Stefan Zweig L’anima che guarisce
(Mesmer, Mary Baker-Eddy, Freud). Trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Sperling e Kupfer, Milano, 1931.
Rivista di Psicoanalisi n.1 – 1932

Con questo titolo, consentito dall’Autore, è apparsa un’ottima traduzione italiana del volume Die Heilung durch den Geist, di Stefan Zweig. Sono Saggi intorno a tre diverse “incarnazioni” di un’unica esigenza, quella del guarire con mezzi psichici. E le persone della trilogia (Mesmer, Mary Baker-Eddy, Sigmund Freud), che son veramente tra le più interessanti figure storiche di psicoterapeuti, ben meritavano di essere studiate da un punto di vista non puramente tecnico, presentate come individui e non soltanto come fondatori di scuole e di teorie. Giova anzi dir subito, a questo proposito, che le preoccupazioni stilistiche ed estetiche – ben naturali in un letterato – non hanno impedito allo Zweig di veder chiaro nelle dottrine dei suoi biografati e di dimostrarsi ancora una volta uomo acuto e informato al pari di pochi.
Sin dalle prime battute del saggio che tratta di Mesmer si assiste alla distruzione della vieta immagine di un Mesmer ciarlatano, imbroglione, pescatore d’acque torbide, generalmente diffusa sin verso la fine del secolo decimonono e anche oggi accolta da una quantità di medici e di persone di scienza. Le “carte” di Mesmer sono in piena regola: dottore laureato in filosofia e in medicina a Vienna, studiosus emeritus di teologia a Ingolstadt, la sua personalità fisica e morale nulla ha di comune con quella, p.e., di un Cagliostro o di un conte di Saint-Germain. “Persino i suoi colleghi, i dottori viennesi” – scrive lo Zweig – “apprezzavano Franz Anton Mesmer quale medico eccellente – per vero dire sino all’istante in cui ha l’audacia di cercare una propria via e di fare delle scoperte che commuovono il mondo senza il loro permesso. Allora, d’un tratto, è finita la benevolenza e scoppia una lotta per la vita e per la morte”. Quali siano le vicende di questa lotta è – o dovrebbe essere – abbastanza noto: dapprima le cure col ferro calamitato, a somiglianza di quelle praticate dal padre gesuita Hell, poi quelle “con il semplice sfioramento, sia mediato che immediato, delle parti ammalate” (lettera del consigliere accademico Osterwald da lui guarito, 1776), ossia con il “magnetismo animale”. La guarigione della signorina Paradies, cieca dall’età di quattro anni, determina “aspri interventi della classe medica”, e la Facoltà riesce a provocare l’ordine che “si debba porre fine alla ciurmeria”. Mesmer va allora a Parigi, e qui la sua personalità diventa per alcun tempo quella dominante. Un’idea poi, se feconda, va sempre oltre colui che la difende per primo. Mentre Mesmer è in lotta con le Accademie, il conte De Puységur scopre il sonnambulismo artificiale, aprendo la via, seppure inconsapevolmente, ai futuri studi della vita psichica inconscia; e se Mesmer è costretto a lasciar la Francia durante la Rivoluzione, se le polizie di Costanza e di Vienna lo perseguitano, se gli è mestieri cercare rifugio in un paesetto della Svizzera, ed ivi, dimenticato da tutti, guadagnarsi miseramente la vita facendo il medico di campagna, le sue teorie vengono sotterraneamente studiate, da ricercatori che non sanno uno dell’altro, e che ignorano spesso il fondatore, tanto da non ricollegare neppure più il termine mesmerismo al nome di Mesmer. E finalmente l’Accademia di Berlino, nel 1812, riapre un’inchiesta sul magnetismo. “I commissari alzano gli occhi sorpresi quando, inaspettatamente, uno dei membri, durante una seduta, espone la proposta naturalissima di far venire in persona a Berlino lo scopritore del magnetismo, Francesco Antonio Mesmer, perché voglia giustificare e chiarire il proprio metodo. Come, dicon tutti stupefatti, Mesmer è ancora al mondo?”… E lo invitano a presentarsi, a farsi incontro alla gloria che lo attende. Ma Mesmer, vecchio, stanco, rifiuta; e solo acconsente a dare al prof. Wolfart (che quattro anni dopo pubblicherà un libro sull’argomento) ampie notizie intorno alle proprie dottrine ed esperienze. Tornato a Costanza, Mesmer vive ancora serenamente un paio d’anni, e muore ignorato da tutti, sepolto senza fasto alcuno.
