Riti magico-religiosi in Haiti e in Brasile
(Vodun e Candomblé)
Conferenza tenuta alla Società Italiana di Parapsicologia il 18 gennaio 1968.
Rassegna italiana di Ricerca Psichica Anno 1968 fasc.1-2-3
Quanto vi dirò stasera prende origine da esperienze personali.
Tanto nell’isola di Haiti, quanto in Brasile, ho avuto la fortuna di assistere a riti di antica origine, che non sono in genere facilmente accessibili a gente non del luogo. Si tratta, per quel che riguarda Haiti, dei riti Vodun; e per il Brasile, delle cerimonie Candomblé. Tutti e due sono di origine africana.
L’approccio ai problemi sollevati tanto dal Vodun, quanto dal Candomblé dovrebbe essere interdisciplinare. Voglio dire che sarebbe veramente in grado di trattarne a fondo chi riunisse in sé le caratteristiche e le conoscenze dello psicologo, dello psichiatra dell’antropologo culturale dello psicoanalista e del parapsicologo. Come sapete, io ho soltanto un paio di queste qualifiche, essendo psicoanalista di professione, e interessandomi da molti anni di parapsicologia. Sarà quindi prevalentemente da questi punti di vista che cercherò di trattare il tema badando quanto più possibile a non cadere nel cosiddetto «errore etnocentri», il quale consiste nel considerare la propria area di cultura e i criteri relativi come i soli validi, mentre tutto il resto sarebbe strambo, fuori della norma, o addirittura patologico. Questo errore è stato compiuto per molti anni da vari etnologi, ma credo che uno studioso serio dell’epoca nostra non debba incorrervi più.
La popolazione di Haiti, che per molto tempo era stata prevalentemente costituita da schiavi, ha iniziato il suo affrancamento nel 1791, e questo si è concretato definitivamente nel 1804. La Repubblica di Haiti è ancora oggi abitata prevalentemente da discendenti degli antichi schiavi, e da quelli di costoro che si incrociarono con i colonizzatori di allora. Le condizioni economiche dello Stato sono dure, e quanto alle condizioni culturali, si sa che la popolazione è per gran parte analfabeta, mentre per contro si trova in Haiti una élite che si tiene abbastanza al corrente rispetto a tutto ciò che si svolge sul piano scientifico, letterario e artistico internazionale. Naturalmente le influenze culturali di oggi vengono ancora in buona parte dai rapporti tradizionali con la Francia, per cui la Repubblica di Haiti è tuttora l’unico stato dell’emisfero occidentale la cui lingua ufficiale sia il francese. Il francese, però, è la lingua delle persone colte: il popolo parla di solito il creolo, che è uno strano miscuglio, assai dolce e armonioso ad ascoltarsi, di parole in parte francesi, in parte di origine africana, con termini dialettali francesi e specialmente brettoni, vocaboli inglesi e spagnoli, ecc.
Il cosiddetto Vodun è un sistema di culto che domina in Haiti benché ufficialmente la religione del Paese sia la cattolica apostolica romana. Tanto il termine, quanto le credenze e i riti relativi, hanno origine africana, e provengono in particolare dal Dahomey. Sul Vodun sono state diffuse in passato molte fantasie, dicerie e leggende: il termine è stato considerato sinonimo di magia nera, di feticismo, di adorazione del serpente o addirittura di satanismo. Si è detto perfino che il Vodun implicava cerimonie orgiastiche, eccessi sessuali, e addirittura sacrifici umani. In realtà i seguaci del Vodun ammettono un dio supremo, ma si tratta di una entità altrettanto inaccessibile quanto il padrone del castello nel famoso romanzo di Kafka. I seguaci del rito hanno, piuttosto, rapporto con gli spiriti o loas, come anche sono chiamati – i quali corrispondono grosso modo agli dèi o ai semidèi pagani. Le cerimonie hanno come scopo essenziale mettere in comunicazione gli uomini con le predette entità, e ottenerne l’intervento.
