Forse è morto con C. Gustavo Jung ultimo grand’uomo dell’epoca medievale
Grande psichiatra e imperterrito sognatore, indiano onorario e svizzero tedesco, fu tenace sostenitore dei fatti in opposizione alle varie teorie
Credeva che la psicologia fosse scienza infantile
Il Tempo 13/06/1961
A qualche giorno di distanza dalla morte di Carlo Gustavo Jung, lo studioso può tentare – assai meglio che non sotto l’assillo della necrologia da scrivere, o della commemorazione da pronunziare – un primo, sommario bilancio di ciò che il grande psicologo è stato e ci ha lasciato. E’ un’eredità spirituale ingentissima, ben difficile da stimare, e tale da mettere in imbarazzo persino coloro di che di Jung appaiono i continuatori più informati e più diretti.
E’ stato osservato da parecchi che mentre le teorie di Freud possono essere (con tutti gli svantaggi e le limitazioni che ciò comporta) riassunte in pochi paragrafi la cosa non è possibile quando si tratti degli insegnamenti di Jung, Se ci si chiede infatti quale sia la base, il nucleo centrale di tali insegnamenti, il pensiero comincia a oscillare tra vari concetti, ed esita a definire i loro rapporti gerarchici. E’ più importante quello d’«inconscio collettivo» o quello delle «quattro funzioni» della psiche individuale? La teoria dell’«individuazione» o quella della «sincronicità»? E nella prassi psicoterapica, contano più gli «archetipi» o le interreazioni tra l’individuo ed il mondo? Per impadronirsi del pensiero dl Jung, infine, è bene cominciare a leggere Tipi psicologici, o La simbolicolica dello spirito?
Il posto del singolo
La verità è che Jung ha dato vita non tanto a un corpo di dottrina, quanto a una vicenda che è, in primo luogo, squisitamente individuale. Egli stesso si considerava un perpetuo cercatore di sempre nuove verità, e rifiutava di «sistematizzare» la sua opera, affermando che la psicologia è ancora nella sua fase infantile. Come avrebbe potuto, d’altronde, pensare diversamente chi sosteneva la «obiettività» di un inconscio universale, nel cui gigantesco disegno il singolo doveva cercare il suo posto, interpretando e seguendo simboli o i messaggi allusivi, che mano a mano gliene pervenivano?
L’iter seguito da Jung appare dunque non tanto quello di chi esplora un mondo pressoché sconosciuto, ma che apparirà ben più delineato e chiaro ai viaggiatori successivi, quanto una serie di singole scoperte in un territorio che per definizione non è catalogabile od obiettivabile e che ciascuno, alla fin fine, deve «riscoprire» per conto suo.
Considerato da questo punto di vista, il «viaggio» avventuroso di Jung si annunzia già nel 1912, con la pubblicazione dell’opera Metamorfosi e simboli della libido, che per la sua poetica, quasi insolente sbrigliatezza non poteva non allarmare Freud, la cui audacia non andava mai disgiunta da una costante autocritica, e dall’osservazione psicologico-clinica. La rottura con Freud fece fare a Jung in altro passo sulla via di quel relativismo psicologico che doveva diventare, nelle sue ultime opere, poco meno che agnosticismo o quietismo: poiché egli dovette porsi il «perché» di tale separazione.
Nasce così Tipi psicologici, opera per certi rispetti insuperata, nella quale si definiscono vari possibili orientamenti dell’uomo rispetto alla propria, immediata e irriducibile visione del mondo, ma nella quale, appunto perciò, si ammette implicitamente la unicità e la non-mutuabilità dell’esperienza psicologica. A questo punto, è chiaro che per Jung certe espressioni psicoanalitiche, come «apparato psichico» o « meccanismi di difesa», avevano perduto ogni significato, legati com’erano (così pensava) a particolari situazioni e momenti storici di un’esperienza quale quella freudiana, svoltasi a cavallo tra l’ottocento e il Novecento, nell’Europa centrale. Occorreva conoscere altre situazioni, altri momenti, altre Wandluogen della proteiforme energia dell’anima. Perciò Jung partì, visitò l’Africa del Nord, il Nuovo Messico, il Kenia, vari Paesi d’oriente, convinto com’era che i motivi e le immagini dell’inconscio profondo fossero, al tempo stesso, ubiquitari e sempre nuovi.
