti d’accordo su questo. Lui ha scritto un libro, un ottimo libro, proprio riferendosi ad un’esperienza diretta di analisi. Io vorrei domandare se pensa che questa influenza e questo lungo processo di guarigione psichica ha lasciato il segno fino al punto che condizionerà anche il suo lavoro successivo o se, invece, egli ha desiderio di staccarsi da questa esperienza e di applicarla soltanto in questo libro con il quale si è, in un certo senso, liberato.
BERTO. Il Male oscuro è un libro particolare, in un certo senso una confessione e quindi esigeva quel determinato stile. Io credo di non poter dimenticare né la psicanalisi né lo stile con cui ho scritto questo libro. Cioè arriverò in seguito, se mi sarà possibile, ad una forma di equilibrio tra quello che era il mio modo di scrivere precedente e quello di quest’ultimo romanzo. Spero di riuscire a trovare l’equilibrio, ma sicuramente non tornerò alla prima maniera di scrivere. Questo è impossibile. Anche perché la psicanalisi significa, secondo me, un arricchimento delle capacità di penetrazione psicologica del personaggio alle quali io, non potrei rinunciare in nessun caso, mai più.
BIGIARETTI. Ecco, questo è proprio il tema: mi ha colpito appunto il fatto che tu abbia detto « io non dimenticherò la psicanalisi ». Vale a dire, allora, che tu porterai questa esperienza della psicanalisi proprio come strumento di indagine anche in altri tuoi libri; cioè tu senti che una ricerca psicologica senza l’ausilio di questa tua esperienza non sarebbe sufficiente per te.
BERTO. Per me non sarebbe sufficiente perché ormai vedo le cose in quel determinato modo, e mi sembra un modo giusto.
BIGIARETTI. Quindi per te è stata condizionante questa terapia.
BERTO. E c’è dell’altro. Questo libro, Il male oscuro, ha assorbito della psicanalisi proprio gli strumenti espressivi che sarebbero quelli della libera associazione…
BIGIARETTI …del discorso, dell’influsso, così ….
BERTO. Con un’aggiunta, in più, cioè una particolarità che è questa:
di riportare al presente, cioè ad una dinamica attuale, tutti quelli che sono i ricordi che giacciono nell’inconscio; non serve questo ad una ricostruzione di cose lontane ma vuole portare proprio al momento in cui si narra, al momento in cui il personaggio pensa e narra e agisce tutti quelli che sono i suoi sentimenti inconsci e che determinano la sua condotta. In questo senso, forse, c’è qualcosa di nuovo nel modo di scrivere questo libro: l’aver portato tutto a questa forma di presente. C’è il presente storico, il presente della narrazione e c’è questo presente psicanalitico che qualcuno ha preso per piattezza e cioè qualche critico ha scritto che tutto viene messo su di un piano; ma in questo senso, consciamente o inconsciamente questo è voluto perché appunto tutto quello che avviene nell’individuo, anche ciò che ha dimenticato, agisce in lui ed agisce dinamicamente, e nel momento in cui questo personaggio ne diventa cosciente, ne diventa cosciente proprio come di un fatto attuale.
SERVADIO. Vorrei fare un’osservazione a proposito di questo presente al quale ha accennato Berto, che trova il suo riscontro proprio nell’esperienza clinica. Il paziente effettivamente «distanzia» quando racconta. Egli infatti dice, sì, mi ricordo che, non so a 3, a 4 anni mi è successo questo in questa o in quella circostanza: però in certi momenti molto particolari il passato veramente ritorna e credo che ogni analista ha avuto nella sua esperienza qualche momento, con qualche paziente, estremamente drammatico, in cui al paziente, per un istante, è sembrato veramente di rivivere hic et nunc quello che gli era successo. Io ricordo una crisi veramente impressionante di una mia cliente la quale ad un certo punto rievocava il fatto che una donna, d’altronde affezionata ma un po’ soverchiante, che aveva avuto una parte importantissima nella sua infanzia, la teneva stretta e le diceva: «Sei mia, sei mia ». Il che, a lungo andare, le aveva dato proprio un senso di non « essere » nessuno, di appartenere a qualcuno e basta, di non essere se stessa. Ed è stata talmente presa da questo ricordo che si è messa a gridare, piangendo: « No, io non sono tua!» o proprio come se l’avesse vissuto in quel momento, ed erano ricordi, in fondo, di molti anni prima, perché era una donna sulla trentina e rievocava le sue vicende di quando aveva 3 anni o meno ancora. Lì, tutto era ridiventato presente; lì non era stato possibile quel filtro, quel sorriso, quell’ironia, come vogliamo chiamarla, che è quella che permette poi al paziente di distanziare la propria esperienza. Per un momento la donna l’aveva vissuta, si direbbe quasi, psicoticamente, come se ci si fosse immersa a capo fitto.