Secondo le credenze locali, i loas stanno in Africa, o in un’isola che si suppone sia sotto il mare, o in altre mitiche località, e sopraggiungono quando vengono invocati dai loro fedeli. Una caratteristica essenziale della teologia Vodun è, come ho accennato, il sincretismo, ossia il mescolarsi dei propri elementi con dati e caratteristiche del cattolicesimo. Troviamo infatti ad esempio che in vari cerimoniali, e in molte invocazioni, i loas sono assimilati a personaggi o a santi della tradizione cattolica. Per esempio Dembfalla, che è uno dei loas più importanti, e più o meno assimilato a S. Patrizio, mentre Erzulie, che nell’Olimpo pagano corrisponde più o meno alla dea dell’amore, a Venere, è assimilata nei culti haitiani alla Vergine Maria; ecc. Di tutto ciò si trovano tracce evidentissime nella iconografia e nelle varie statuine che adornano i piccoli altari dinanzi ai quali si compie una parte del rituale Vodun. Sono anche indispensabili i cosiddetti vevers, i quali sono disegni tracciati a terra, ai piedi di un palo centrale che esiste nel peristilio di ogni tempio Vodun. I segni in questione sono veri e propri emblemi, e rappresentano il loa che si desidera invocare. Spesso ce n’è più d’uno, e ciò ovviamente avviene quando si desidera invocare parecchi di questi loas, o non si è certi circa l’intervento di questo o di quello. I vevers sono tracciati a mano con grande abilità, qualche volta assumono un certo valore artistico, e il materiale adoperato per tracciarli è farina di granturco o di grano, cenere, polvere di zenzero o di caffè, ecc. Si tratta probabilmente di vestigia di antiche culture di tipo totemico, risalenti a tempi addirittura pre-colombiani.
I riti Vodun si dividono in due grandi gruppi. I più importanti e tradizionali sono i riti Radas; sono i più antichi, quelli che furono direttamente importati dal Dahomey. I relativi locali di culto sono piccoli templi nella foresta, chiamati houmforts, e constano per solito di tre camere, la più importante delle quali è la prima, in cui si trova infatti l’altare, chiamato pé.
L’altare è quadrangolare, fatto di cemento, porta ornamentazioni e iscrizioni varie. Per terra si trova un bacino, detto bacino di Damballa. Sull’altare stanno dei vasi sacri, sui quali vengono invocati i boas. Vi si possono vedere stoffe di vari colori dedicati a singoli boas, bandiere, lampade ad olio, sciabole, ecc. Nel peristilio c’è un palo centrale, a una certa distanza dal quale c’è il gruppo delle sacerdotesse che cantano mentre più vicino ad esso vi sono quelle che danzano ritmicamente, accompagnate soprattutto da ritmi di tam tam. L’arte di suonare questi tamburi tradizionali ha, come è noto, raggiunto in Haiti vertici non comuni. Il tempio Vodun è retto da una società che ha un suo presidente e una sua amministrazione. Questi sono però distinti e separati dalla gerarchia sacerdotale. I sacerdoti del Vodun appartengono a diversi gradi gerarchici: al più alto stanno gli houngans, che sono gli alti sacerdoti maschi, e le mambó, che sono le sacerdotesse di pari grado. Sotto di essi stanno, gerarchicamente, altri officianti con gradi minori.
I riti Petrò sono di data più recente, e furono instaurati in Haiti sul vecchio tronco di quelli tradizionali, le cui origini si perdono nella notte dei tempi africani. I riti Petró sono più aggressivi, si svolgono al suono di schiocchi di frusta e di stridenti sibili di fischietto. Essi si collegano molto evidentemente ai periodi di lotta e di rivolta, la rivolta degli schiavi contro i loro oppressori. Tutti i loas che presiedono a questi riti sono loas di violenza e di forza. La frusta e il fischio – ripetiamo – richiamano alla memoria il periodo della schiavitù, in cui appunto frustate e fischi erano all’ordine del giorno. Si direbbe che c’è una specie di richiamo, di immedesimazione dei celebranti di oggi con questi elementi, i quali in tal modo verrebbero ulteriormente padroneggiati e integrati. Forse in termini psicoanalitici si potrebbe parlare del meccanismo noto come la «identificazione con l’aggressore».
