La parapsicologia attuale
L’Illustrazione del Medico n. 175, 1960, pagg. 21-24.
Nell’articolo precedente abbiamo considerato le origini, e le caratteristiche generali, della parapsicologia scientifica, soffermandoci particolarmente sulle ricerche “quantitative” della “scuola di Durham” e sugli accertamenti relativi alla percezione extra sensoriale (ESP).
Nel periodo classico degli studi “metapsichici”, l’interesse dei ricercatori si era notevolmente spostato, a un certo punto, dai fenomeni “fisici”, di tipo medianico (movimenti di oggetti senza apparente contatto, presunte “materializzazioni”, ecc.), a quelli più squisitamente psicologici, come la telepatia, ed in genere quella “sensibilità nascosta” cui il Richet aveva dato il nome di criptestesia. Nell’odierno movimento parapsicologico, dopo un periodo in cui non si pensava neppure alla possibilità di investigare seriamente gli anzidetti fenomeni di tipo fisico, tale possibilità è invece improvvisamente riapparsa, ed è stata abilmente sfruttata. Si tratta qui non più della percezione extra sensoriale, ma di una possibile azione diretta, fuori da qualsiasi via conosciuta, della psiche sulla realtà oggettiva: di un particolare effetto psico-motorio extra conduttivo, cui è stato dato il nome di “effetto psicocinetico” (Psycho-Kinetic Effect), o più brevemente “effetto PK”.
L’idea elementare che portò ai primi studi sull’effetto PK fu la curiosità di vedere se cercando d’influire mentalmente sulla caduta di comuni dadi da giuoco fosse possibile, alla lunga, ottenere risultati statisticamente significativi. Vale la pena di ricordare lo sbalorditivo risultato conseguito nel 1934 dal Rhine nelle sue prime prove, in collaborazione con la moglie. Si effettuarono 10.812 lanci di due dadi, con l’intesa che si doveva cercar di ottenere – “concentrando” il pensiero e la volontà – cifre superiori a 6. La probabilità di tali colpi sarebbe stata evidentemente di 5 per ogni 12, e il totale avrebbe dovuto essere di 4.505, con una deviazione in più o in meno di 51,33. Invece il numero totale dei colpi “desiderati” fu di 4.951, con una deviazione di 446 e un rapporto critico di 8,69. Tale rapporto indica che vi sono mille miliardi di probabilità contro 1 che il risultato non è stato dovuto al caso.
L’ipotesi critica che prima può affacciarsi a questo punto è naturalmente quella di una qualche imperfezione nei dadi. A tale obiezione fu ovviato adoperando gli stessi dadi per scopi opposti (desiderando, cioè, risultati inferiori a 6) e ottenendo deviazioni e confronti analoghi. L’idea che i risultati potessero dipendere, invece, dal modo di gettare i dadi, fu eliminata dal momento in cui i lanci furono effettuati con apposite macchine. Nessun artifizio o errore può inoltre spiegare la strana tendenza – constatata sin dal 1942 – dei risultati delle esperienze PK a “distribuirsi” in ogni serie registrata in una singola pagina, secondo una divisione “per quarti” (QD, o quarter distribution), rappresentabile graficamente mediante quattro parallelepipedi di diversa grandezza, che corrispondono, in ordine decrescente, ai quattro quarti della pagina.
Dopo lunghi studi, e una quantità di esperimenti di poco inferiore, per numero e per varietà, a quelli sulla ESP, si può oggi ritenere che l’effetto PK abbia non minori diritti di cittadinanza, in parapsicologia, della percezione extra sensoriale. Globalmente, le deviazioni PK sono alquanto più modeste, ma più regolari di quelle ESP, cosicché il loro valore significativo numerico è, tutto sommato, maggiore. Ciò che più colpisce nell’effetto PK è la nessuna concordanza tra questo fenomeno e i processi del mondo fisico. Che i dadi (o altri oggetti solidi) siano più piccoli o più grossi, più pesanti o più leggeri, che ne vengano adoperati due o sei o ventiquattro o sessanta – tutto ciò non conta nulla agli effetti dell’eventuale risultato. Se si lanciano due dadi di dimensioni diverse, l’effetto PK non si verifica affatto più facilmente sul più piccolo. Insomma, sembra abbastanza evidente che l’effetto PK appartiene anch’esso, come la ESP, essenzialmente all’ordine dei fenomeni “psichici”, e non di quelli fisici, ancorché debba ovviamente esservi, a un certo punto, una “intersezione tra i due piani dell’essere.
