Professioni Sociali
Lo psicanalista
Intervista di Claudia Vinciguerra ad Emilio Servadio
Vie Assistenziali n°10 1968
Prof. Emilio Servadio. Presidente della Società Psicoanalitica Italiana e del Centro Psicoanalitico di Roma. Membro Ordinario dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale. Membro Onorario dell’Academy of Psychoanalysis di New York. Membro Affiliato della Royal Society of Medicine di Londra. Membro Effettivo della Società Italiana di Psicologia Scientifica. Membro effettivo o corrispondente di varie altre Associazioni scientifiche italiane e straniere. Autore di vari libri (tra cui « La psicologia dell’attualità », tradotto in varie lingue) e di oltre 150 lavori scientifici. Collaboratore dell’Enciclopedia Italiana, del Dizionario Enciclopedico, dell’Enciclopedia Medica, di vari giornali e periodici italiani e stranieri, e della Radiotelevisione italiana.
Qual’è a Suo giudizio il fine sociale della professione di psicoanalista? Ovvero, come si manifesta socialmente?
La funzione sociale dello psicoanalista si può valutare in modo molto diverso a seconda che la si consideri: a) in relazione alle sole prestazioni professionali dell’analista, ovvero b) in relazione all’influenza che la psicoanalisi, mercè l’opera anche scientifica e divulgativa degli analisti, esercita sulla società e sulla cultura attuali.
Circa il primo punto, occorre ammettere che essendo quella dell’analista un’attività estremamente individualizzata, essa non può incidere se non in guisa assai modesta, direttamente, sul contesto sociale in cui si esplica. E’ stato calcolato che un analista può giovare, professionalmente, a non più di due o trecento persone in tutta la sua carriera: cosicché anche nei paesi in cui la psicoanalisi è molto diffusa, sono sempre assai pochi, in fondo, coloro che possono risentirne i benefici.
E’ vero però che anche al livello professionale, molte più persone si giovano oggi di trattamenti e di terapie, che pur non potendosi a rigore definire « psicoanalisi », ne costituiscono pur sempre sviluppi, applicazioni e derivazioni. Voglio alludere per esempio a quegli psichiatri che sebbene non analisti, sono «analiticamente orientati», cioè s’ispirano a criteri psicoanalitici quando trattano certi loro pazienti. In secondo luogo, desidero ricordare le varie forme di psicoterapia di gruppo (come lo psicodramma, il sociodramma, ecc.), che permettono di recar giovamento a molte persone, le quali non si prestano a un’analisi individuale, o non possono sopportarne l’onere finanziario: e si tratta, anche qui, di tecniche di derivazione psicoanalitica. Vi è poi l’opera, anch’essa più o meno legata ai principi analitici, degli psicologi clinici, degli assistenti sociali, ecc. Come si vede, se si estendono i confini della prassi analitica oltre la situazione binomiale classica « analista-paziente », non è poi tanto esiguo il numero degli individui a cui la psicoanalisi può essere utile, e ciò riveste indubbiamente un certo valore anche ponendo mente al «fine sociale» di questo particolare metodo di trattamento.
Quanto all’influenza indiretta della psicoanalisi sulla società attuale, essa è notoriamente assai importante, cosicché c’è chi si domanda se la nostra cultura non si orienti persino troppo in senso psicoanalitico! Personalmente, io credo che siamo ancora ben lontani da un simile sviluppo; ma senza dubbio la psicologia infantile, la pedagogia, la psicologia dei rapporti interpersonali, la psicologia sociale, l’igiene mentale sono oggi profondamente mutate, e tuttora in mutamento, proprio a causa del diffondersi del pensiero analitico: il quale tocca in vario modo anche persone e istituzioni, a cui lo stesso termine di « psicoanalisi » è praticamente sconosciuto. Da questo punto di vista, il « fine sociale » del movimento psicoanalitico (e, pertanto, delle persone che lo compongono), supera ogni precisa possibilità di valutazione.
Oggigiorno ritiene che la professione di psicoanalista in genere adempia compiutamente alla sua missione, o no?
Come ho accennato, io ritengo che certi criteri psicologici, ispirati agli insegnamenti della psicoanalisi, andrebbero ancor più largamente diffusi e adottati di quanto non sia avvenuto sinora. Certo, in confronto al « niente » di – poniamo – cinquant’anni fa, è già consolante sapere che vi è oggi, soprattutto grazie alla psicoanalisi, più tolleranza in materia sessuale, più comprensione per il mondo infantile, maggiore apertura nei confronti del nevrotico e del malato di mente, e via discorrendo. Ma il fatto stesso che gli psicoanalisti siano, dappertutto, in continuo aumento, mostra sino a qual punto la loro opera sia opportuna e richiesta, e come si sia ancora ben lontani da una – diciamo così – « saturazione ». Io non credo perciò affatto che lo psicoanalista adempia oggi compiutamente la sua missione: ma ciò, soprattutto per motivi di ordine quantitativo, ai quali non è facile ovviare. La preparazione dello psicoanalista (e per « psicoanalista » deve intendersi esclusivamente chi sia Membro della Società Psicoanalitica Italiana, o di una delle varie Società che compongono l’Associazione Psicoanalitica Internazionale), è infatti molto lunga e laboriosa, e le possibilità di un training accurato sono pertanto limitate. Inoltre – come ho accennato – anche se gli analisti qualificati fossero in numero tre o quattro volte superiore a quello attuale, essi non potrebbero, pur volendo, giovare neanche alla metà della metà delle persone che avrebbero bisogno delle loro prestazioni. Si tratta di lacune che forse non potranno mai essere del tutto colmate, anche se la situazione, dal punto di vista del « fine sociale », migliori di continuo.
Vorremmo da Lei un’indicazione sulla preparazione futura alla professione di psicoanalitica, vista cioè nell’ambito dell’attuale società che va ogni giorno evolvendosi e modificandoci, assumendo forme e modi di vita nuovi e diversi. Ho ricordato più sopra che la preparazione di un nuovo analista richiede tempo e sforzi non indifferenti: Il candidato deve infatti prima di tutto sottoporsi ad un’analisi personale e didattica di non meno di 500 sedute; deve frequentare corsi di lezioni e «seminari»; deve studiare a fondo un numero considerevole di testi, a cominciare dalle opere di Freud; deve eseguire trattamenti analitici « sotto controllo » (ossia, riferendone periodicamente ad analisti didatti diversi dal suo analista personale) per almeno un paio d’anni dopo aver terminato la propria analisi… E’ chiaro che a parte ogni altra considerazione, un simile training costa parecchio denaro, tempo e fatica a tutti quanti. Sarebbe dunque auspicabile l’istituzione di provvidenze (come borse di studio, contributi per acquisto di libri, sussidi magari parziali ai meno abbienti, ecc.), le quali consentissero maggiori possibilità pratiche sia di addestramento professionale degli psicoanalisti, sia di diffusione del pensiero analitico, sia di trattamento per molti che potrebbero virtualmente sottoporsi ad analisi, ma si trovassero impossibilitati a farlo per ragioni economiche. Se così avvenisse (a cura dello Stato o di qualche Ente pubblico), si verificherebbe un ulteriore, apprezzabilissimo caso di do ut des: poiché da un lato la società faciliterebbe la formazione e l’opera dello psicoanalista; e dall’altro gli analisti esplicherebbero, socialmente, una funzione assai più ampia e più utile di quella, già tutt’altro che indifferente, che assolvono al momento attuale