Lo attrassero a volta a volta le tradizioni sapienziali indo-tibetane, la filosofia cinese, il buddhismo Zen, i testi dell’ermetismo alchemico o del misticismo medioevale… E’ necessario ammettere che in ognuna di queste sue straordinarie avventure dello spirito, Jung non fu mai un dilettante, e che le sue conoscenze nei singoli campi che via via esplorava erano tali, da impressionare gli stessi specialisti. Non per nulla accettarono di collaborare con lui famosi «esperti» come il sinologo Wilhelm, l’indologo Zimmer, il mitologo Kerenyi… Il meno che gli esponenti della psicologia scientifica potessero dire, da un certo punto in poi, fu naturalmente che Jung era mille miglia lontano dal severi studi psichiatrici che gli avevano dato la prima notorietà, e che i libri e i saggi che seguitava infaticabilmente a pubblicare facevano ormai parte della letteratura filosofica e mistica, se non addirittura di quella teosofica od occultistica. Come poteva ancora chiamarsi psicologo chi sosteneva che negli scritti degli alchimisti si potevano trovare importantissime, nozioni sui processi psichici d’individuazione, e che difendeva la profonda validità di un antico testo cinese, Il mistero del fiore d’oro?…
Psiche obiettiva
Da ultimo, come abbiamo accennato, Jung sembrò abbandonare ogni e qualsiasi pretesa « dottrinale » in favore di un’interpretazione poco meno che fatalistica dell’uomo e della sua posizione nel mondo. In Italia, ben pochi hanno letto una delle sue ultime opere, che a nostro avviso è un vero e proprio testamento spirituale Interpretazione della natura e Psiche. In essa si sostiene che tra gli eventi psichici e quelli del mondo esterno esistono rapporti che non si possono porre sotto i segni della causa e dell’effetto, o in sistemi di coordinate, spazio-temporali. Alla soluzione improvvisa di un problema interiore avente a che fare – supponiamo – con una situazione figlio-padre può corrispondere, sul piano dell’esperienza empirica, lo incontro inaspettato con una autorità religiosa, o il rinvenimento di un’immagine raffigurante Giove. In vari casi dei quali la « coincidenza » non riesce a dare ragione, si tratta – dice Jung – di rapporto di « sincronicità » (che non significa, beninteso « simultaneità ». Chi, o che cosa, « leghi» i due eventi rimane del tutto misterioso e inconoscibile, dato che la nostra ragione non può concepire rapporti che non siano di causa ad effetto, o spaziali, o temporali. Non è – ci sembra – difficile ravvisare nella teoria junghiana della « sincronicità » un ritorno elaborato e concettoso all’idea fideistica della provvidenza, con l’aggiunta di una nota magica e misteriosofica, per cui si potrebb’essere tratti a cercare, in certi piccoli eventi della vita quotidiana, avvertimenti o conferme o smentite a ciò che internamente, dibattiamo, e ad affisarci in una foggia rimodernata di signatura rerum…
Che tutto questo – formulato da Jung in scritture smaglianti e appoggiato ad una apparecchiatura erudita senza precedenti – sia tale da affascinare, da promuovere le cogitazioni più intense, da destare ai problemi più peregrini, nessun dubbio: così come non v’è dubbio che Il mistero del fiore d’oro o le dottrine del buddhismo mahayana non costituiscono gli strumenti più concreti per affrontare i problemi di un nevrotico ossessivo o di una personalità schizoide, D’altronde, gli junghiani più consapevoli e più onesti hanno rinunziato da tempo alle gnosi e alla stessa nosografia psichiatrica. Il dialogo con il paziente in trattamento, secondo la scuola junghiana, è una specie di maieutica a due, nella quale ricercato e ricercatore non sempre mantengono i ruoli e i compiti di partenza.
Il discorso che precede, pur sempre incompleto, può concludersi con una considerazione, che a nostro parere illumina non poco la complessa figura di quello che è stato – a ben guardare – uno degli uomini più interessanti dell’epoca Jung, in perfetta buona fede, ha sempre sostenuto che per lui, ciò che soprattutto contava erano i fatti, e che nulla, nelle sue teorie, era da considerarsi speculazione in vacuo. Questa tesi – in base alla quale Jung arrivò a chiamare « psiche obiettiva » l’inconscio totale da lui immaginosamente descritto – caratterizza colui che, figlio di teologo, sembrò essere finalmente arrivato, per un lungo circuito, alla teologia degli eventi sincronici, visti quali manifestazioni concrete dl un mysterium psichologicum comunque inaccessibile. Nei teologi di tutte le fedi (ed ciò che costituisce, insieme, la loro forza e la loro contraddizione), noi vediamo infatti un intendimento costante: descrivere lo inconoscibile in paragrafi, redigere il manuale o la guida del transumano. Così Jung, psichiatra e sognatore, indiano onorario e svizzero tedesco, uomo sportivo e coltivatore dei « fiori d’oro » dello spirito. Forse è morto con lui l’ultimo grand’uomo del Medioevo.
Emilio Servadio