Le ricerche e le risultanze della “scuola di Durham” sulla ESP e sull’effetto PK, esposte in numerosi volumi e nelle annate del Journal of Parapsychology (che nel 1960 è entrato nel suo ventiquattresimo anno di vita) sono state riprese e confermate da studiosi, e in lavoratori di vari Paesi. Basterà citare, fra le tante, quelle di S.G. Soal e K.M. Goldney sulla cosiddetta “telepatia precognitiva”, e quelle, giudicate altrettanto impeccabili, dello stesso Soal e di F. Bateman, esposte nel volume ormai classico, Modern Experiments in Telepathy (1954). Sulla rigorosità delle analisi matematico-statistiche della “scuola di Durham” si sono pronunciati positivamente, già parecchi anni fa, autorità ed enti internazionalmente qualificati, come l’Istituto Americano di Alta Matematica. Naturalmente, non tutti i critici della parapsicologia si sono dichiarati soddisfatti: ma bisogna ammettere che le loro attuali difese sono alquanto vacillanti. C’è chi si trincera dietro un “no” apodittico. C’è chi se la prende con il metodo statistico in quanto tale, contestandone la validità in modi che gli esperti hanno più volte confutato, e che comunque non riguardano direttamente l’applicazione della statistica alla parapsicologia. E c’è, infine, chi ha seriamente preferito pensare a un continuo, multiforme inganno da parte degli sperimentatori (tra i quali figurano, come si sa, persone universalmente note e venerate), piuttosto che ammettere le prove in favore della percezione extra sensoriale. A questo punto non si può non convenire col Rhine che se gli avversari sono ridotti a tanto, ciò significa che la parapsicologia ha vinto la sua battaglia.
Naturalmente l’anzidetta “via nuova”, quantitativo-statistica, che ha così potentemente contribuito a togliere gli studi sul “paranormale” dal limbo non propriamente scientifico in cui si trovavano ancora trenta o quarant’anni fa, non è la sola che la parapsicologia attualmente persegua. Gli esperimenti di massa non escludono affatto le esperienze su soggetti singoli i quali particolarmente si prestino (come è stato di Gloria Stewart e di Basil Shakleton, con cui lungamente, e con risultati così brillanti, sperimentò il Soal); così come non è affatto detto che la tecnica delle esperienze debba essere sempre e comunque basata sull’uso di carte e di dadi. Alcune delle “categorie” riconosciute ed elencate dalla metapsichica classica possono essere studiate ex novo introducendo in tale studio particolari accorgimenti sperimentali, e soprattutto un nuovo spirito, scevro di emozionalismo e di “attesa del meraviglioso”: così certe forme di ESP con contatto di oggetti (la cosiddetta “psicometria”), di apparente precognizione, di grafologia “parapsicologica”, di radioestesia, e persino di presunte facoltà extranormali d’ordine terapeutico.
Ma la parapsicologia ha ormai ben maggiori ambizioni che non quella della verifica, sia pure accuratissima e impeccabile, di questo o quel tipo di fenomeni. Essa intende, con pazienza e tempo, giungere alla definizione, per lo meno approssimativa, dei meccanismi sottogiacenti, delle motivazioni e dei “condizionamenti” dei fenomeni stessi. Già da vari anni, perciò, negli esperimenti “quantitativi” si studiano i rapporti che corrono tra i gradi d’emergenza di certi fenomeni e tutta una serie di variabili: sesso, età, tipo psicologico essenziale, condizioni fisiologiche, disposizione d’animo generale, atteggiamenti specifici; e poi condizioni di ora e di tempo, uso di droghe, e – fattore importantissimo – rapporti interpersonali (superficiali e profondi, consci ed inconsci) tra soggetti e sperimentatori.
Qui si apre un’altra via di ricerca, non meno nuova, e non meno importante, di quella degli studi e dei metodi statistico-matematici. La psicologia attuale, dopo le fondamentali scoperte originate da Freud, concepisce la personalità psichica umana come un apparato a varie dimensioni, di cui fa parte integrante l’inconscio. Ciò premesso, è chiaro che in uno studio moderno dei fenomeni parapsicologici non si può a un certo punto non chiedersi quale parte abbiano, nella loro determinazione, le strutture psicologiche inconscie dei soggetti e dei partecipanti, nonché i rapporti profondi, a livelli non coscienti, tra i rispettivi apparati psichici. Già Whately Carington aveva cercato di applicare a sensitivi e a medium taluni noti tests psicologici, per determinare i loro profili di personalità, e le eventuali più o meno ampie variazioni dei profili stessi nel corso di certe esperienze. Molto più recentemente, la dottoressa Gertrude Schmeidler ha effettuato, su un vasto numero di individui, ricerche analoghe, operando un primo tentativo di classificazione per cui a certi tipi psicologici appaiono corrispondere certi risultati ricorrenti nelle esperienze ESP. Tuttavia i reperti più brillanti sono stati sinora quelli relativi all’investigazione psicoanalitica dei cosiddetti “sogni telepatici” e di qualche presunto sogno “precognitivo” – e ciò al difuori di una vera e propria situazione di analisi, sia nell’ambito del rapporto interpersonale tra analista e paziente.