Quindi mi pare che ancora una volta l’osservazione di Berto ha risposto veramente al tema « psicanalisi e letteratura ».
BIGIARETTI. Oltre a questo, a me preme riaffermare che c’è un fatto culturale oltre che creativo da mettere in evidenza e cioè che la psicanalisi proprio come elemento culturale è entrata certamente, diffusa, capillare quanto si voglia, ma è entrata se non nella coscienza, proprio nelle cognizioni dello scrittore. E mi interessa separare il fatto personale o il fatto clinico o il fatto terapeutico anche dal fatto proprio culturale, cioè l’apporto della psicanalisi come cultura che, se non è determinante ai fini naturalmente di condizionare uno scrittore in meglio o in peggio, esiste veramente come fatto nuovo della cultura, anche letteraria E’ certo che un qualunque romanzo psicologico non è più quello di Flaubert, tanto per fare un esempio. Anche se Flaubert, senza la psicanalisi è andato molto a fondo, è chiaro che oggi si può lavorare con questo nuovo apporto. –
Su altri casi, oltre a quello di Berto che ormai è abbastanza circoscritto, vorrei sentire il parere di Spagnoletti: altri casi in cui la presenza di questa coscienza dell’inconscio esiste, è verificabile criticamente.
SPAGNOLETTI. Direi di sì. Verificabile criticamente sì, se noi guardiamo certi testi di poesia specialmente di quella più a noi vicina; per esempio proprio quest’anno è uscito un volume di versi « Variazioni belliche » di Amelia Rosselli, che sembra quasi un testo clinico.
Questo però non vuol dire che si tratta di un esperimento riuscito al 100 per cento; comunque ci sono dei rapporti abbastanza vicini tra espressione diciamo clinica ed espressione letteraria.
Per quanto mi ricordi, anche in Pasolini, nella ricerca spasmodica che si avverte nella narrativa ed anche nella poesia…
BIGIARETTI. La poesia alla madre?
SPAGNOLETTI. La poesia alla madre ecc. ecc. Ci sono fatti che possono essere interpretati in questa chiave. E dirò, perfino nel «Vangelo secondo Matteo» ci sono anche degli elementi che possono benissimo interessare la psicanalisi, come per esempio il fatto che Pasolini ha sentito il bisogno addirittura fisico di vedere la madre come madre di Cristo mentre Cristo veniva inchiodato nella croce. Questo è un fatto talmente scoperto che può essere unicamente un fatto psicanalitico.
SERVADIO. Io direi che si tratta di un fenomeno di identificazione con Cristo.
BIGIARETTI. E’ un fenomeno di sublimazione del proprio io, del proprio dolore, della propria sofferenza.
SERVADIO. Ci sarebbero dei problemi molto interessanti e molto particolari da sottoporre e da discutere con voi, cioè p. es. l’artista oggi esprime attraverso la sua opera direttamente le sue fantasie inconsce (naturalmente più o meno trasfigurate, sublimizzate, quello che si vuole), oppure è giusta la tesi del Bergler quando sostiene che quello che veramente traspare nell’opera d’arte sono piuttosto le difese dell’artista, contro, diciamo, le sue stesse tendenze più profonde?
