Non è una disgrazia rimanere zitelle
Arianna ottobre 1969
Nonostante il progresso e l’emancipazione il matrimonio è ancora considerato per la donna un traguardo d’obbligo
Da anni l’emancipazione della donna è uno degli argomenti preferiti da sociologi e studiosi di psicologia. In realtà grandi passi sono stati compiuti su questa strada ma, a dispetto di tanto progresso, resta un punto fermo: tutte le donne aspirano al matrimonio e considerano una disgrazia il rimanere zitelle. Perché?
La donna nubile si è trovata per molto tempo in una situazione incresciosa e paradossale. Da un lato, appariva indiscutibile che la miglior sorte della donna fosse lo stato maritale (con la sola eccezione delle autentiche vocazioni religiose), per cui era giusto che ogni ragazza aspirasse con tutte le sue forze al matrimonio, ed era inteso che il rimanere zitelle fosse una disgrazia, su cui non si poteva esercitare che la compassione, o il commento malizioso. D’altro canto, era escluso che le ragazze prendessero un qualsiasi tipo d’iniziativa per conseguire l’anzidetto meraviglioso e indispensabile risultato. Nell’epoca vittoriana, una «signorina riservata» non poteva avere neppure uno scambio di lettere con un signore «sconosciuto a suo padre». Lo stesso London Journal del 1861, in cui leggiamo tale avviso, da altri analoghi «consigli alle giovani», condannando per esempio come «smaccata sfacciataggine», da parte di una ragazza, cercare di richiamare l’attenzione di un gentleman.
In sostanza, la giovane nubile « perbene » doveva aspirare con tutte le sue forze al matrimonio senza fare praticamente nulla perché un uomo la sposasse!
Se oggi le regole e i consigli tipo London Journal sono scomparsi anche dalle pagine delle riviste femminili più tradizionaliste, non si può dire altrettanto della vecchia idea fissa, per cui si considera a priori deprecabile la situazione della donna nubile. Ancora nel 1960, un avviso pubblicitario sul New York Times, relativo ad abiti per giovinetta, recava la frase: «Così potrà, anche lei, partecipare alla caccia al marito». E non molto tempo fa ci è stato dato di leggere, in una grande rivista italiana, un articolo nel quale si prospettano, è vero, vari inconvenienti della vita matrimoniale, ma non si esamina neppure la possibilità di un’altra alternativa che non si definisca in termini di errore, esitazione dannosa, idealismo nevrotico, rimpianto tardivo, amara solitudine, e così via.
Una reazione energica e salutare a simili impostazioni si ebbe alcuni anni fa, con un libro dell’americana Helen Gurley Brown intitolato La sessualità e la ragazza nubile. Per la Gurley Brown, sposata a 37 anni con un produttore cinematografico, l’idea che ogni ragazza debba trovar marito «è uno dei miti più assurdi del nostro tempo». Nella sua opera, scritta con una verve indiavolata, essa prende in giro moltissimi pregiudizi e luoghi comuni, sfidando impavida gli inevitabili « ohibò » dei parrucconi e dei retrogradi; adopera, d’accordo con gli psicoanalisti, la parola « sessualità » nella sua accezione più vasta, di «gioiosa espansione vitale»; e insegna alle giovani donne non sposate il modo di rendersi «irresistibili, irreprensibili e fiduciose». Il suo libro è un vero inno alla femminilità trionfante, alla gioia orgogliosa che ogni nubile può provare nel sentirsi « la ragazza » di qualcuno, anche in modi che non implicano necessariamente né le ultime, né le penultime conseguenze; ai modi infiniti in cui una donna può godere della sua autonomia, di un lavoro che le renda, della sua benevolenza altruistica, della sua maggior libertà. «Potete sposarvi o no» conclude l’autrice. «Al giorno d’oggi, questa non è più, per la donna, una questione capitale. Quelle che si attaccano a un uomo per lasciarsi beatamente andare, per consumare il resto dei giorni ad auto-incensarsi, e che credono di poter rinunziare a muoversi, combattere, imparare, crescere, fronteggiare pericoli o ricominciare, proprio quelle sono da compiangere.
A nostro avviso, la donna sola può spesso trovare in talune attività professionali l’appagamento di quel bisogno di dedicarsi, di lavorare per qualcuno a cui si vuol bene, di partecipare alle sue gioie e alle sue sofferenze, che costituisce un parametro essenziale della personalità femminile. Conveniamo che per altre donne, questo può non essere sufficiente, a meno di non essere stato preceduto da esperienze sentimentali profondamente vissute, in base alle quali la donna senta di essere ormai veramente e completamente «adulta». Ma in ogni caso, il mito dell’inferiorità individuale e sociale della donna nubile va sfatato. Oggi, la nubile può e deve trovare ampi motivi di gioia in tutto ciò che deriva dal semplice e splendido fatto di essere donna, di poter piacere e amare.
Emilio Servadio