La « doppia personalità » dell’ing. Roberto Dalla Verde
L’opinione dello psicanalista
Il Tempo 22/03/1959
Il « caso Dalla Verde», pur non essendo concluso mentre scriviamo, apre non pochi interrogativi e ci fa sostare ancora una volta pensosi su un grave enigma psicologico: quello di un uomo il quale è propenso a credersi colpevole di un delitto che non ricorda di avere commesso.
Dal punto di vista diagnostico, le alternative non possono essere che le seguenti: se l’uccisione di Paola Del Bene è stata realmente effettuata da Roberto Dalla Verde, questi potrebb’essere un astutissimo criminale che si è preparato l’alibi dell’infermità mentale (ma ciò è contraddetto da tutta una serie di attestati e di testimonianze), oppure un grave alienato la cui malattia, rimasta latente sino a pochi giorni fa, è improvvisamente esplosa durante un raptus di tipo epilettico – tristemente simile a quello di alcuni celebri psicopatici ricordati nei classici manuali tipo Krafft-Ebing: raptus dopo il quale il soggetto, di solito, ha soltanto una vaghissima, quasi crepuscolare idea di che cosa potrebb’essere successo, oppure (come avviene nell’epilessia vera e in altre condizioni psicotiche) non ricorda assolutamente più nulla.
Ma può darsi benissimo, invece, che il Dalla Verde non abbia commesso il delitto di cui si accusa; ed allora il caso, dal punto di vista psicologico, si presenterebbe infinitamente più ricco e interessante. Quale senso può avere, psicologicamente, il «sentirsi» colpevole di un delitto realmente accaduto, quando a tale delitto si è, di fatto, estranei?
Il « senso » in questione si può spiegare unicamente tenendo presenti due diversi meccanismi psichici, ben studiati e approfonditi dalla psicoanalisi: il « sentimento di colpa inconscio e l’identificazione ».
Molte persone – che pur non si sognerebbero di credersi o di sospettarsi criminali – hanno, in grado maggiore o minore, l’oscura sensazione di avere « commesso qualche cosa », che altri potrebbe improvvisamente scoprire, con onta e disdoro dei presunti colpevoli. Sono le persone che, pur sapendosi razionalmente e coscientemente innocenti come l’acqua, trasaliscono se vengono invitate a presentarsi dinnanzi a un’ « autorità » qualsiasi, come se avessero motivo di temere accuse o sanzioni più o meno gravi. Sotto le persone che leggendo qualche libro divulgativo di psicologia, in cui si parla, magari incautamente, di certe velleità o desideri anormali, cominciano a pensare se quelle descrizioni non si potrebbero, per caso, applicare a loro… In realtà, come è stato dimostrato dalla psicoanalisi, e come noi stessi abbiamo avuto tante volte occasione di constatare, queste persone non hanno superato alcune situazioni infantili, colorate di colpevolezza, e rimaste inconscie e non risolte. Non sapendo di che cosa si tratta (poiché, come abbiamo detto, le situazioni in questione sono rimosse, ossia tenute lontane dalla coscienza), quel che rimane è il «sentimento», ossia una carica affettiva flottante e virtuale, che potrebbe, da un momento all’altro, applicarsi a qualsiasi evento o motivazione. Molto spesso, tali situazioni infantili sono riferibili ad elementari fantasie e conflitti (di carattere in parte erotico, in parte aggressivo), relativi a persone familiari.
Nei casi indicati, tuttavia, la parte più evoluta della personalità del soggetto rimane intatta, e questi sa benissimo, tutto sommato, di non aver commesso nulla di riprovevole, e constata egli stesso con meraviglia i « trasalimenti » e le paure cui abbiamo accennato. Noi psicoanalisti diciamo, di tali soggetti, che il loro Io è intatto e ben funzionante ed è perciò capace di « distanziare » e di respingere ciò che un’altra parte non razionale, nevrotica, della personalità, percepisce e risente. Durante il trattamento analitico, questi soggetti riescono di solito a ricostruire e a ricordare le lontane origini dei loro sensi di colpevolezza, e a « liquidarli » sul piano adulto, facendo finalmente coincidere affettività e ragione.