L’aspetto più interessante ed importante dei riti Vodun è costituito dalle ben note «crisi di possessione», dalle quali vengono colpiti alcuni partecipanti, per cui i fedeli ritengono che la persona sia in quel momento «posseduta» da un particolare loa, il quale diventa così, come dicono gli Haitiani, il suo «cavallo». Il «posseduto» si comporta sempre secondo le caratteristiche del singolo loa che si suppone lo «cavalchi». Per esempio se Damballa, che è un dio tradizionalmente serpentino, e che talvolta è stato addirittura identificato con il serpente, possiede un suo fedele, questo, durante la crisi, si contorce a terra come un serpente. Se un fedele è posseduto dal loa Ogun Chango, che è dio di battaglie e mangiatore di fuoco, quegli calpesta, talvolta impunemente, carboni ardenti, immerge le mani in olio bollente, tocca ferri roventi senza scottarsi (e qui potrebbero eventualmente entrare in ballo considerazioni di ordine parapsicologico). Quando la «possessione» avviene ad opera del dio Legba, che è rappresentato in genere come un vecchio claudicante, il «posseduto» zoppica, e cammina spesso con le stampelle.
Il fenomeno della «crisi del loa» comincia con senso di fatica muscolare e di vertigine; poi c’è la perdita di conoscenza e caduta a terra, per cui il «posseduto» dev’essere sorretto e rimesso in piedi. Avviene allora un ulteriore mutamento della personalità, e la possessione è ora completa. Un houngan si prosterna davanti al loa incarnato nell’uomo. La crisi può durare qualche volta anche più ore, ma se si prolunga eccessivamente il sacerdote può farla cessare con riti opportuni.
Sulle possessioni del Vodun sono state formulate molte teorie, da quelle più ingenue che facevano risalire i fenomeni a veri interventi di «spiriti» a quella, per lungo tempo sostenuta da psicologi e psichiatri, dell’isterismo individuale o collettivo. Quest’ultima definizione – vale la pena osservarlo – è un tipico esempio di applicazione meccanica e formalistica di definizioni occidentali a fenomeni che si svolgono in coordinate culturali totalmente diverse. L’avvicinamento culturale moderno dimostra invece che non è possibile classificare gli individui soggetti alle «crisi del loa» nelle categorie degli psicopatici, degli isterici, dei mitomani o simili. Vari studiosi, infatti, hanno dato un quadro più esatto e più profondo di questi stati, e fra essi vorrei ricordare uno psichiatra di Haiti che conosco da tempo personalmente, il dottor Louis Mars, che è assai bene orientato anche in senso dinamico e psicoanalitico. Ma prima di entrare nel più vivo dell’interpretazione delle crisi del loa, desidero dire qualche cosa sull’importanza della musica ritmica e della danza nelle cerimonie qui considerate.
In un’opera intitolata «L’enchantement des danses et la magie du verbe», lo scrittore Philippe de Félice scrive, a proposito delle danze rituali religiose e dei loro effetti:
«Un fatto tanto frequente e durevole come è l’uso delle danze religiose, confessate o non confessate, merita sicuramente che ci si chieda quale ne sia la spiegazione. Questa ci sembra risieda essenzialmente in ciò che noi vorremmo chiamare la tentazione dell’inconscio. Mentre abbiamo da un lato la grande corrente evolutiva che porta l’uomo verso una coscienza di sé sempre più lucida, che gli permette di controllarsi e di autopossedersi in confronto agli esseri ed alle cose da cui è circondato, sembra esservi un’altra corrente che lo spinge ad abbandonarsi a tutte le pressioni che subisce nella natura e a tutte le suggestioni che riceve dai propri livelli profondi e dalla collettività a cui appartiene.