Nella sua “Interpretazione dei Sogni”, apparsa nel 1900, Freud aveva indicato che al pari del sogno, ed anche se in guisa minore, tutti i prodotti terminali dell’attività psichica possono risentire degli interventi deformatori, degli accomodamenti, e delle “censure” messi in opera, già nell’inconscio, da quelli che furono successivamente chiamati i “meccanismi di difesa” dell’Io. Tali interventi vanno da un minimo a un massimo, e spesso impediscono di veder chiaro nella vita psichica profonda, e nelle motivazioni di molti pensieri, fantasie e comportamenti, a meno che non ci si serva dello strumento psicoanalitico di ricerca e di esplicitazione.
Se esistono i fenomeni telepatici – si disse Freud nel 1922, anno in cui pubblicò il suo primo saggio “parapsicologico, intitolato Sogno e telepatia – non si vede perché essi dovrebbero sfuggire ai predetti meccanismi d’ordine generale. E interpretando il sogno di un suo corrispondente, mostrò in qual modo il suo probabile contenuto telepatico fosse stato deformato, e reso assai meno evidente, da automatiche “censure” e riluttanze inconscie. Freud concluse, già allora, che in altri eventuali sogni “telepatici”, l’elemento extra sensoriale poteva, parimenti, dover essere ricercato non già nell’aspetto terminale, “manifesto”, del sogno, ma nel suo contenuto latente. Chi cerca la telepatia in un sogno, e non la trova, non può dunque esser sicuro che non vi sia, se il sogno non è stato sufficientemente chiarito ed interpretato.
Sulla traccia di queste geniali indicazioni del fondatore della psicoanalisi (che ancora pochi anni prima di morire manifestò in un suo lavoro – il sesto del genere – il suo interesse per i problemi parapsicologici), hanno lavorato, da parecchio tempo a questa parte, vari indagatori (tra i primi, Helene Deutsch, Istvan Hollos, e il sottoscritto; dopo l’ultima guerra, oltre allo scrivente, specialmente gli americani Jule Eisenbud e Jan Ehrenwald). Le caratteristiche specifiche della situazione analitica hanno permesso a tutti i menzionati di indicare, con sempre maggior precisione, quali siano le condizioni e le motivazioni interpersonali che appaiono favorire – se non propriamente “causare” – una comunicazione di tipo telepatico. È stato ripetutamente osservato, ad esempio, che quando un analizzando “produce” un sogno, o una fantasia, o un sintomo, in cui si rivelano, mediante l’analisi, elementi telepatici, tale produzione è condizionata da una particolare “tensione” nel rapporto analitico (situazione cosiddetta di “transfert e controtransfert”), e costituisce, da parte del paziente, come una indiretta, paranormale dimostrazione di “conoscenze significative”, e come un “richiamo” all’analista, tacitamente accusato di stornare la propria attenzione dai problemi dell’analizzando, perché più o meno consapevolmente occupato in problemi propri dello stesso genere.
Troppo lontano ci porterebbe l’esemplificazione, e la dimostrazione, di casi pratici di questo tipo; e più spazio ancora ci vorrebbe per indicare come certe vedute psicoanalitiche e psicodinamiche possano – o almeno così pare – dar ragione di molti fenomeni di percezione extra sensoriale anche a prescindere dal particolare rapporto d’analisi. Basterà osservare, a conclusione di questo nostro rapido excursus nel campo della parapsicologia, che sia l’avvicinamento quantitativo, sia quello della “psicologia del profondo”; mostrano il progressivo inserirsi della “dimensione parapsicologica” nella personalità generale, biopsichica, degli uomini come specie, dell’uomo totale. Fugate senza possibilità di ritorno le elucubrazioni e gli atteggiamenti pseudoscientifici, appare chiaro che il fine della moderna parapsicologia non può essere che uno: ottenere una teoria più completa, più ampia ed integrale della struttura psichica umana – dell’intima condizione di quell’homo sapiens ancora tanto sconosciuto, al quale è assegnato tuttavia, da un volere imperscrutabile, il privilegio ed il compito della conoscenza di se stesso.