C’è chi si toglie la vita nell’illusione di rinascere
Il Tempo 13/09/1956
L’individuo deciso a uccidersi si « anticipa » non già come morto, ma come « vivo in un altro mondo »· giacché l’uomo non accetta la morte
La recente pubblicazione, ne Il Tempo, di alcuni articoli di Elio Talarico sul suicidio, ci offre lo spunto per indicare quali contributi la psicoanalisi può dare allo studio « in profondità » del fenomeno. Tali contributi – è bene premettere – non pretendono di costituire una delucidazione totalitaria e finale del difficile problema; ed è doveroso altresì dire che nell’investigazione psicoanalitica di certi processi psichici relativi al suicidio, non mancano i punti interrogativi, e persino qualche contraddizione. Ciò era necessario dichiarare, per evitare in partenza l’accusa, frequentemente mossa agli psicoanalisti, di voler « spiegare tutto » secondo i loro criteri, mettendo arbitrariamente da parte altri e diversi punti di vista.
Il pensiero di Freud
La considerazione psicoanalitica del suicidio ha subito una evoluzione parallela a quella dottrinale della psicoanalisi. Tale evoluzione si può dividere schematicamente in tre tempi.
In una prima fase, gli studi analitici sul suicidio cercarono di porre in evidenza in qual modo, nell’azione suicida, potessero manifestarsi certe spinte inconscie istintive, con particolare riguardo a quelle della libido. Così Freud, nel 1920, poté interpretare il tentato suicidio di una ragazza (lanciatasi dall’alto in un fossato) come espressione di un desiderio inconscio di metter al mondo un figlio per rivalità con la propria madre, a cui la ragazza stessa avrebbe voluto in tal modo sostituirsi, e per la quale nutriva profonda ostilità. La fantasia inconscia – che la madre morisse di parto – tradotta in atto mediante l’anzidetta identificazione, avrebbe portato con sé, ipso facto, la propria sanzione, causando la morte della protagonista. In realtà questa, come accennato, poté essere salvata: ma il meccanismo del suicidio sarebbe stato comunque riconducibile a desideri inconsci inerenti al « complesso edipico femminile » (attaccamento al padre, rivalità con la madre) e ai sentimenti di colpa che li accompagnavano.
In questo, come in altri episodi, veniva inoltre messo in risalto l’elemento simbolico contenuto nell’atto (nel caso della ragazza, il «cadere» simboleggiava il parto anche quale segno ed esito di una «caduta morale»; in altri casi, la scelta del mezzo autodistruttivo poteva avere, beninteso, significati simbolici diversi).
In una seconda fase, l’attenzione degli psicoanalisti si rivolse maggiormente alle componenti aggressive dell’istintività umana. L’intensità dei sentimenti di colpa, il bisogno inconscio di punizione (bisogno a volte così forte da mettere a repentaglio la vita stessa del soggetto), furono meglio compresi allorché fu possibile descriverli come dovuti a un cospicuo rivolgersi dell’energia aggressiva contro il soggetto, per il tramite di un’istanza giudicativa e punitiva interiore, cui fu dato il nome di Super-Io. In proposito, vennero presentate due ipotesi alquanto diverse, ma non esclusive, atte a spiegare sia il meccanismo della melancolia (e in generale degli stati depressivi), sia quello del suicidio, verso cui la depressione (melancolica e reattiva) spesso orienta colui che ne soffre.
La severità del Super-Io – si disse – assume carattere estremistico e crudele, sfogandosi contro il soggetto e attaccandolo specialmente a causa della sua ostilità inconscia verso una persona realmente o immaginariamente perduta (quasiché il soggetto stesso l’avesse uccisa): da qui le autoaccuse del depresso, le sue idee di indegnità e, al limite, il suicidio. Freud stesso, tuttavia, propose lo schema alternativo seguente: perduta (realmente o nella fantasia) la persona amata e al tempo stesso odiata, l’Io parzialmente e complessivamente si identifica con essa attraverso un’immaginaria incorporazione (introiezione), cosicché l’ostilità inconscia nutrita prima contro di essa si sfoga contro il soggetto. Se si riflette che il Super-Io si forma anch’esso attraverso una serie di introiezioni e identificazioni a partire dalla prima infanzia, appare chiaro che nei due anzidetti schemi l’accento viene alternativamente posto sull’aggressività del Super-Io e su quella dell’Io.
In realtà, si tratta in entrambi i casi di un enorme potenziale di aggressività non risolta, e per così dire in corto circuito, che si sfoga sul soggetto non trovando un suo deflusso verso il mondo esterno. Lo schema secondo cui il suicida vorrebbe colpire un oggetto deludente e osteggiato, con cui si inconsciamente e parzialmente identificato, è quello al quale gli psicoanalisti (Federn, Menninger, Zilboorg, Garma, Friedman, ecc.) si sono maggiormente attenuti, e che ha trovato la sua concisa definizione nella formula freudiana secondo cui ogni suicida è in sostanza un omicida. Nei loro studi sul suicidio, gli anzidetti Autori, e vari altri, non hanno tuttavia mancato di sottolineare l’importanza dei sentimenti di colpa, ossia delle accuse che il Super-Io rivolge al soggetto specie a· causa della sua non risolta ostilità sia verso persone reali, sia verso le loro immagini introiettate. Tali auto-accuse vanno· naturalmente ad aumentare la aggressività del soggetto contro se stesso.