«Come mai si esercita così potentemente su di lui la seduzione della passività? Senza dubbio ciò deriva in primo luogo dagli istinti che egli conserva a sua insaputa dalla sua animalità originaria, e che lo incitano a cercare la sua sicurezza piegandosi al determinismo dei fenomeni fisici e dandosi agli impulsi scaturiti dalle profondità oscure del suo corpo e della sua anima, e sottoponendosi alle costrizioni che i suoi simili gli impongono. Forse una delle cause dell’attrazione che riveste ai suoi occhi una abdicazione totale di se stesso potrebbe trovarsi nella intuizione confusa che egli prova, e cioè che, per penetrare nei segreti del mondo in cui vive, non deve mettere alcun ostacolo all’intrusione in sé delle forze misteriose che sente all’opera intorno a lui».
Quanto poi alla « crisi di possessione », ecco quanto ne scrive il già citato dr. Mars in un suo libro ormai classico, intitolato «La crise de possession dans le Vodun». Scrive Mars: «Chiamo misticismo emotivo-cinetico il misticismo che richiede l’atmosfera della danza, dell’eccitazione collettiva, per svilupparsi ». E più oltre: «I danzatori primitivi possono suscitare in loro stessi certi stati psicologici, preparatori alla divisione della personalità».
D’altronde, questo non appartiene soltanto al Vodun. In un’infinità di riti religiosi e magici abbiamo la danza e il ritmo come presupposti di certi stati che si mira a raggiungere, e che vengono prima o poi effettivamente raggiunti dalla collettività corale di coloro che partecipano al rito, o da qualcuno che viene colpito in modo specifico dalla folgore che sembra a un certo punto sprigionarsi dalla cerimonia. Il famoso danzatore Serge Lifar, per esempio, pensa che certe danze violente abbiano un carattere nettamente catartico, cioè che aboliscano quelle che noi in psicoanalisi chiamiamo le rimozioni. James Leuba ne indica nei termini seguenti gli effetti psicologici: «L’abbandono delizioso del possesso di sé e il sentimento di potenza». Mars vi aggiunge: «Uno stato di disturbo e di confusione scatenato dalla vertigine. Basta che lo scopo finale di tali esercizi coreografici sia la ricerca del divino perché il divino illumini il fondo dei cuori…»; e Henry Delacroix, nel suo libro «La religion et la foi», scrive: «Gli esercizi meccanici o spirituali, il digiuno, la privazione di sonno, l’eccitazione orgiastica: danza, ebbrezza, fumigazioni, non agiscono dopo tutto che condizionati da una direttiva mentale, da un atteggiamento dello spirito. Non basta digiunare o danzare per divenire un dio e neppure per contemplare un dio: occorre dare all’eccitazione confusa che viene dal digiuno o dalla danza la forma di un dio, e ciò non avviene se lo spirito non la porta già con sé; sia che mediante un lungo lavoro arrivi ad imporla un giorno alle ombre de l’ascesi o l’orgia hanno suscitato; sia che questa forma e questa materia si uniscano più bruscamente in una coscienza già preparata per tale sintesi». Ai vari stimolanti così ricordati, potremmo aggiungere oggi gli allucinogeni, di cui ho avuto occasione di parlare proprio in questa sede, ossia l’LSD, la mescalina, la psilocibina, ecc.
Per contro, un esempio abbastanza tipico del modo tradizionale di definire certi fenomeni collettivi in culture primitive ci è dato, neanche a farlo apposta, proprio da un vecchio etnologo haitiano, il dr. Price-Mars. Questi considera infatti i servitori del loa come degli « squilibrati psichici aventi una costituzione mito-maniacale ». Lo stesso Autore definisce la crisi di possessione «un assieme di manifestazioni fisiologiche e psichiche che si trovano associate presso gli stessi malati, e che si presentano come realizzazioni di atteggiamenti anormali, di paralisi, di contratture e di crisi nervose».