Ora questo è veramente un punto che è forse più di competenza dei critici e dei letterati che non degli psicanalisti, a meno che uno psicanalista non abbia fatto degli studi molto particolari su questo o quel letterato e sia arrivato a delle conclusioni di questo genere. Per esempio io ho tentato di fare qualcosa di simile a proposito di Melville e specialmente di Moby Dick, in cui mi pare che veramente i drammi più profondi di Melville, dopo vari tentativi di camuffamento nei suoi libri precedenti, siano arrivati infine scopertamente o quasi scopertamente alla luce. Perché in fondo tutta l’ira aggressiva di Achab contro la balena bianca mi pare che celi abbastanza chiaramente un desiderio di immolazione, idi autosacrificarsi a questo enorme simbolo materno, che è poi la stessa balena bianca.
B1GIARETTI. Anche se il simbolo della balena è estremamente discusso.
SERVADIO. Eh, io non poso smentire il mio stesso punto di vista. Se un sogno di quel genere apparisse nei sogni di un paziente, credo che non vi sarebbero molti dubbi su quel che può significare. Quindi io vedo qui un caso abbastanza tipico, direi estremamente semplice, di un atteggiamento sadistico, aggressivo, che è fatto per coprire, per smentire un atteggiamento masochitico. In fondo Achab « fa » il violento e il persecutore, è il tipo che si accanisce contro la balena bianca per smentire il suo più profondo desiderio di immolarsi, e perdersi con questa balena nella simbiosi allucinante con cui termina il romanzo.
BIGIARETTI. Un altro caso particolare, direi l’inverso del nostro Berto, è il caso di Umberto Saba il quale era fortemente intricato nella psicanalisi. Si era analizzato mille volte, conosceva tutto ed il suo freudianesimo era così esclusivo che per lui l’ingiuria più grossa che poteva dirsi – e tante volte me l’ha rivolta a me scherzosamente – era quella di Junghiano. « Parli come uno junghiano »! Come un cretino, insomma. Di tutto questo nella sua opera non ve n’è traccia, in un certo senso, perché a parte un complesso materno che in lui però ha una radice talmente scoperta, biografica di vicende familiari, cioè il padre che abbandona la madre ecc. ecc., in fondo non c’è altro. Tutto viene così disteso, sublimizzato da questa grazia poetica del discorso.
SERVADIO. C’è il totemismo nella famosa poesia alla moglie, quando la paragona a tutta una serie di animali.
BERTO. Però Saba ha cercato di dire il più possibile, mentre al polo opposto c’è Zanzotto, per esempio, gran tipo di nevrotico che ci mette tutto dentro; e veramente credo che sia il caso più interessante di poesia psicanalitica.
BIGIARETTI. Io ho fatto l’accenno a Saba perché mi interessava sentire da Servadio, che indubbiamente conosce l’opera di Saba, se invece queste tracce di ordine psicanalitico che a me sembrano così nascoste, sono invece riscontrabilissime.
SERVADIO. In generale guardando tutta la poesia di Saba nel suo assieme, si vede una poesia molto limpida, non complessuata; ma questo però mi pare che servirebbe a confermare il fatto che l’artista, il vero artista, in fondo traduce le sue difese nella sua opera.
BIGIARETTI. E infatti le ultime poesie, Saba le ha scritte a Monte Mario, dove io andavo a trovarlo spesso, dove ho passato delle giornate con lui, ed in un periodo di estrema angoscia e di desiderio di morte che lui continuamente invocava; ed ogni tanto lui diceva: adesso ti faccio leggere la mia ultima poesia perché dopo questa morirò. Poi ne ha scritte altre. Ma erano sempre, in fondo, poesie liberatrici, dove l’angoscia non c’era più, ed erano poesie veramente piene d’amore.
SERVADIO. Tornando a Zanzotto, io ho letto qualche poesia di Zanzotto e confesso che vi ho capito pochissimo. Per me è una poesia estremamente ermetica, che presenta delle oscurità terribili; e non mi pare che qui lo strumento della psicanalisi sia a favore della resa poetica.
SPAGNOLETTI. Non sono d’accordo. Io contesto che in Zanzotto ci sia questa componente di materiali psicanalitici o psicopatici gettati così alla rinfusa.
BERTO. Oh, non alla rinfusa, ma con estremo rigore.
SPAGNOLETTI. Con estremo rigore intellettuale.
SERVADIO. Ecco, io mi ricordo di determinati films in cui certe idee, certi principi, certi concetti psicanalitici sono messi così scopertamente alla ribalta, da nuocere alla loro riuscita.
