L’ impostore di Rishikesh
L’Europa n°10 1968
Anche certi valori che sembravano per definizione doversi mantenere indenni da sfasamenti e contaminazioni possono essere oggigiorno gravemente compromessi, in modi e forme che destano non si sa se più il riso, lo sdegno o la pietà.
Che nella nostra epoca si assista a una confusione e a una sovversione di valori essenziali è nozione largamente diffusa, ma di cui non molti sembrano apprezzare la portata.
Ciò che più colpisce nel fenomeno è l’affievolirsi o addirittura lo sparire dei criteri di distribuzione e di gerarchia, per cui un’impresa sportiva – supponiamo – viene non soltanto esaltata (il che, al livello che pertiene allo sport, è cosa perfettamente legittima), ma sentita, in perfetta buonafede, alla stessa stregua, poniamo, di una realizzazione artistica, o di una conquista spirituale. I criteri discriminativi tradizionali, per cui un’operazione chirurgica spettacolare, fosse pure il trapianto di un cuore, rimane gerarchicamente inferiore, “dal punto di vista spirituale”, a una poesia di Rimbaud, o a una pagina della BhagavadGita, sono largamente dimenticati. Ne risulta una situazione di estremo smarrimento, che appare chiarissima in certi dialoghi in cui gli interlocutori possono credere o sperare d’intendersi, mentre si trovano in realtà, metaforicamente parlando, le mille miglia lontani l’uno dall’altro.
Anche certi valori che sembravano per definizione doversi mantenere indenni da simili sfasamenti e contaminazioni possono essere oggigiorno gravemente compromessi, in modi e forme che destano non si sa se più il riso, lo sdegno o la pietà.
Uno di questi, sul quale qui ci soffermiamo non tanto per la sua importanza, quanto perchè si tratta di un avvenimento recente ed esemplificativo, è un certo movimento – largamente descritto e sottolineato dalla stampa internazionale – manifestatosi intorno a una curiosa figura di “santone” indiano, che si fa chiamare Maharishi Mahesh Yogi. Questi, di cui il meno che si possa dire è che non si sa se in lui domini più l’impostura o l’autoillusione, si è presentato come capo e fondatore di un “Movimento di rigenerazione spirituale”, e ha attirato nella sua sfera d’influenza un certo numero di persone appartenenti allo “smart set” internazionale, quali i ben noti Beatles, varie “stelline” di Hollywood, due o tre prosperosi industriali americani, e alcuni altri individui dei due sessi, provvisti di abbondanti mezzi, e sin troppo evidentemente “in cerca di emozioni”, come avrebbe detto il caro e compianto nostro amico Ernesto De Martino. Codesto signore ha stabilito nella città sacra di Rishikesh, in India, una sorta di monastero laico, su un terreno di circa 15 ettari, ben guardato da certi suoi giannizzeri, e nel quale i suoi “ospiti” i quali pagano, si noti, circa 200.000 lire al mese di “retta”), possono imparare da lui i segreti dell’alta meditazione indù e dell’autorealizzazione finale. Il direttore e fondatore del “Movimento di rigenerazione spirituale” ha un suo aereo personale, che atterra comodamente sulla pista appositamente preparata del “monastero”. Sembra che abbia un cospicuo conto in banca, risultante evidentemente non solo dalle rette pagate dai suoi “ospiti”, ma anche dalle libere donazioni che gli pervengono da varie parti del mondo. Dato che tra i suoi più zelanti seguaci figurano i Beatles, la cui straordinaria ricchezza è a tutti nota, non è difficile ritenere che le finanze private di questo sedicente “capo spirituale” debbano essere piuttosto floride.
Ci sarebbe assai facile riportare da giornali e riviste ampie descrizioni di come si svolgono le giornate nel cenacolo di Rishikesh, e trasformare questo articolo in un “pezzo di colore”. Ma non è tale il nostro proposito. Vorremmo invece far maggiormente risaltare, sulla base di alcune considerazioni d’ordine tradizionale, fino a qual punto la figura del predetto “santone”, con il suo corteggio di gente mondana e illusa costituisca un esempio di quella confusione e distorsione di valori, alla quale abbiamo accennato all’inizio. Nel caso che ci occupa lo spettacolo è particolarmente ripugnante e in un certo senso preoccupante, poiché si tratta, a guardar bene, di un chiassoso quanto angosciante scimmiottamento di talune figure e di certi principi che per secoli e millenni una grande tradizione d’Oriente ha venerato e considerato sacri.
Cominciamo dai nomi e dalle qualifiche che il predetto, sedicente “capo spirituale” si è attribuito. Il termine “Maharishi” è di origine sanscrita, e vuol dire pressappoco “grande santo”, o “grande iniziato”. A pochissimi uomini, in India, nel corso di molti secoli, è stato riconosciuto il diritto di fregiarsi di tale appellativo. Esso infatti, se preso letteralmente, dovrebbe significare che chi lo possiede ha raggiunto un livello di evoluzione psichica e spirituale tale da porlo al di sopra della quasi totalità degli uomini, e per così dire della stessa natura umana. L’ultimo grande maestro spirituale indiano, al quale è stato unanimemente riconosciuto il diritto di chiamarsi Maharishi, è stato Sri Ramana, di Tiruvannamalai, nell’India meridionale, spentosi una ventina d’anni fa, e il cui verbo e ricordo sono ancora vivissimi in molti che l’hanno conosciuto e avvicinato. Chiunque abbia chiari nella mente l’immagine e l’insegnamento di Sri Ramana non può che rabbrividire pensando che lo stesso titolo che solitamente accompagna il suo nome sia legato oggi al nome e alle imprese dell’azzeccagarbugli di cui ci stiamo occupando.