Un parziale ritorno verso una· più attenta considerazione della funzione della libido nel meccanismo del suicidio si è avuta con uno studio di Angel Garma, il quale fece rilevare che in certi casi di suicidio o di tentato suicidio, si poteva notare un insormontabile attaccamento del soggetto a un oggetto scomparso. Identificandosi inconsciamente con l’oggetto, e uccidendosi, il soggetto immagina di seguirne le sorti, si riunisce con esso, illusoriamente lo ricupera. Tale meccanismo appare di fatto abbastanza evidente nei casi in cui il suicida dichiara di volersi « ricongiungere nella morte» a un oggetto amato (madre, coniuge, fidanzato, e via discorrendo).
La barca e la culla
Un terzo tempo nelle investigazioni psicoanalitiche sul suicidio è stato inaugurato dalle recenti ricerche di Melanie Klein e della «scuola inglese» di psicoanalisi, relative ai rapporti inconsci dell’individuo con i suoi oggetti interni od esterni. Per quanto riguarda i primi, la tesi della Klein è che in taluni casi le fantasie che sottendono il suicidio mirino a preservare gli « oggetti buoni » interiori, e a colpire quelli cattivi (come si può notare, in questo schema vengono fusi sia il motivo dell’aggressività contro l’oggetto osteggiato e introiettato,· sia quello dell’ipotetica identificazione e riunione permanente con quello buono ed amato). Quanto al rapporto con gli oggetti esterni, la « scuola inglese » sostiene che il suicida può voler « liberare » anche le persone che ama, oltre che se stesso,· dalla presenza degli oggetti cattivi che sente dentro di sé, operando un taglio finale tra questi oggetti (distruggendo cioè se stesso in quanto identificato con tali oggetti) ed il mondo esterno. Ciò, fra l’altro, spiegherebbe la rottura di rapporti con l’ambiente circostante, che è già tipica del depresso prima ancora di venir convalidata e resa irreversibile dal suicidio.
Quanto si è detto finora si applica, beninteso, ai casi cui il suicida non solo é per definizione un individuo nevrotico o psicotico (riconosciuto o potenziale), ma si trova in uno stato descrivibile in termini di depressione, e non di nevrosi isterica. Bergler distingue con buoni argomenti il tipo « introiettivo » dal tipo « isterico » di suicidio. Nel primo, egli vede l’affermarsi di un istinto primordiale di morte, cui l’Io masochisticamente soggiace, coprendo difensivamente la sua resa, e la sua passività, con una pseudo-aggressività diretta verso gli oggetti introiettati od esterni, e preferendo, in sostanza, di sentirsi colpevole perché aggressivo, piuttosto che ammettersi imbelle e masochista di fronte alle forze della distruzione e della morte.
Nel caso del suicidio di tipo isterico (che per lo più è un suicidio mancato), Bergler vede soprattutto un tentativo inconscio di mostrare agli « altri » (nell’inconscio, alle autorità dell’infanzia) come il soggetto sia stato trattato male, e di vittimizzarsi nei loro confronti. L’atto suicida sarebbe tuttavia anche volto a smentire, attraverso un’aggressività di copertura, un attaccamento passivo-masochistico verso le anzidette autorità. Sarebbe, come scrive Bergler, un « gesto magico negativo ».
A differenza di coloro che ammettono la possibilità – sia pure eccezionale – di un suicidio compiuto da persona « normale », gli psicoanalisti ritengono in genere che il fenomeno non possa non considerarsi patologico. E’ un fatto che le circostanze esterne (acuto disagio ambientale od economico, gravi sofferenze fisiche o morali, ecc.) non sembrano di per sé sufficienti a render ragione di un suicidio: e basterebbero a comprovarlo gli infiniti casi in cui tali circostanze anche estreme non hanno portato al suicidio coloro che ne soffrivano (è stato più volte ricordato, ad esempio, che nei campi nazisti di concentramento o di sterminio, i casi di suicidio sono stati piuttosto rari). Si è tratti perciò a concludere che nel suicida sono sempre in atto profondi determinismi inconsci, anche quando egli ritiene di soccombere di fronte alle circostanze avverse, e anche quando proclama a se stesso e agli altri di uccidersi in piena « libertà ».
E’ chiaro, comunque, che a colui che si uccide o tenta di uccidersi, la morte non appare mai col suo vero volto. Sia che voglia infliggersi una punizione suprema e riscattante, sia che sogni il ricongiungimento con una persona amata, sia che immagini di provocare in altri rimorso e maggior comprensione, sia che aneli a ritornare ad uno stato indifferenziato e nirvanico, chi intende togliersi la vita si contempla e si anticipa non già come morto, ma come « vivo in altro modo »: giacché nel profondo, l’uomo non accetta la morte, e nel suo inconscio la barca di Caronte s’identifica con la culla di una nuova, ipotetica nascita.
Emilio Servadio