Ricordo che molti anni fa, mi dispiace in questo momento di non ricordarmi il titolo, vidi un film che a me fece molta impressione perché quello che lo aveva fatto la doveva sapere abbastanza lunga. Poi, rivedendolo, vidi nei titoli di testa una cosa che mi era sfuggita; diceva: consulente Helene Deutsch. Grazie! Se il regista si era valso della consulenza di Helene Deutsch che è una delle più grandi psicanaliste del mondo, la riuscita del film era comprensibile. Capii che lì c’era stato tutto un lavorio sotto sotto che non traspariva affatto. La parola psicanalisi non era mai menzionata; però si sentiva che chi aveva fatto quel film sapeva assai bene il fatto suo.
Tornando poi alla letteratura, vorrei fare un esempio di romanzo in cui indubbiamente certe nozioni psicanalitiche sono strumentalizzate a dovere ma dove beninteso la psicanalisi non è mai nominata: « Felicità proibita » di Zweig. Quella è un’opera in cui c’è ottima conoscenza di psicologia profonda; anche Zweig la sapeva piuttosto lunga in proposito, ma non lo rivela. Zweig a suo tempo scrisse un saggio su Freud, ben noto, che è uno dei più belli in proposito che abbia letto; da ciò si desume fino a che punto conosceva la psicanalisi, in tutta la sua opera si sente l’uomo che ha scavato, si ha della vera psicologia.
BIGIARETTI. Ma tu che sei stato in America e hai preso contatto con gli studiosi americani, sai che lì esiste una volgarizzazione della psicanalisi come terapia, per cui tutti se ne servono.
Per esempio al livello proprio dei gialli settimanali vi sono moltissimi casi in cui questa estrema volgarizzazione diventa veramente intensa ed appassiona il lettore.
SERVADIO. E questo è deplorevole…
Dal punto di vista clinico, però, vorrei sfatare un errore molto diffuso, quello di credere cioè che in America molte persone si fanno psicanalizzare. Non è materialmente possibile, perché gli psicanalisti, in America, sono pochissimi, per le esigenze di una popolazione così importante e anche così consapevole.
BIGIARETTI Ma c’è chi sostiene che sia molto diffusa nelle classi agiate.
SERVADIO. Bisogna vedere che cosa vuol dire molto diffusa, perché in tutta l’America gli psicanalisti riconosciuti che fanno parte della Associazione Psicanalitica Americana, non arrivano a mille. A New York ce ne saranno 200. Ma cosa sono 200 per una città come New York? Una volta un giornale pubblicò un articoletto: « In America si va dello psicanalista come si va dal parrucchiere ». Io dico, provate. Andate da un vero psicanalista, andate da un Eidelberg, da un Lorand, e domandategli di prendersi in analisi: vi dirà, ripassi tra 3 anni.
BIGIARETTI. Sarebbe interessante dirottare per un momento dal tema specifico del dibattito e chiedere al Padre Grasso se la diffusione della psicanalisi nei Paesi fortemente cattolici dove c’è un’abitudine alla confessione religiosa sia minore che in altre parti. Inoltre, secondo lei, la confessione religiosa, a parte i suoi fini spirituali, è liberatrice per chi la fa? E’ liberatrice quanto un’analisi psicanalitica che potremmo chiamare confessione laica?
SERVADIO. La confessione si basa sul pentimento, l’analisi su un processo di auto-riconoscimento.
BIGIARETTI. Cioè non per essere assolti o condannati, ma nel senso proprio di liberazione da qualche cosa che preme sulla coscienza.
SERVADIO. Però può essere di buona speranza adesso l’Enciclica di Paolo VI che si basa tutta sul dialogo, cioè un dialogo che può avvenire anche fuori della confessione tra il clero e chi crede o chi è contrario o chi non è contrario. Cioè ha allargato moltissimo questo concetto del dialogo che non investe direttamente la confessione, ma è sempre una forma di comunicazione.