Ascoltiamo invece Louis Mars. Egli esprime, nell’opera già citata, punti di vista che andrà ulteriormente ampliando e in parte modificando in scritti successivi: «La caratteristica fondamentale della crisi del loa è la dissociazione della personalità: dissociazione verticale, lenta o improvvisa, acuta o cronica. Essa porta all’evasione di certi automatismi che si situano a differenti livelli di struttura: disturbi del linguaggio, ebbrezza motoria, personalità seconda, ecc. La scissione della personalità, improvvisa o lenta, dà nettamente l’impressione di una forza che s’impadronisce dell’anima. Il carattere strano dei desideri, delle pulsioni istintive sorte dalle acque torbide dell’inconscio, spesso in opposizione con il comportamento abituale dell’individuo, dà esca ad interpretazioni teo-maniache o diaboliche». Ma sono, scrive Mars, «tendenze istintive profondamente sepolte nell’inconscio che sorgono alla luce della coscienza in un modo non accettabile per la comprensione logica degli interessati». I loas sono definiti da Mars come « miti venuti dalla terra lontana d’Africa e che si moltiplicano sul suolo haitiano al ritmo delle nostre inquietudini e delle nostre sofferenze: essi incarnano le nostre qualità e i nostri difetti, le nostre ansie e le nostre speranze, i nostri bisogni attuali e in genere tutto ciò che l’uomo porta con sé, ciò che lo supera, ciò che gli dà la nostalgia degli dèi, padri e protettori degli uomini ». In ultima analisi, secondo Mars, «la crisi del loa è un processo schizonoide di apparenza mistica, che avviene presso i nostri contadini e li porta al sommo del misticismo dove essi comunicano con i loro dèi, i loro geni, nell’intimità della loro carne e nel loro spirito. Noi – sottolinea Mars – preferiamo questo termine generico invece di ricollegare la crisi del boa all’isterismo o ad altra sindrome conosciuta dalla psichiatria occidentale ».
E’ chiaro che quando noi parliamo in simili sedi e a tali livelli di «dissociazione della personalità», o di «stato schizonoide», non dobbiamo a priori considerare questi stati come patologici. Si sa, ad esempio, che giovani individui alla crisi puberale possono avere dissociazioni della personalità improvvise e transitorie, che scompaiono senza lasciare traccia, per cui non è consentito clinicamente di classificare questi individui tra gli anormali psichici. Questo criterio si può applicare a vari fenomeni più o meno simili a quelli qui considerati, e a un certo tipo di misticismo che da noi evidentemente è relegato alquanto ai margini della civiltà, ma che è tuttavia degnissimo di considerazione. Come voi sapete, Ernesto De Martino, la cui scomparsa ha segnato un lutto non soltanto fra gli etnologi ma anche tra i parapsicologi, si è occupato di questi fenomeni prima insieme con me, durante una «spedizione» che facemmo in Lucania, poi con altri collaboratori nel Salento, ecc. In tali aree culturali, testimonia De Martino e posso testimoniare anch’io, si svolgono fenomeni e cerimonie molto particolari, ma a cui non si ha alcun diritto di applicare la definizione di patologici.
Scrive ancora Mars che «agli occhi del credente, la crisi di possessione rappresenta l’azione dello spirito sul corpo che gli serve in quel momento da ricettacolo temporaneo. Egli cessa allora di essere se stesso: la sua personalità sparisce, egli diventa dio, è un dio in carne ed ossa».
Prima di sottolineare ulteriormente l’importanza di questa «socializzazione» del Vodun ai fini di una sua miglior definizione psicologica e sociologica, vorrei soffermarmi un momento sull’idea, già menzionata, secondo cui chi è posseduto da un loa diventa la sua «cavalcatura». Abbiamo qui una certa somiglianza con la fenomenologia dell’incubo, così come è stato studiato abbastanza da vicino dagli psicoanalisti, per esempio da Ernest Jones in una sua celebre monografia. Dal punto di vista psicoanalitico, l’incubo corrisponde alla fantasia inconscia di essere aggrediti più o meno sessualmente da una figura primordiale che simbolicamente rappresenta l’uno o l’altro genitore. E’ curioso osservare come in alcune lingue esistano vocaboli che sembrano apparentare il fenomeno dell’incubo al termine cavallo. Per citare un solo esempio in inglese «incubo» si dice nightmare, che letteralmente significa «cavalla notturna».