Ma altri individui non riescono a far ciò. In loro, si direbbe che lo stesso « senso dell’Io » è fragile, e tale da poter essere posto facilmente a repentaglio. Sono coloro in cui i meccanismi d’identificazione possono agire in modi e forme assai più radicali di quanto avvenga nella pluralità degli individui. Se è infatti perfettamente normale una qualche lieve, momentanea identificazione con un individuo, un gruppo o un’idee (basti pensare al bambino che s’immagina generale d’armata, o all’adulto che s’immedesima con la squadra calcistica del cuore), è nettamente anormale assorbire massivamente, quasi per una subitanea incorporazione, tratti e caratteristiche di un’altra persona, sino al punto di attribuirsi pensieri od azioni dell’« altro ». Ciò può avvenire, tuttavia, in personalità psicologicamente deboli, o nelle quali sono latenti certe possibilità di « cedimento dell’Io », ad opera di potenti suggestioni individuali o ambientali.
Perchè simili processi abnormi d’identificazione possano avvenire, è necessario il concorso di varie circostanze. Occorre che la suggestione ambientale incida su un terreno psicologicamente preparato; occorre che il soggetto che riceve la suggestione abbia un Io labile e poco resistente; occorre, infine, che i tratti essenziali della suggestione stessa corrispondano in qualche modo sia pure per analogia – a ciò che è latente nelle fantasie inconsce e nei conflitti non risolti del soggetto.
In un caso da noi analizzato, un uomo perfettamente sano di mente, ma affetto da non lievi problemi psicologici personali, sognò ripetutamente di vedere un altro uomo commettere un omicidio. La vittima, in questi sogni, era sempre una donna. L’analisi riuscì senza troppa difficoltà a chiarire che il soggetto esprimeva, in tali sogni, alcune sue primordiali fantasie relative ai rapporti fra i sessi (fantasie che contrastavano, beninteso, con tutto ciò che quest’uomo sapeva e desiderava). Nei sogni in discorso, il soggetto s’identificava in qualche modo con il protagonista, e si svegliava pieno di confusione e d’angoscia, come se avesse compiuto qualche cosa di male!
Non è del tutto fuori luogo anche se, per ora, semplicemente congetturale – estendere lo schema di un meccanismo del genere a un individuo psicologicamente assai più disturbato di quello testé menzionato. Si tratterebbe, in tal caso, di una specie di « sogno vissuto ». Sotto l’impressione di un evento criminale, un Tizio potrebbe benissimo aver sentito riattivare inconsciamente, in se stesso, gli elementi di un antico conflitto tra impulsi primordiali e paure di punizione; al punto di immaginarsi addirittura protagonista dell’evento in questione, di sentirsene atrocemente colpevole, e di auto-accusarsene. In questo caso, il solo margine non decisamente patologico di tale individualità sarebbe l’incertezza, il « non essere assolutamente sicuro » di aver commesso il fatto. In altri casi, ben noti negli annali criminologici, anche questo margine mancava. Molti forse ricorderanno, ad esempio, che alcuni anni or sono, in California, avvenne un delitto classificato sotto il nome di « Dalia Nera». Le circostanze del crimine furono tali, da indurre numerose persone a costituirsi, e a proclamarsene responsabili. Le indagini successive dimostrarono l’innocenza di tutti quanti! E’ chiaro che tutti si erano identificati con l’assassino, cercando inconsciamente una punizione per qualche ipotetico crimine, ed anche (ma più superficialmente) un po’ di esibizionistica « notorietà ».
Non dubitiamo affatto che anche nel caso che ci ha qui interessato, le competenti autorità sapranno procedere con la stessa oculatezza con cui agirono quelle statunitensi, distinguendo e individuando con la necessaria prudenza le « realtà psichiche » essenziali dietro il comportamento, a prima vista così enigmatico, dell’uomo che « si accusa » e che « non ricorda ».
Emilio Servadio