Padre GRASSO. Indubbiamente confessione e psicanalisi s’interessano a vicenda. Essendo l’uomo un composto di spirito e materia, sostanzialmente uniti in modo da formare un solo soggetto di operazioni e di coscienza, tra i fenomeni psichici, esaminati dalla psicanalisi e quelli morali, oggetto della confessione viene a stabilirsi una zona d’incontro. Tuttavia le due realtà sono su due piani diversi. La psicanalisi studia i fenomeni dell’incoscio, la confessione quelli della coscienza chiara e della responsabilità. La confessione inoltre ha come scopo non la liberazione psicologica da una malattia nervosa, ma il perdono dei peccati e richiede la manifestazione delle colpe commesse, in quanto ciò è necessario al confessore per formarsi un giudizio dello stato del penitente, per vedere se è possibile dargli l’assoluzione. Le due realtà sono, quindi, ben distinte: se talvolta vengono opposte tra di loro, ciò dipende da un’invasione di campo, dal fatto cioè che la psicanalisi cerca di spiegare i fenomeni della coscienza chiara come travestimenti dello incosco nel quale si troverebbe la ragione ultima dei nostri atti. Ciò proviene da una concezione della realtà che non è quella in cui si muove il mondo della confessione inconcepibile senza Dio. La liberazione perciò cui tende la psicanalisi e quella cui tende la confessione sono diverse: la confessione libera dal peccato riconciliando l’uomo con Dio.
BIGIABETTI. Veramente io ho posto la domanda con la coscienza appunto che le due confessioni non siano assolutamente identiche e l’ho fatto proprio per portare il discorso su questo piano.
SERVADIO. Noi abbiamo tutto l’interesse di chiarire questo punto e mi rifaccio non ad uno psicanalista, ma a un padre gesuita, padre Snoeck. li padre Snoeck ha scritto un libro di cui mi permetto di consigliarli, Bigiaretti, la lettura: « Confession et psychanalyse ».
Il padre Snoeck dice appunto che c’è tutto l’interesse a mantenere separati i due campi ed a un certo punto con una formula molto buona, che non so se sia sua o se sia citata da un altro, dice: il confessore assolve e lo psicanalista spiega. Sono due cose molto diverse. Perciò il confessore non può, non avendo gli strumenti adatti, entrare nel merito dei meccanismi psicologici profondi che portano ad una determinata sindrome nevrotica non è il suo mestiere, a meno che non sia anche psicanalista.
Vi sono sacerdoti, psicanalisti, e in tal caso si possono anche occupare di una nevrosi sintomatica o caratteriale; e no, non è il loro mestiere. Né lo psicanalista si può arrogare una funzione spirituale che non è il suo campo, che non è di sua competenza. E come ho detto prima, l’unico aggancio che l’analista può avere nei problemi religiosi eventuali del suo paziente è quando si accorge che questi principi, questi motivi di carattere religioso, sono al servizio di una nevrosi. Io ho avuto diversi sacerdoti che mi hanno mandato dei loro penitenti in analisi. Diverse volte quando ero in India mi sono trovato in una situazione singolarissima, credo unica. Allo scoppio della guerra io ero a Bombay, sono stato messo in un campo di concentramento come italiano, e mi sono trovato con 400 o 500 missionari italiani: carmelitani, gesuiti, salesiani, francescani; ho fatto loro dei corsi interi di psicanalisi, ho tenuto dei seminari, come noi li chiamiamo, per due gruppetti che naturalmente sentivano quanto importante fosse per loro avere una certa conoscenza dello strumento psicanalitico ai fini del loro ministero. E’ inutile dire che in quel tempo, varie volte mi sono visto capitare nella mia tenda persone che erano andate da padre X o da padre Y e che poi erano state mandate da me per risolvere i loro problemi e conflitti, cose da vedere con l’analista. Così anche a Roma, diversi anni fa: ad un giovane che non voleva avere a che fare con la psicanalisi, che aveva strane idee in proposito, il suo direttore spirituale disse: « tu hai certi problemi che sono di competenza proprio dello psicanalista, va’ da uno psicanalista ». Così come io ho mandato diversi anni fa un mio paziente, anche lui in preda a gravi conflitti e sentimenti di colpevolezza perché aveva delle tendenze omosessuali molto pronunciate, e che mi disse: « Prima di entrare nel vivo di questa problematica vorrei confessarmi ». «Senz’altro». « Da chi potrei andare? ». Ricordo che io lo mandai dal mio vecchio amico, il compianto abate Ricciotti, che oltre ad essere quella personalità che era sul piano culturale, era anche persona di idee molto aperte. E questi gli disse delle cose veramente molto, molto intelligenti. Gli disse: « Figlio mio, guarda, tu non puoi oggi impostare il tuo problema in termini di peccato o di non peccato, perché sei coinvolto in una vicenda profonda di carattere psicologico che devi prima sbrogliare. Tu non sei libero in questo momento, sei attanagliato nelle spire di una nevrosi, di una situazione patologica: prima cerca di risolvere quelli, e poi ne riparleremo; quando sarai più libero diremo se quello che fai è bene o male, in questo momento non possiamo dirlo ».