Secondo una tesi proposta da Louis Mars e dallo psicoanalista George Devereux, la crisi del Vodun potrebbe essere in certo qual modo una sorta di incubo socializzato, che si svolge secondo linee direttrici molto più collettive che individuali. Trattandosi di fantasie primarie ritualizzate e socializzate, i soggetti colpiti dalla crisi, e coloro che partecipano alle cerimonie, sembrano muoversi dentro un universo che è, sì, largamente regressivo, ma non è patologico. In questo universo si avvicendano pulsioni e rapporti che possono avere carattere sado-masochistico (versamento del sangue, il quale d’altronde acquista valore di liquido primordiale che unisce e affratella), o appartenere ad altri livelli dell’evoluzione psicosessuale. In altra sede potrei, naturalmente, sviluppare meglio questi punti.
E’ stato discusso da etnologi e da specialisti di storia delle religioni se le pratiche del Vodun siano magiche o religiose. Probabilmente esse attingono un po’ alle une e un po’ alle altre. Io sarei piuttosto incline a vedere nel Vodun un accento più religioso che non magico. Con questo non voglio dire che alcuni seguaci del Vodun non credano nella magia e non la pratichino episodicamente. Però nella magia abbiamo una manipolazione sia diretta, sia indiretta di elementi, mentre nel Vodun abbiamo atteggiamenti piuttosto devozionali, volti a ottenere la protezione dei loas e nulla che ricordi la magia cerimoniale costrittiva. E’ chiaro che malgrado le danze, i ritmi e le invocazioni, se il loa non vuole presentarsi non si presenta: non viene, cioè, esercitata nei suoi riguardi alcuna azione propriamente magico-evocatoria. Inoltre nel Vodun l’accento viene posto sulla conoscenza, mentre, come è noto, nella magia esso cade sulla potenza. Infine nella magia troviamo costantemente il segreto e l’isolamento, mentre nei riti Vodun non c’è nulla di segreto. Non è facile avvicinarsi ad essi o parteciparvi, ma ciò è comune di molte religioni nei riguardi di chi ne è fuori. E d’altra parte, se sono accertate le intenzioni serie del visitatore, l’ammissione non è poi tanto difficile.
Per concludere sul Vodun (concludere è un modo di dire, perché l’argomento, come avete potuto capire, è assai vasto), potremmo dire che in Haiti il Vodun fa indubbiamente parte della vita psichica totale della comunità. Esso è, per così dire, nell’aria, è immanente, e immette una energia accumulata e collettiva già nella fase di formazione della vita individuale. Cadono qui opportune alcune osservazioni psicologiche e psicodinamiche. Alcuni scienziati hanno sottolineato il fatto che una delle maggiori cause di tensione nella nostra cultura è la frequente impossibilità, da parte dell’individuo, di poter ottenere una vera e chiara autorealizzazione. Nel nostro modo di vivere questa possibilità è infatti assai limitata, ma ciò sta proprio in contrasto con quel che succede in Haiti mediante il Vodun. Nella nostra cultura, ad esempio, il mondo del bambino è costituito quasi esclusivamente dai genitori, e anche nei migliori casi, questo rende le possibilità di identificazione del bambino stesso alquanto ristrette. Nel Vodun, invece, questa identificazione è vasta, ed è formata in modo da prestarsi a manipolazioni correttive e costruttive. I loas sono in fondo il tessuto connettivo globale, psicologico e spirituale, ereditato, che collega strettamente l’individuo ai suoi simili. I genitori reali, quindi, sono meno individualizzati, perché possono essere considerati come veicoli trasmettitori dei loas, e questi sono a loro volta le immagini ancestrali, o se volete archetipiche, eterne, rispetto alle quali, psicologicamente parlando, in Haiti non vi può mai essere un orfano.