Il titolo di “Yogi” è beninteso assai meno importante, e contraddistingue colui che abbia dedicato la sua vita allo studio e alla pratica dello yoga: nella sua totalità, o in questa o quella delle sue varie suddivisioni. Non sappiamo se e quanto il sedicente Mahesh Yogi abbia realmente percorso la via maestra tracciata alcuni millenni fa da colui che viene considerato il fondatore e codificatore del sistema yoga, il famoso Patangiali. Sappiamo soltanto che alcuni principi basilari, ai quali un vero yogi deve improntare la sua vita e la sua azione, appaiono in aperto contrasto con quanto il suddetto “santone” mette praticamente in opera. Il silenzio operoso, l’assenza di qualsiasi fine mondano, la relativa povertà, l’umiltà, l’ascesi…: sono forse questi i criteri che improntano la vita e la predicazione del “leader” di Rishikesh? Non sembra davvero. Riteniamo quindi più che legittimo contestare l’appellativo di “Yogi” del quale seguita a fregiarsi codesto signore, tanto più se pensiamo ad alcuni autentici yogi da noi conosciuti durante un nostro lungo soggiorno in India, e di cui ricordiamo con venerazione lo stile di vita e il messaggio.
La figura del “maestro”, dal punto di vista tradizionale e spirituale, e la sua situazione rispetto al discepolo o ai discepoli, sollevano problemi molto più complessi di quanto si possa in un primo momento ritenere, e hanno dato luogo anche recentemente ad ampi studi in Oriente e in Occidente. Tale figura e tale funzione appaiono sensibilmente diverse a seconda dei singoli indirizzi religiosi, e variano naturalmente anche secondo i tempi. Non v’è dubbio che l’istituzione già esistesse nell’antichità classica (come tra gli epicurei e tra gli stoici), e che essa sia esistita ed esista tuttora in varie “scuole” di ebraismo (per esempio in quelle attinenti alla tradizione chassidica, a quella kabalistica ecc.). Nel sufismo islamico troviamo una costante relazione binomiale tra “shaykh” (maestro) e “murid” (studente o discepolo). La figura del maestro spirituale o “guru” si ritrova in tutte le fasi delle religioni vedica, brahmanica e indù; e, sempre per rimanere in Oriente, è notissimo il rapporto fra maestro e discepolo nel buddismo zen. In Occidente il “direttore spirituale” del cattolicesimo appare in una funzione molto attenuata rispetto a quella del “maestro” tradizionale d’Oriente. Nel protestantesimo, e nella relativa prassi, scompaiono del tutto le funzioni ed i ruoli sia del confessore come del direttore spirituale. La istituzione del maestro rimane peraltro in Occidente negli statuti e nei riti di vari ordini e scuole tradizionali, esoterici, ecc.
E’ stato variamente discusso entro quali limiti possa e debba svolgersi l’azione del maestro, fino a che punto il discepolo debba sentirsi a lui legato ed obbedirgli, fino a quando debba esplicarsi la sua funzione, ecc.
Storicamente, abbiamo esempi estremamente diversi di comportamenti e di rapporti. A nostro avviso, ciò che conta soprattutto è lo sviluppo spirituale del maestro, la sua “statura” psicologica e morale e per conseguenza la sua possibilità di rendersi conto, in modi che spesse volte lo stesso discepolo (per non parlare degli estranei) non riesce chiaramente a percepire, delle autentiche qualità e delle vere esigenze di colui o di coloro che gli si affidano. L’unico vero e grande Maharishi dei nostri tempi, il già menzionato Sri Ramana, disse un giorno che la funzione del guru esterno è soltanto quella di svegliare il guru interno nel cuore del discepolo. Secondo la dottrina indiana più classica e ortodossa, il supremo spirito (“Paramatma”) è identico al vero Sè (“Atma”) di ognuno, e come tale potrebbe dare “di per sé”, in guisa naturale e spontanea, comprensione e guida spirituale. Nella più gran parte dei casi, tuttavia, la mente cosciente è a ciò impedita dalla credenza (“ahankara”) che l’individuo esista come entità spirituale separata. Perciò è necessaria quella che in psicanalisi si chiamerebbe una “proiezione” del vero “Atma” su una persona apparentemente concreta e separata, il guru manifesto, che viene per così dire “scambiato” per un altro essere umano, mentre egli, il guru, è ben consapevole della sua appartenenza all’essere universale. Beninteso in questo modo si dà del guru un’immagine supremamente idealizzata, e ci si raffigura costui come un essere continuamente, costantemente consapevole della sua natura universale. Quali e quanti “maestri spirituali” dell’India o di altri paesi si sono sensibilmente avvicinati a questo ideale? Direttamente, non siamo in grado di dirlo, anche se riteniamo con buon fondamento che alcuni rari maestri, nell’antichità e anche in tempi a noi più vicini (Ramakrishna, Vivekananda, Aurobindo, Sri Ramana e due o tre altri), si siano straordinariamente avvicinati a tale limite di perfezione. Ma chi riveda oggi, sulla scorta dei documenti e delle testimonianze che possediamo, i modi e le forme in cui costoro svolsero la loro missione, non potrà se non crollare il capo più o meno sconsolatamente dinanzi allo spettacolo assai poco edificante che al momento attuale stanno dando, in un luogo tradizionalmente sacro dell’India, il sedicente capo del “Movimento di rigenerazione spirituale” e i suoi più o meno benestanti, variopinti e sprovveduti seguaci.
Emilio Servadio