Le vicende delle teorie di Mesmer, i movimenti d’idee che ne derivarono, le discussioni che ancor oggi debbono riferirsi ai suoi esperimenti non potrebbero essere certo riassunte qui in qualche riga, e le poche pagine che vi dedica lo Zweig ne danno appena un aperçu.

La vita di Mary Baker-Eddy si confonde con la sua dottrina assai meno che non quella di Mesmer (per tacere di Freud, la cui esistenza di privato ha, come tutti sanno, scarsissimo rilievo). La fondatrice della “Christian Science” ha avuto, come suol dirsi, una vita avventurosa ed eccezionale. Bene ha fatto quindi lo Zweig ad insistere sul suo “ritratto”, dato anche lo scarso contenuto teorico degli insegnamenti da lei impartiti. Ne sono nate pagine splendide, migliori in genere di quelle su Mesmer, e inferiori solo a quelle, che riteniamo insuperabili, con cui s’inizia il saggio su Freud.
Su Mary Baker-Eddy esistono parecchie biografie: lo Zweig accenna di sfuggita a tre di esse che sono effettivamente le principali. Una è apologetica (Wilbur, The life of Mary Baker-Eddy, 1908); l’altra è una “stroncatura” in piena regola (G. Milmine, The life of Mary Baker-Eddy and the History of Christian Science, 1909); la terza è – si potrebbe dire – veristica (A. Dakins, Mrs. Eddy. The Biography of a virginal mind, 1929). Con questo materiale, cui vanno aggiunti i vari Peabody, Mayor, ecc., il compito era qui meno difficile che nel caso di Mesmer, per quanto riguarda la pura documentazione. Anche lo Zweig si attiene, in sostanza, alla via di mezzo: non lasciandosi irritare dalle pazzie e dalle “inconsequences” di questa stranissima donna, né abbagliare dal successo di una dottrina che conta gli adepti a migliaia e i capitali a milioni. Seguiamo così la giovane Mary Baker nei suoi atteggiamenti di piccola Bovary del New Hampshire: incompresa, isterica; poi nella sua felice ma brevissima unione con Washington Glover, morto dopo un anno e mezzo di matrimonio. Ospite sgradita e ingombrante, perché eterna malata più o meno immaginaria, la raccoglie il fratello. Le sue nuove nozze con un certo Patterson, fatto prigioniero nella guerra di secessione, non le danno né la guarigione né la tranquillità. Finalmente la quarantenne affranta e sfiduciata si reca, in uno sforzo estremo, a Portland, a trovare Quimby, ex orologiaio e pseudo-dottore, il quale cura “mutando il punto di vista erroneo del malato” e anticipando di qualche decennio le “conversazioni” della psicoanalisi. Il consulto opera un miracolo: Mary Baker guarisce di tutti i suoi mali. Alcuni fogli scarabocchiati di Quimby costituiscono le fonti della nuova dottrina che ella sta per lanciare. Non si occupa più d’altro: “Quimby, Quimby, Quimby e la guarigione per mezzo dello spirito: ciò rimane per anni il suo pensiero fisso, la sua unica parola… Mary Baker è uno dei più caratteristici esemplari di monomania, nell’ambito della “storia psichica”. Ma la monomania, si sa, o porta al manicomio o trascina le masse; e Mary Baker, con predicazione prima limitata e involuta, poi sempre più incalzante e decisa, si fa largo, abbattendo ogni ostacolo, contraddicendosi se è necessario, abbandonando gli alleati del giorno innanzi, rinnegando persino Quimby al quale deve tutto. Trasferitasi a Boston, la sua storia si confonde con quella della “Christian. Science”. Alla “Mother” viene innalzata, vivente, una chiesa. Altre ne sorgono in varie città degli Stati Uniti.
Se da un lato lo Zweig insiste sulla illogicità di una simile esistenza, sull’assurdo di una tale dottrina, dall’altro egli vuol riconoscere che anche nel “sistema” (se così può chiamarsi) di Mary Baker-Eddy vi sono principi non disprezzabili: principi che verranno ripresi in parte dal Coué. Qui ci permettiamo di dissentire un poco dall’illustre biografo. Il Coué, con tutta la “nuova scuola di Nancy”, non si è mai sognato di dire che la malattia è un’illusione, bensì ha affermato che spesso essa può essere vinta per via psichica, mediante l’autosuggestione cosciente. Anche ammettendo che i procedimenti terapeutici della “Christian Science” si fondino sul meccanismo della suggestione, la differenza non starebbe dunque nelle applicazioni, sebbene proprio nei principi. Che il valore teorico della “Christian Science” sia nullo, su questo non può cader dubbio, e il fenomeno è solo interessante dal punto di vista della demopsicologia e da quello di chi consideri come un’idea, sostenuta e affermata fino allo spasimo, finisca col diffondersi e col “prender corpo” ; frase, quest’ultima, che non è forse soltanto un’immagine astratta, ma può corrispondere ad un certo e specifico ordine di realtà.