I loas sono i grandi genitori collettivi, e se i genitori reali vengono a mancare, mancano solo i rappresentanti immediati e tangibili di quei più grandi genitori che sono i loas, la cui costante presenza psichica permea e determina sostanzialmente la vita psicologica dell’haitiano. Si direbbe in altre parole che attraverso la ritualizzazione e la socializzazione del loro culto intensamente vissuto, gli haitiani abbiano trovato il modo di esercitare nei loro stessi riguardi una sorta di psicoterapia preventiva e collettiva, mettendosi costantemente in rapporto con qualcosa di preterindividuale, che trascende il livello razionale, mantenendo così quei contatti profondi, quella osmosi, fra coscienza e inconscio, tra razionalità ed emozione, tra l’intelletto e l’istinto, che noi sembriamo avere tanto largamente perduto e la cui mancanza o cui il deficit è propriamente alla base di tanti di quei disturbi che ci affliggono. Vista in questa prospettiva, la crisi del Vodun è una specie di eruzione improvvisa, di rottura dialettica di un equilibrio, in vista di un equilibrio successivo e maggiore, e assume quindi veramente, possiamo ben dirlo, un valore psicoterapico.
Parecchio di quanto ho detto sul Vodun si applica ai riti del Candomblé. Anche questi, al pari di quelli del Vodun, hanno origine africana, e si svolgono in comunità di negri e di mulatti in certe zone del Brasile, e specialmente nell’area di Bahia. In occasione di una mia visita a Rio de Janeiro, mi era stato vagamente indicato che a circa un’ora di macchina dalla metropoli, in una certa località, c’era un centro dove si celebravano i riti in questione. Sul luogo trovai un distinto mulatto, il quale mi avvertì che mi ero sbagliato, e che lì non c’era proprio nulla a cui assistere. Per una curiosa coincidenza, incontrai subito dopo una graziosa signora, che mi rivolse la parola in francese, e alla quale mi presentai. Essa mi disse allora che conosceva, al pari di me, il famoso etnologo francese Roger Bastide, di cui era collaboratrice. Risultò infine che la signora in questione, oltre che studiosa di etnologia, era stata «iniziata» ai riti del Candomblé alcuni anni prima, quale moglie di un diplomatico brasiliano ed essendo quindi diventata anch’essa brasiliana di nazionalità. Essa fece da gentile intermediaria tra me e la persona con cui avevo parlato poco prima, e che era il capo della comunità, e mi fu quindi permesso di assistere con la massima libertà a un rito di iniziazione che si svolse di lì a poco in quel cenacolo. Potei, in quella occasione, prendere alcune diecine di fotografie, e incidere tutta la parte sonora della cerimonia stessa sul mio registratore. Superfluo dire che la cerimonia fu altamente suggestiva, non meno di quelle a cui avevo assistito anni prima nelle foreste haitiane.
Nel Candomblé, l’autorità principale è maschile o femminile, a seconda dei casi, ed è a essa che tutti fanno capo, poiché la sua preminenza è assoluta. Anche nel linguaggio inerente al rituale Candomblé ricorrono termini di derivazione africana, spesso assai simili a quelli del Vodun. Ai loas del Vodun corrispondono nel Candomblé gli orisha. Anche questi possono considerarsi semidei, spiriti-guide o deità, e a uno o a più di questi sono dedicate le cerimonie che periodicamente si svolgono negli edifizi adibiti a questi culti. La più tipica cerimonia Candomblé è proprio quella a cui io ho assistito, ossia la iniziazione di una ragazza, o «figlia di santo ». Durante la cerimonia, la ragazza da iniziare può rimanere parecchie ore in uno stato di trance ipnotica, durante la quale «incarna » uno spirito od orisha. Nei giorni precedenti, la ragazza viene confinata in una cameretta ed è preparata dottrinalmente al rito. Le si insegnano formule, canti, ecc.; la sua alimentazione è ridottissima, e la continenza sessuale è rigorosamente osservata. Nella camera in cui è confinata non può entrare che l’autorità maschile che presiede alla comunità, o una sua vice. Nel giorno destinato, la iniziazione comincia con danze e canti ritmici che durano anche diverse ore, mentre la novizia entra in trance. Durante il suo stato di dissociazione, essa viene assoggettata a interventi che possono variare a seconda delle comunità, e a seconda dell’orisha che domina il rito. Tra questi interventi può esserci anche la rasatura completa dei capelli, incisioni con spargimento di sangue sulle braccia, aspersione con sostanze coloranti, biacca, farina, ecc. Nella seconda parte della cerimonia, non diversamente dai riti Vodun, vengono sacrificati piccoli animali, come una capretta, o, più spesso, due galli. Nel rito a cui io ho assistito furono appunto due galli a essere sacrificati, e il loro sangue venne fatto gocciolare sulla testa della novizia, mentre piume dei volatili venivano appiccicate sulla sua testa e sulla sua fronte. A questo punto il battesimo della novizia è completo; ormai essa fa parte di diritto della comunità, e deve rimanere nella cameretta (così mi fu riferito) almeno tutta una notte, se non più, dopo la iniziazione.