E mi pare che fu una risposta, che più azzeccata non poteva darsi: non per niente lo mandai da Ricciotti, ben sapendo che grande apertura mentale aveva.
BIGIARETTI. Dopo questa puntualizzazione fra confessione religiosa e confessione laica, torniamo al tema del nostro dibattito.
SERVADIO. C’è qualche cosa ancora da dire circa le vicende psicologiche specifiche dello scrittore ed anche dell’artista in genere, cioè quali sono i loro problemi particolari. Io ritengo che lo scrittore, l’artista creatore, abbia trovato una specie di formula che gli permette di sfuggire ad alcuni conflitti fondamentali di base. Qui bisognerebbe introdurre dei concetti psicanalitici un pochino particolari. Secondo me uno dei conflitti più profondi dell’essere umano in genere è quello della dipendenza da quello che noi chiamiamo l’oggetto primario: la situazione madre-bambino. Molte nevrosi dipendono proprio, con dei riporti da altre situazioni evolutive, dall’impossibilità d potere sfuggire a tale situazione di dipendenza, da questo grande oggetto primario. Secondo me lo scrittore, l’artista creativo, riesce a sfuggire a questa morsa, perché per così dire si alimenta da sé, crea da sé il proprio nutrimento e ne dà parte anche agli altri. E’ una formula talmente meravigliosa che naturalmente lo scrittore ci tiene come alla pupilla dei suoi occhi. Per cui io osservai – non so se questo vi risulta – che gli scrittori o gli artisti sono delle persone che in fondo la nevrosi la sopportano e la portano addosso meglio degli altri, in un certo senso. Vi sono molti scrittori, molti artisti nevrotici i quali finché riescono a creare, finché riescono a scrivere, a dipingere o a comporre, non si sognano neppure lontanamente di andarsi a preoccupare della loro ulcera, della loro angoscia o delle loro insonnie o di altre magagne.
BIGIARETTI. E quando non possono più creare?
SERVADIO. Quando non possono più creare allora naturalmente viene meno lo strumento base, il principio vitale.
BERTO. Io sono della convinzione che questo fatto di scrivere o dipingere o comporre musica si debba pagare con una certa sofferenza. E quando poi rimane la sofferenza e non si riesce più a far niente, allora ecco che c’è lo scompenso.
SERVADIO. Non contesto questa sofferenza. Noi analisti diciamo: quando un individuo è nevrotico al punto che non può lavorare, è grave, perché ciò vuol dire che le sue autorità interne sono così severe che non accettano neanche quel certo sacrificio che il lavoro indubbiamente porta con sè. Cioè, per fare un paragone: è come se un padre fosse talmente severo da non permettere al figlio nemmeno di andare a scuola. Ve lo immaginate? Chi lavora, in fondo, è come il bambino che va a scuola. Il patire gli dice: va’ a scuola, fa’ il tuo dovere; ed il figlio va a scuola, ed è più o meno in buona con l’autorità paterna. Se neanche quello viene accettato, che cosa deve fare? Questa è un po’ la situazione. Ora però, secondo me, l’artista, lo scrittore, paga troppo, è disposto a troppo pur di potere scrivere o creare. Io ho visto tanti esempi di artisti che si lamentano in continuazione, per cui ci si domanda: Ma perché non provvedono in qualche modo? Nossignori: basta che possano scrivere o dipingere! Non è soltanto un relitto romantico creare soffrendo, mia qualche cosa di più fondamentale, secondo me.
