Uomini aggressivi
Vita, 30 Aprile 1959
Il problema dell’aggressività umana ha preoccupato da tempo biologi, psicologi e sociologi, ed appare al giorno d’oggi straordinariamente vivo, dato che dalla sua soluzione può dipendere, in sostanza, l’estinguersi o il sopravvivere dell’umanità. Certe vedute psicoanalitiche (Freud, Klein,Bergler) parvero, al riguardo, assai sconfortanti, poiché per i citati Autori, l’uomo è non soltanto il depositano di energie distruttive primordiali, ma il bersaglio finale di un vero e proprio «istinto di morte» a lui fatalmente connaturato. Una campana un po’ meno funebre vien suonata, per fortuna, da alcune recenti opere sull’istintività biopsichica – umana ed animale – e in particolare sull’aggressività dell’homo sapiens. Già il biologo Tinbergen, qualche anno fa, aveva concluso, al termine di lunghissime investigazioni, che non aveva trovato prove di un «istinto aggressivo» per sé stante nelle specie animali; e che la più gran parte delle zuffe degli animali non avviene tra differenti specie, bensì tra elementi della stessa specie, particolarmente a causa di rivalità sessuale.
Nessuna prova. In un più recente, poderoso lavoro del sociologo Ronald Fletcher, Instinct in Man (Allen & Unwin, Londra), si ammette che l’uomo è ancora ben lontano dallo stato di «animale sociale», ma che le moderne conoscenze psicologiche danno ampie possibilità di agire beneficamente ed in tempo utile su larghe masse di individui in età formativa, neutralizzando in buona parte le cause per cui l’impulso aggressivo tende a polarizzarsi intorno a particolari motivazioni e ideologie, del tutto irrazionali. Ma l’opera più significativa ed attuale su questo grave argomento è senza dubbio quella di John Paul Scott, zoologo e sociologo, uscita quest’anno. S’intitola Aggression, e l’ha pubblicata la University of Chicago Press. Il prof. Scott vi considera l’aggressività umana da ogni possibile punto di vista -· psicologico, fisiologico, genetico, ambientale – e afferma che non vi è alcuna prova scientifica nel senso dell’esistenza, nell’uomo, di una spinta interiore, spontanea ed innata al combattimento, e che l’aggressività è comunque e sempre stimolata da forze esteriori e ambientali. La posizione teorica di Scott è molto più radicale di quella di Fletcher, il quale dedica molte pagine del suo libro alla teoria psicoanalitica degli istinti, e s’inchina con ammirazione di fronte alla lungimiranza di Freud.
Non è «homini lupus». Sul piano fenomenologico e pratico, Scott conclude che l’aggressività fra individui e piccoli gruppi può essere benissimo controllata creando condizioni ambientali che non stimolino l’aggressività stessa. L’uomo, secondo Scott, non è affatto homini lupus, ma può superare in ferocia qualsiasi lupo se le circostanze lo spingono in tal senso. Osserva Scott fra l’altro, sulla linea di vari psicologi e sociologi, che esiste una «educazione» alle abitudini pacifiche altrettanto valida e condizionante quanto quella che porta alla bellicosità. L’autore dà vani esempi e suggerimenti relativi a un training di tal genere, e sulla sua immediata applicabilità nell’attuale periodo storico. Scott si augura che tra i lettori del suo libro ci siano persone in «posizioni-chiave », le quali possano utilizzarne i dati e i suggerimenti. Sottoscriviamo all’augurio, rilevando con qualche sollievo come l’odierna scienza psicologica più avanzata e spassionata ci dia non soltanto un lume teorico di fiducia, ma ci offra altresì indicazioni concrete per non naufragare.
Emilio Servadio