Data la comune origine africana, non fa meraviglia che i riti Vodun e i riti Candomblé abbiano aspetti uguali o similari. Il pantheon degli orisha, come viene chiamato, trova il suo parallelo nel mondo dei loas haitiani, e persino alcuni nomi di entità si somigliano. Analoga è la presenza di tabernacoli nei due culti, e di oggetti e immagini appartenenti al soprannaturale cattolico. E’ strano vedere immagini di santi del Cristianesimo sugli altari Vodun, ma altrettanto avviene per i tabernacoli del Candomblé. Io ho visto e fotografato alcune di queste immagini, alcuni di questi oggetti. Nel Candomblé esistono addirittura simulacri anche del diavolo, nella sua effigie tradizionale, ossia con le corna, il mantello nero, ecc. Questo orisha è considerato molto potente nel Candomblé, e occorre tenerselo buono affinché non disturbi gli altri orisha più benevoli.
Le considerazioni di ordine etno-psicologico, o psicoanalitico, che ho avuto occasione di fare a proposito del Vodun, si possono applicare al Candomblé, nel quale però – almeno mi pare dovrebbero mancare quelle crisi violente di possessione e quelle impersonazioni così attive e movimentate che caratterizzano il Vodun. La trance iniziale della novizia, mi è sembrato, è più simile a quella di certi medium dei nostri climi: è stuporosa, sembra uno stato di ipnosi o di letargia.
Io ritengo che anche presso le comunità di origine africana del Brasile la ritualizzazione e la drammatizzazione di un mondo di fantasie primarie abbia effetti di catarsi e di periodico condizionamento, come nel Vodun. Tutta l’atmosfera della cerimonia alla quale ho avuto la fortuna di assistere mi è sembrata molto simile a quella che avevo percepito nella foresta haitiana. Tuttavia ricordiamoci che l’eco dei tam-tam che accompagnano i riti Vodun o quelli Candomblé si sta gradualmente e lentamente allontanando, per cui forse fra non moltissimi anni nessuno sarà più in grado di ascoltarne il simbolico messaggio. La civiltà industriale tende inesorabilmente alla distruzione del mondo primitivo e magico nelle sue estrinsecazioni più spontanee e palesi, il che da un certo punto di vista può essere un bene, ma dall’altro è certamente un male. Quindi noi, uomini di studio, aperti alle varie e vaste dimensioni delle esperienze umane, dovremmo cercare, fin che siamo in tempo, di apprezzare quanto può insegnarci anche il povero haitiano analfabeta, o il discendente di esuli africani in terra lontana, i quali tuttora mantengono e alimentano in sé, pure nell’ignoranza e in forme qualche volta assai crude, quel contatto con le profonde dimensioni dell’essere che noi faticosamente cerchiamo di riacquistare (pur domandandoci fino a che punto ciò sia possibile) con i nostri metodi e con le nostre tecniche psicologiche moderne e raffinate. Le immagini, i riti, le melopee, i ritmi del Vodun e del Candomblé, quali documenti di mie brevi esperienze, costituiscono oggi, per me, testimonianze preziose di verità che il nostro mondo in buona parte ha smarrito ed ignora, e che speriamo possa con aggiornati metodi, e nel suo stile, lentamente un po’ riacquistare. Farvi presente questo era, in fondo, il fine principale dei mio discorso di stasera.
EMILIO SERVADIO