Mi spiego meglio. Secondo me il masochismo è proprio la linfa della nevrosi, e siccome non esiste nessuno che non sia un pochino nevrotico, perché i cosiddetti normali sono i non troppo nevrotici, in fondo un pochino masochisti lo siamo tutti, per molte ragioni che sarebbe un pochino lungo e tecnico spiegare. Poniamo tutti con noi una certa carica masochistica. Ora io ritengo che gli artisti siano un po’ più masochisti degli altri, cioè si adattino un poco di più alla loro nevrosi, e purché possano in qualche modo esprimersi, la tollerano.
BIGIARETTI. Quando non diventa addirittura un compiacimento…
SERVADIO. Ah, sì, compiacimento, lo si vede chiaro in certuni.
BIGTARETTI. Per concludere il discorso nell’ambito di una discussione amichevole vorrei far notare, domandando poi il parere e il consiglio a Spagnoletti, che non è un caso che nella letteratura contemporanea quasi tutti gli scritti siano in prima persona; cioè c’è questo abbandono della terza persona, cioè del distacco quasi dell’autore dal personaggio e l’immedesimazione, quasi sempre, dell’autore col personaggio, proprio perché, evidentemente, nello scrittore è più presente la coscienza che questa scelta sia una valvola per liberarsi. Credo che Spagnoletti mi possa confermare questo. Cioè l’autore si identifica col personaggio, o si dichiara personaggio, protagonista del racconto, oppure si mette dentro un io nel quale però riverbera sempre il proprio io. Insomma, secondo me, i romanzi in terza persona si vanno rarefacendo.
SPAGNOLETTI. Si vanno rarefacendo nella misura in cui si accetta già il peso della propria soggettività, vale a dire è tutto un arco di esperienze che va compiendo l’uomo moderno, l’uomo moderno nella sua globalità, non soltanto come scrittore, ma come artista, come ricercatore ecc.
C’è tutto un arco di esperienze che accetta la soggettività fino in fondo, e quindi il peso della oggettività è tutto dato, secondo me, da questa zona di soggettività che egli ha presente; vale a dire l’oggetto diventa tanto più forte quanto più è forte in lui la presenza di questa soggettività. Da Proust in poi, in fondo, il romanziere quando dice « io », accetta, dal momento in cui parla, sia la presenza di se stesso come parlante, come soggetto di confessione ecc., ma dentro questo si scava la propria oggettività. Quindi tutto il problema del passaggio tra il naturalismo ed il soggettivismo della letteratura moderna è un prodotto di affinamento dei mezzi di percezione dello scrittore, cioè la forza dell’oggettività, nasce, scaturisce da questa coscienza di essere sempre e unicamente soggettiva.
La grande differenza che si, può fare è appunto con la letteratura di tipo classico, in cui lo scrittore non emergeva affatto come individualità, anzi si annullava; i grandi scrittori che sono stati tenuti anche a battesimo, diciamo così, in tutte le epoche, da Tacito a Cicerone ecc., quando parlavano, tranne quando ammettevano il proprio soggetto, in maniera particolare negli epistolari, che sono anche opere letterarie (vedi Petrarca, ecc.), tutti questi scrittori davano sempre per scontato che l’individuo che raccontava, che narrava, era fuori causa assolutamente. Mentre si può dire che dalla letteratura tragica del ‘600, da Racine in poi, è cresciuto questo bisogno che via via il Romanticismo poi aumenterà e porterà all’estremo, questo bisogno di accettare la realtà nell’ambito della soggettività. E quindi tutti i romanzi moderni non possono più prescindere da questo dato di fatto.
SERVADIO. Vorrei fare due osservazioni in proposito. Una di carattere puramente empirico ed analitico. Io mi sono accorto con una certa sorpresa che molto più frequentemente oggi che non 30 anni fa o più, quando cominciavo ad occuparmi di psicanalisi, i pazienti che riferiscono un sogno si riconoscono assai facilmente in uno o più d’un personaggio del sogno. Questo una volta lo facevano molto meno, e ci voleva un’interpretazione analitica per indicare che probabilmente questo o quel personaggio era un aspetto del sognatore.
Oggi lo vedono più facilmente. Questa è un’osservazione che si presta a molti commenti.