Dopo i due saggi su Mesmer e Mary Baker-Eddy, la figura di Freud, vero e geniale scienziato, appare maggiormente sobria e maestosa. Anzitutto le prime pagine, che prendono in esame “la situazione spirituale al tramonto dell’Ottocento”: in esse la “ridicola mummia della moralità di anteguerra” viene riesumata e ne appare tutta la vergognosa e deleteria ipocrisia. In periodi serrati, convinti, densi d’idee e ricchi d’esperienza, lo Zweig dimostra la miseria della concezione ottocentesca della moralità e della sessualità, per cui “basta celare una cosa perché non esista più”; si scaglia contro l’empia pedagogia”, che “artificiosamente e contro natura esclude l’adolescente, da ogni forma di sincerità”, e contro la terapia sessuologica, che cura gli anormali col bromuro e le docce, salvo, nei casi più gravi, ad abbandonarli ai ricattatori o alla galera. Tanto più appare eroica, dopo questo preambolo efficacissimo, la figura di Freud, la cui voce osa per prima rompere la vile congiura del silenzio e che, incurante degli sdegni accademici e dell’incomprensione pressoché universale, prosegue imperterrito la sua strada, sinché un gruppo sempre maggiore di seguaci non dà alla psicoanalisi da lui fondata un riconoscimento tanto pieno quanto tardivo. Mettendo da parte tutti i “se” ed i “ma” con i quali i poveri di spirito cercano di limitare quel che non comprendono, lo Zweig afferma solennemente che il metodo proposto da Freud “ha dato nuovo indirizzo a tutti i problemi basilari della nostra cultura: alla loro genealogia”. E ciò va proclamato tanto più alto e forte, a nostro avviso, in quanto la tendenza di molte talpe che ancora affliggono la nostra cultura è proprio quella di voler confinare l’opera di Freud al campo strettamente medico. Invece è vero proprio il contrario: “che Freud per caso abbia fatto breccia nella muraglia cinese dell’antica psicologia dal lato della medicina è storicamente esatto, ma non è essenziale per l’opera sua”.
Ciò premesso, lo Zweig ci dà un rapido ritratto dell’uomo; ricorda l’austerità della sua vita, la sua prodigiosa capacità di lavoratore, l’elemento “genialmente demoniaco” che vibra sotto quell’apparente tranquillità. Esamina quindi, intus et in cute, la dottrina, e dimostra di conoscerla come un psicoanalista. Il mondo dell’incosciente, l’interpretazione del sogno, la tecnica psicoanalitica, il mondo del sesso, costituiscono altrettanti capitoli illustrativi di cristallina trasparenza. Le ultime pagine in cui si riassumono le più recenti vedute del Maestro (esposte nei volumi Die Zukunft einer Illusion e Das Unbehagen in der Kultur) raggiungono l’efficacia delle prime. Giunto a identificare il conflitto perenne fra l’istinto e la ragione, tra gli impulsi dell’inconscio e le limitazioni sociali, Freud termina con una conclusione ottimistica sì, ma come un “piccolo lume nel buio, che oscilla lontano ed incerto”; egli dice, infatti: “il primato dell’intelletto si trova in una regione ben remota, ma probabilmente non irraggiungibile”. E qui ci troviamo, osserva acutamente lo Zweig, “di fronte al confine vero ed insuperabile della psicoanalisi: dove comincia il regno delle tendenze interiori, delle persuasioni feconde, là finisce il suo potere”. Alla “fame dell’anima di trovare una fede” la psicoanalisi non può offrire alcun cibo.
Dall’esposizione dello Zweig emerge quanto mai il merito di Sigmund Freud di essere penetrato più a fondo di ogni altro nel mistero psicologico, di aver squarciato la nebbia impura che impediva lo studio sereno e la giusta valutazione della vita sessuale, di aver riportato in un’epoca di divellamento e di disprezzo per il singolo il rispetto della personalità. A Stefan Zweig spetta qui il vanto di aver riconosciuto e fatto riconoscere, attraverso tre figure diseguali ma ispirate dal medesimo soffio, il valore e la potenza indistruttibili dell’Anima umana.
EMILIO SERVADIO.

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